I rischi sui debiti e i lati oscuri del “salva Stati”

di Barbara Spinelli

«Il Fatto Quotidiano», 4 dicembre 2019

Col passare dei giorni, le discussioni attorno al Meccanismo Europeo di Stabilità – alias Fondo salva-Stati – si fanno più confuse invece di chiarirsi, e i cittadini faticano a farsi un’idea sulla vera natura dell’accordo fra Stati dell’eurozona.

Invece di rispondere ai molti dubbi espressi da esperti e addetti ai lavori, i principali politici e giornalisti dirottano l’attenzione sulla natura ideologica dello scontro – sovranisti contro europeisti, M5S accusato di rimpiangere la Lega – senza preoccuparsi di studiare a fondo i quesiti, di esaminare le obiezioni di merito e di leggere, almeno, il Trattato rivisto così come è stato negoziato. Trattato per alcuni versi migliorato, per altri peggiorato.

Come accade sin dall’inizio della crisi greca e delle politiche di austerità, le condizioni di funzionamento del Mes vengono presentate come ineluttabili: affermazione impropria, che tra l’altro sorvola sulla necessaria ratifica finale di tutti i Parlamenti dell’area euro. Ha contribuito alla confusione il tardivo risveglio sia di Lega sia di 5Stelle, le cui obiezioni non furono esposte all’opinione pubblica durante i negoziati, dando l’impressione di un subitaneo scontro che non riguarda il Mes, ma la sopravvivenza del governo 5Stelle-Pd-LeU. La lezione greca ha insegnato poco, e la ricetta neoliberale viene riproposta pur non avendo generato crescita né giustizia sociale. “Le cattive idee hanno una morte lenta”, constata l’economista Stiglitz.

Quel che in effetti colpisce è la permanenza dei vecchi parametri di stabilità. Nel Trattato vengono ribaditi, nonostante i cambiamenti promessi da alcuni governi: l’accesso ai crediti cosiddetti precauzionali presuppone tra altre pesanti condizionalità un deficit non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico sotto il 60% (allegato nr. 3 del Trattato). Andrebbe ricordato che fin dal 2001 Prodi definì “stupidi” i parametri, e nel 2013 disse al Sole 24 Ore: “Non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati 20 anni”.

Riassumiamo a questo punto i principali difetti elencati dagli esperti.

Quelli esposti da Ignazio Visco in prima linea, che non è ostile al Mes, ma ha indicato i pericoli legati alla ristrutturazione del debito in caso di sua acclarata o sospetta non sostenibilità (la ristrutturazione è un rinegoziato su condizioni e scadenze del debito: un’insolvenza “pilotata”). Vero è che la ristrutturazione non sarebbe automatica, ma diventa obbligatoria se il Mes giudica insostenibile un indebitamento. La sostanza non cambia molto e Visco parla addirittura di enormi rischi: “I piccoli e incerti benefici di un Meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena”. Rischi simili sono temuti dall’Associazione bancaria (Abi), che detiene la maggior parte dei titoli di Stato.

Non meno interessanti le criticità enumerate il 6 novembre – in un’audizione alla Camera – da Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani. Anch’egli è contro il veto al Mes, sottolineando aspetti virtuosi come la rete di sicurezza per le banche in crisi (il cosiddetto backstop), ma non nasconde i vizi dell’impianto.

Il primo concerne il passaggio dell’asse del potere economico nell’Eurozona dalla Commissione Ue al Mes, che diventa un organo con funzioni di vero sovrano e prestatore di ultima istanza. Questo spostamento, e la natura intergovernativa del Mes, eliminano ogni controllo da parte del Parlamento europeo e anche il costante coinvolgimento dei Parlamenti nazionali suggerito nel 2016 dall’Istituto Delors e dalla Fondazione Bertelsmann. Diminuisce anche, a nostro parere, la possibilità di un’intromissione della Corte europea di giustizia in politiche non più condotte in prima persona da organi comunitari (Commissione o Bce), e di cui non sarebbe semplice valutare la compatibilità con il diritto europeo e la Carta dei diritti fondamentali (compatibilità su cui la Commissione deve vegliare, secondo la sentenza Ledra della Corte).

