A Kiev l’Ue fa harakiri

di Barbara Spinelli, «TPI – The Post Internazionale», 14 aprile 2022

Come altri Paesi dell’Est Europa che per decenni hanno vissuto ingabbiati nel Patto di Varsavia, i governanti dell’Ucraina avevano in mente come assoluta priorità l’ingresso nella Nato: l’unico punto d’arrivo che dava loro la sensazione di un cambio di pagina decisivo – una volta dissolta l’Unione sovietica assieme al suo impero – e che offriva un ombrello di protezione militare almeno in apparenza automatico (l’articolo 42,7 del Trattato di Lisbona è ritenuto troppo labile in proposito: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”).

L’adesione all’Unione europea era giudicata come un primo passo verso l’orizzonte atlantico, una sorta di corridoio in grado di connettere l’Est europeo alla ben più cruciale America del Nord, oltre che al Regno Unito. Questa era l’Europa sognata in gran parte delle società postcomuniste: non un fine ma un mezzo, non l’abitudine alla convivenza tra popoli che lungo i secoli si erano combattuti in scontri sanguinosi (i fondatori che sono Germania, Francia e Italia in primis) ma una base d’appoggio per spiccare il salvifico, risolutivo salto oltre l’Atlantico.

Adesso che siamo in piena guerra tra Kiev e Mosca l’aspirazione ucraina inevitabilmente si ridimensiona. Il principale obiettivo di Mosca era la neutralità dell’Ucraina e la rinuncia di Kiev all’ingresso nella Nato, ed è stato raggiunto, così come dopo il ’45 fu raggiunto neutralizzando Finlandia e Austria. Ambedue le grandi potenze nucleari vogliono avere attorno a sé una cintura di Stati neutrali, non armati da Paesi avversari o lontani, e lo squilibrio fra Russia e Nord America creatosi