Quanto alla ristrutturazione preventiva del debito, Galli la elenca fra le criticità “preoccupanti” perché indicata come “precondizione pressoché automatica” per ottenere i finanziamenti. A suo parere, l’idea che si debba stabilire una regola che obblighi alla ristrutturazione un Paese che chiede l’accesso ai fondi del Mes e abbia un debito giudicato non sostenibile, è stata espressa ripetutamente da esponenti tedeschi (tra cui il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann). Condizionando gli aiuti a una ristrutturazione preventiva si eviterebbe quell’effetto di azzardo morale che sarebbe il motivo per cui alcuni Paesi non hanno fatto l’aggiustamento di bilancio. L’idea dunque è che prima di fare operazioni che comportino condivisione di rischi – assicurazione comune sui depositi, bilancio più forte dell’Eurozona – occorra indurre i Paesi devianti a ridurre i rischi. I prestiti precauzionali a favore dei Paesi che hanno bilanci in ordine sono facilitati, ma a tutti i costi si deve evitare il contagio da parte di paesi giudicati potenzialmente inaffidabili.

Nulla è del tutto immodificabile, a dispetto di quanto detto dal ministro Gualtieri. Sarà possibile esprimere riserve, e almeno attendere risultati paralleli (Unione bancaria, assicurazioni dei depositi, fiscalità comune). È il metodo del pacchetto prospettato dal presidente del Consiglio Conte. Sarà utile cercare alleanze, e sondare anche i nuovi dirigenti socialdemocratici in Germania.

Comunque si tratta di uscire da una fraseologia disorientante perché troppo contraddittoria (il Mes è un progresso ma contiene “enormi rischi”; i parametri sono “stupidi ma necessari”: Prodi 2001)

Dicono che sia in gioco la credibilità italiana, quando in gioco è quella dell’Unione. Come spiegò molto bene la Fondazione Heinrich Böll (rapporto di Ricardo Cabral e Viriato Soromenho-Marques, 2018) il Mes adotta il paradigma del Fondo Monetario (prestiti basati su condizionalità socialmente dirompenti). Nei negoziati del 1944, Keynes si oppose a preventive politiche di austerità per i debitori, e difese “una soluzione secondo cui il peso dell’aggiustamento doveva cadere molto più sulle nazioni creditrici con forti surplus dei conti correnti”. Sconfitto Keynes prevalse la posizione Usa, primo Paese creditore. Lo stesso scenario si presenta oggi, nonostante i ripetuti fallimenti del Fmi.

© Editoriale Il Fatto S.p. A.

Riprendere in mano l’Europa (dai poteri forti)

Barbara Spinelli in conversazione con Lorenzo Marsili, direttore e co-fondatore di European Alternatives. Il testo è stato pubblicato sul sito di DiEM25 e su openDemocracy (in inglese)

 

Nella tua risposta a Verhofstadt hai sostenuto che prima di iniziare a parlare di un cambiamento costituzionale dell’assetto europeo è necessario mettere in campo politiche in grado di recuperare la fiducia della cittadinanza verso il progetto europeo. Altrimenti, qualunque progetto di riforma dei Trattati rischierebbe di essere definitivamente affossato dalla sfiducia verso l’UE. Questo approccio “dei due tempi” è anche alla base del manifesto di DiEM25 – stabilizzazione dell’Eurozona prima, riforma costituzionale poi. Ci puoi dire che riforme pensi sia necessario mettere in campo per recuperare la fiducia verso il progetto europeo?

È del tutto insensato, se davvero si vuol difendere il progetto europeo, procedere a revisioni istituzionali prima di cambiare, e in maniera radicale – non rattoppando qua e là una tela già completamente stracciata – le politiche che ci hanno condotto a questa crisi che somiglia a quella degli anni Trenta perché non è solo economico-finanziaria, ma è in primo luogo sfacelo democratico, disintegrazione delle società, perdita di orientamento e di speranze vissuta dall’insieme dei cittadini europei. È finito il federalismo istituzionale, ancor oggi aggrappato alla convinzione che basti modificare i rapporti di forza tra i diversi organi dell’Unione per aggiustare le cose: per molti versi questa rivoluzione c’è stata, è ancor oggi in corso, e sappiamo che ha già prodotto quello che Jürgen Habermas chiama il «federalismo post-democratico degli esecutivi ». Lo sfacelo e la decomposizione dell’Unione sono così vasti, che l’ordine delle priorità deve mutare: la politics non perde di importanza, ma prioritaria oggi è la policy. La politics sarà sperabilmente di natura federale, ma dovrà essere la conseguenza e la formalizzazione di un fondamentale ripensamento delle politiche fin qui adottate: in campo economico, finanziario, nella gestione delle troppo esigue risorse proprie dell’Unione, nella democratizzazione-trasparenza effettiva, non più solo proclamata, di tutte le comuni istituzioni.

Precisamente questo viene rifiutato dai poteri costituiti dell’Unione, e tale rifiuto appare in modo palese in ambedue le risoluzioni su cui si sta lavorando nel Parlamento europeo: sia nel rapporto Verhofstadt sulla trasformazione dei Trattati, sia in quello – parallelo – che analizza quel che si può fare a Trattati costanti (i relatori sono Mercedes Bresso ed Elmar Brok, rispettivamente del gruppo Socialista e Popolare). L’idea di fondo dei due rapporti è evidente: occorre innanzitutto inserire nei Trattati i vari accordi economici stipulati da quando è iniziata la grande crisi, nel 2007-2008. Apparentemente lo scopo è democratico: il Parlamento europeo non ha alcun potere di co-decisione ed è quindi emarginato, ogni volta che gli accordi sono intergovernativi. E la tendenza degli Stati membri è di accrescere il numero e il peso di simili accordi: è una via privilegiata da governi che sempre meno sopportano la vigilanza dei Parlamenti nazionali come di quello europeo. È quanto sperimentato col Patto di bilancio europeo e anche con l’accordo UE-Turchia, ribattezzato “statement” proprio per evitare che, come trattato, fosse sottoposto al voto dei Parlamenti, sia quelli nazionali sia quello europeo.

Nella realtà la soluzione si configura come pura tecnica, priva di ambizioni trasformatrici. Heidegger diceva che l’essenza della tecnica non è mai tecnica, e che se tale essenza non è individuata, se ci si ostina a contrabbandare la tecnica come neutrale, si resta incatenati a essa e se ne diventa schiavi. Per questo parlo di insensatezza: ma insensatezza volontaria, simile alla schiavitù volontaria. Siamo arrivati a un punto di svolta nell’Unione, a un tipping point, e l’ossessiva insistenza sul metodo istituzionale – intergovernativo o comunitario o “unionale” che sia – non solo è insufficiente. È il mascheramento tecnico di una sostanza politica che non cambia, di un progetto europeo che non vuole diventare né politico né democratico, ma deliberatamente tende a costituirsi come programma di dominio oligarchico. Per fare un esempio, il Fiscal Compact sicuramente non migliora o diviene più giusto o tale da produrre buoni risultati, se lo integriamo sic et simpliciter nei Trattati e lo consideriamo materia del metodo comunitario invece che intergovernativo. In mano ci rimarrà una politica dell’austerità che ha fallito, e che tra l’altro comincia a essere criticata perfino dagli uffici studio del Fondo Monetario Internazionale. Né le cose migliorano se avremo un ministro europeo del Tesoro, per l’area euro o per l’Unione. Anche questa è tecnica utile al mascheramento di politiche che non mutano, e di poteri che non tollerano di essere vigilati.

In altre parole, siamo davanti a una precisa strategia: l’obiettivo consapevolmente perseguito non è un governo democratico normale, ma una governance. Non è l’interesse di tutti, ma di piccole cerchie e di poteri forti ben protetti dalle incognite del suffragio universale e dalle regole legate agli interni equilibri della democrazia costituzionale. Le stesse costituzioni antifasciste tendono a subire questa involuzione oligarchica, intesa a rafforzare al massimo gli esecutivi, a ridurre drasticamente il ruolo di ogni contrappeso: parlamentare, giudiziario, sindacale, dei mezzi d’informazione. Precisamente questo chiedeva la J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013: il congedo da ordinamenti costituzionali nati dall’esperienza antifascista, soprattutto nelle periferie Sud dell’Unione, e considerati “inadatti a un’ulteriore integrazione” della zona euro. I fattori di disturbo elencati dalla J.P. Morgan sono chiaramente esplicitati: esecutivi deboli, Stati centrali indeboliti dai poteri regionali, protezione costituzionale dei diritti del lavoro, diritto alla protesta contro cambiamenti sgraditi dello status quo. Il referendum sulla Costituzione italiana, che il governo di Matteo Renzi ha annunciato per il prossimo autunno, e l’annessa riforma elettorale, vanno in questa direzione. L’approdo su scala europea, come si è visto, è il federalismo postdemocratico degli esecutivi.

Ma perché, dopo anni di fallimenti e mezze riforme che nulla hanno fatto se non aggravare i problemi, dovremmo sperare nell’illuminazione dell’establishment? Nessuna proposta ambiziosa è passata indenne da quel luogo degli orrori che è il Consiglio europeo. Ventotto Paesi, ciascuno dei quali detentore del diritto di veto, molti governati apertamente da forze nazionaliste o xenofobe e alcuni vittima di profonde ossessioni economiche. Abbiamo già vissuto tutto: le proposte di un piano di investimento ridotte al risibile piano Juncker; un accordo sulle migrazioni ridotto a qualche centinaio di ricollocamenti dalla Grecia e una tangente al premier turco Erdogan. E via così passando per l’inutile Garanzia Giovani e la fallimentare Unione Bancaria. Perché dovrebbe essere diverso questa volta? Cosa si può fare per mettere in moto quello scarto necessario per attivare politiche ambiziose a Trattati vigenti? 

È chiaro che i Trattati vigenti non bastano. Che occorre un’autentica Costituzione: non più firmata dai governi degli Stati membri ma che cominci come quella statunitense: «We, the people…». Prima tuttavia vanno cambiate le politiche, e come farlo con le istituzioni esistenti? Sono convinta che una democratizzazione del loro funzionamento possa essere un primo passo avanti, anche se di sicuro non l’unico. Se i capi di governo, i capi di Stato, i ministri, i commissari, gli stessi parlamentari si sentissero sotto osservazione, «guardati» in permanenza da cittadini bene informati (dunque “illuminati”, secondo Kant: trattati come adulti), avrebbero qualche difficoltà a condursi come oligarchia. Non sarebbe possibile all’eurogruppo di prendere decisioni contro il parere di uno Stato membro, come avvenne dopo una riunione del 27 giugno 2015 quando l’allora ministro dell’Economia Yanis Varoufakis chiese che le obiezioni greche fossero almeno messe agli atti, e i servizi legali dell’Unione risposero che non era possibile, visto che “L’Eurogruppo non è menzionato nei Trattati UE e opera come un raggruppamento informale. Come tale non è soggetto ad alcuna regola scritta”.

Dai cittadini, e non solo dal Parlamento europeo, potrebbero venire piani concreti di trasformazione del progetto europeo, anche se la trasparenza non è tutto. I cittadini chiedono di più. L’unica cosa in cui oggi crederebbero è un vero New Deal europeo, che crei posti di lavoro e lotti contro povertà e disuguaglianza in crescita ovunque. Sono tante le proposte: da quelle illustrate da Yanis Varoufakis, a quelle indicate a suo tempo dall’Iniziativa cittadina “New Deal 4 Europe” (tassa sulle transazioni finanziarie e carbon tax per programmi di investimenti in uno sviluppo ecologicamente alternativo). Solo avviando un New Deal sapremo anche far fronte alla questione rifugiati, costruendo con loro un’economia solidale ed evitando di ricadere nella xenofobia, nel razzismo e nella violenza diffusa.

D’accordo, ma quali soggetti sono secondo te in grado di mettere in campo lo scarto necessario? Sentiamo a ripetizione le esortazioni a costruire “un’altra Europa”, in ultimo anche dallo stesso Matteo Renzi, ma a questa retorica non crede più nessuno. I partiti nazionali non sembrano interessati o capaci di andare oltre la semplice retorica euro-critica (ci ricordiamo, ben prima di Renzi, che fu Hollande a promettere una trasformazione delle logiche dell’austerità – ci troviamo ora con la Loi Travail e lo Stato di Emergenza). I partiti transnazionali – accrocchi che mettono insieme sigle nazionali senza una vera strategia o campagna condivisa – si sono dimostrati incapaci di guidare un riscatto democratico, basti pensare alla vicenda greca la scorsa estate. Bisognerebbe forse iniziare a immaginare un vero partito europeo? O forse, anche verso le prossime elezioni europee, provare a costruire un “fronte democratico” che porti assieme più forze con un semplice programma di riforma radicale dell’Unione? Insomma, come andare oltre la semplice retorica e mettere in campo una strategia di rottura di uno status quo che giustamente definisci, con i termini di Habermas, “federalismo esecutivo post-democratico”?

In realtà i soggetti ci sono, basterebbe avere una buona vista, e il linguaggio, la curiosità, la capacità di ascolto, i punti di ritrovo infine, che sono necessari perché si possa dir loro, alla maniera dei vecchi profeti: Eccoci, siamo qui non solo e non tanto per «rappresentarvi», ma per far conoscere e diffondere quello che pensate, che temete, che esigete, che vi ha delusi, che vi succede. La guerra di classe non è finita, anche se naturalmente la questione sociale si presenta con altre vesti. Non solo manca la rappresentanza di tali soggetti, non solo dobbiamo fare i conti con un’ampia offensiva dei poteri forti contro i più diversi organi intermedi della società, ma c’è qualcosa di più: la divisione oggi non è tra chi sta «sopra» e chi «sotto» – la metafora dell’ascensore sociale possiamo scordarcela– ma tra chi sta dentro e chi è «fuori», non tanto sottomesso quanto estromesso. La parola che traduce meglio questo star fuori l’ha detta Saskia Sassen: non è emarginazione e neanche più sfruttamento, ma è brutale espulsione. Siamo di fronte alle vecchie classi impoverite, a una classe media declassata e in preda allo spavento, a nuove classi che addirittura vengono private di un nome, e tutte ci dicono, come il Commendatore nel Don Giovanni: “Ah, tempo più non v’è”. A tutte queste bisogna parlare, evitando di cadere noi stessi nella negazione della realtà che stigmatizziamo.

Inutile continuare a nascondere il fatto che il fallimento dell’esperienza di Syriza ha inferto una ferita penetrata nel profondo, al punto che milioni di cittadini non credono più in possibili alternative, e giustamente hanno l’impressione che perfino il suffragio universale sia stato offeso e vanificato. Inutile nascondersi che la democrazia stessa ne esce con le ossa rotte, e indignarsi se sono tanti a reagire aggrappandosi solo al suffragio universale, dimenticando spesso che le nostre Costituzioni (in Italia e Germania in primis) iscrivono la democrazia maggioritaria nel reticolato cogente della rule of law e dell’equilibrio tra poteri, compreso il potere popolare maggioritario.

Sono convinta che le vicende greche sono state decisive, e hanno pesato moltissimo sul Brexit voluto da un gran numero di elettori che si sono detti, spesso senza calcolare le forze effettive della Gran Bretagna: quel che Atene non è riuscita a fare (la sovranità popolare ritrovata), noi come nazione abbiamo la forza e il peso strategico per compierlo sino alla fine. La capitolazione del governo Syriza dopo il referendum del 5 luglio 2015 va riconosciuta e raccontata come tale, come vera e propria «scena primaria» che scombussola il bambino che immaginava i genitori asessuati, dunque «innocenti». Una volta percepita la scena primaria puoi non tenerne conto, far finta di non accorgertene: l’effetto rimane ed è rovinoso se non ne esci con qualche accorgimento.

Voglio dire che la negazione della realtà è anche un nostro difetto, e devastante. La cesura greca continua a essere dissimulata, peggio ancora rimossa se non addirittura imbellita dalle stesse sinistre radicali che rivendicano un’«altra Europa». Quel che dobbiamo ritrovare è un rapporto con la realtà e le cose vere che essa ci dice: la realtà di un’umiliazione che Syriza non ammette, la realtà del successo di Donald Trump, la realtà del Brexit, la realtà di una società polacca che non ha più sopportato le menzogne pseudo liberali delle élite postcomuniste e ha dato la maggioranza a Jaroslaw Kaczynski e al PiS. Da qui bisogna ripartire, da quest’irruzione del principio di realtà, se vogliamo contrastare la riedizione degli anni Trenta.

Mi chiedi cosa si possa fare in concreto per costruire un partito europeo transnazionale, e una sorta di «fronte popolare» che nelle prossime elezioni europee si presenti con un programma di rottura con i poteri costituiti nell’Unione. Innanzitutto dobbiamo chiarire alcuni concetti, ponendo anche a noi stessi le domande chiave: cosa voglia dire precisamente riprendersi la sovranità; come salvaguardare la distinzione tra sovranità popolare e sovranità nazionale; quale sia il costo della non-Europa; quali siano le domande delle classi impoverite o senza più nome; cosa significhi la strategia di rottura di cui parli, e se esistano Stati e amministrazioni locali in grado di disobbedire alle assurde regole imposte da esecutivi nazionali o europei che pretendono di governarci.

Poi c’è da rispondere alle paure che di certo sono infiammate ad arte dai poteri forti, ma che sono pur sempre paure. Mettiamo l’immigrazione e i rifugiati: dobbiamo condannare l’indecenza dei muri e dei respingimenti collettivi predisposti con la complicità degli Stati oltre che della Commissione, e denunciare l’interesse di questi ultimi alla nascita di un’estrema destra da usare come spauracchio, ma al tempo stesso bisogna togliere la paura ai cittadini perché anch’essa è “realtà”. È urgente impostare una diffusa campagna contro questa paura: capendone i meccanismi, aiutando a vincerla con argomenti razionali, e spiegando che il “mostro” che ci si accampa davanti non è la questione rifugiati ma la questione dell’Europa che non funziona. Nessun governo, nessuna istituzione europea, nessun giornale mainstream ricorda ai cittadini che i rifugiati arrivati nell’Unione rappresentano solo lo 0,2 per cento delle sue popolazioni. Bisogna rompere con le regole, ma anche rassicurare i cittadini. Inutile rispondere che contro neofascismo e razzismi «mobiliteremo le masse», perché le masse in questione non esistono più e da decenni hanno in gran parte smesso di votare.

Questo ci sembra di avere imparato negli ultimi anni: è il processo decisionale europeo, tra l’altro in questi anni fortemente rivisitato su base inter-governativa, a rendere difficile una risposta coerente alle crisi che attanagliano il nostro continente. A un certo punto dovremmo arrivare a parlare di riforma dell’assetto costituzionale europeo e dei Trattati. Ma è un percorso pieno di insidie. Il cosiddetto “piano Schäuble”, ossia integrazione dell’Eurozona attraverso la nomina di un ministro del tesoro europeo con la responsabilità di far rispettare i limiti di bilancio e i dettami dell’austerity, sembra un passo nella direzione sbagliata. Ma anche una tradizionale Convenzione europea – spettacolo grigio di burocrati e diplomazie nazionali – rischia di risultare in un buco nell’acqua. In molti parlano di Assemblea costituente, ossia un consesso direttamente eletto dai cittadini europei. Altri ancora, come Piketty, promuovono l’idea di un Parlamento dell’Eurozona. Che te ne pare? 

Sono d’accordo con l’idea di un’Assemblea costituente, ma senza affidare il progetto a consulti intergovernativi. Già una volta, nel 1984, un progetto costituzionale avanzato dal Parlamento europeo fu in tal modo deturpato e devitalizzato.

Il Piano Schäuble di cui parli imbocca ben altra strada. Non si limita nemmeno più a preconizzare un ministro europeo del Tesoro. Da quando la Gran Bretagna ha votato il Brexit, Schäuble raccomanda il ritorno all’Europa intergovernativa, alla vecchia “balance of power” che causò nel secolo scorso due guerre mondiali. Prende congedo da ogni visione federale, pur di salvare e proteggere le politiche di austerità che sono state imposte in questi anni. La stessa parola “visione” è aborrita: la parola d’ordine, secondo Habermas, è oggi la seguente: “Niente più visioni, tutto è ormai questione di Lösungskompetenz”, di “solution skills”. Lo scopo che si prefigge Schäuble, e con lui l’establishment tedesco, è il consolidamento e la definitiva vittoria dell’ordo-liberalismo. Secondo la teoria ordo-liberale, nata fra le due guerre nella Scuola di Friburgo, “tenere in ordine la casa nazionale” è la condizione necessaria e sufficiente perché ci sia un ordine internazionale: prima ogni Stato deve riordinare i propri conti, e solo dopoverranno le risorse economiche messe in comune, i piani di cooperazione, i New Deal stile Roosevelt, e in Europa l’unione politica federale o “più stretta”. Nelle sedi internazionali non si deve decidere alcunché in comune; al massimo ci si informa, e i più forti impongono aggiustamenti ai più deboli. La dottrina della casa in ordine è un’altra tecnica che dovremmo studiare da vicino, per scoprirne la più vera essenza. L’essenza è il ritorno puro e semplice al nazionalismo. Un nazionalismo che rischia di contaminare anche il pensiero delle sinistre contrarie all’austerity, nel Paesi dell’Unione. A queste sinistre, nei Paesi membri e nel Parlamento europeo, mi sentirei di dire: attenzione, nelle battaglie per l’”uscita” dall’euro, o dall’Unione, rischiate di ritrovarvi come compagno di banco il nazionalismo appena mascherato di Wolfgang Schäuble.

Sui recenti sviluppi in Grecia

Strasburgo, 8 settembre 2015. Intervento di Barbara Spinelli in occasione dell’incontro del Gruppo Parlamentare GUE/NGL nel corso della Sessione Plenaria di Strasburgo.

Relatori per il gruppo GUE-NGL: Dimitris Papadimoulis (Syriza, Grecia), Nikos Chountis (Unità Popolare, Grecia)

Su una cosa sono d’accordo con quanto emerso nel corso del dibattito: sarebbe un messaggio molto negativo per noi se le due sinistre greche rappresentate in questo gruppo venissero battute alle elezioni del 20 settembre. Detto questo, penso che il messaggio negativo non sia un “rischio” che stiamo correndo. Il messaggio è già stato dato, è il punto da cui partire, e su di esso dobbiamo meditare. Perché se da un lato il risultato elettorale di gennaio è stato una vittoria per l’intero Gue-Ngl, dall’altro l’accordo del 12 luglio, e il mancato seguito dato alla volontà popolare espressa una settimana prima nel referendum sul piano di austerità, costituiscono un sconfitta grave per tutti noi.

Questo cosa significa? Le battaglie si possono perdere, Pablo Iglesias ha ragione, ma bisogna riconoscerle sino in fondo se si vuol imparare da esse qualcosa di nuovo. La sconfitta subìta deve avere effetti su quello che pensiamo e che facciamo. Nella sostanza, sono due i piani che risentono di una così grave disfatta e che ci toccherà pensare più profondamente:

  • Governance dell’Eurozona.

È necessario esprimere con chiarezza il pensiero del nostro gruppo a riguardo. È già emerso che si tratta di una governance sostanzialmente illegittima – e non citerò quanto riportato dall’ex Ministro Varoufakis a proposito dell’ illegalità dell’Eurogruppo, che io condivido pienamente. In questo quadro diventa doveroso analizzare, tra di noi, il significato della proposta del governo Syriza di coinvolgere il Parlamento europeo nella gestione dei programmi di austerità. Si tratta di una richiesta più che legittima, ma non si può non tener conto che questo Parlamento verrebbe coinvolto in una governance europea che allo stato attuale delle cose ha ben pochi tratti democratici, e tende a svuotare i parlamenti e le elezioni nazionali.

  • Effetti sulla sinistra.

La sinistra deve diventare “governante”. Deve cioè imparare a “pensare il prima e il dopo”, i programmi e la loro effettiva realizzazione. Questo, a mio parere, non è avvenuto in Grecia. Le promesse elettorali non sono state mantenute, il referendum è stato indetto lo stesso giorno in cui ci si preparava all’accordo sul terzo memorandum che l’elettorato greco era chiamato a giudicare, e che a grande maggioranza ha respinto il 5 luglio.

Questo è un tema che merita una discussione approfondita, e anche qui mi rivolgo ai colleghi di Podemos. È vero quello che Iglesias ha detto nella nostra riunione: l’”esame permanente” delle sinistre che guidano questo o quel paese è pericoloso e può divenire sleale; ma un giudizio severo deve pur sempre essere possibile e lecito, su una sinistra che non è stata abbastanza governante, dunque in grado di collegare il prima e il dopo.

Why is Europe not “coming together” in response to the Euro Crisis?

di Yanis Varoufakis, 29 agosto 2014

Fonte: http://yanisvaroufakis.eu/2014/08/29/why-is-europe-not-coming-together-in-response-to-the-euro-crisis/


In this article I ask a question on everyone’s lips: Almost everyone agrees that the Eurozone was a one-legged giant; a monetary union lacking a political ‘leg’ to stabilise it. If so, why has the Euro Crisis (which surely strengthened that view on the back of its ferocity and durability) not strengthen the hand of the federalists? Of those who were, supposedly, waiting to pounce upon any opportunity to create a United States of Europe? (This article was compiled from extracts of a keynote speech I have on 25th August 2014 at the University of Tampere, Finland, in the context of a conference entitled Power, Knowledge and Society.)

 

«Monetary Union is an attempt to usher in Federation through the back door.»
Margaret Thatcher, 1990

We now know that Mrs Thatcher was wrong. The Euro Crisis, that broke out in th aftermath of the 2008 global financial implosion, was a splendid opportunity for federalists in Berlin, Brussels and Paris to push for the federal moves that they, purportedly, always planned to make on the back on the common currency.

Just look at the so-called Banking Union that the EU has agreed. The unification of banking sectors across the Eurozone, which was and is absolutely essential for the survival of the Eurozone, was recently proclaimed in name to be denied in practice.

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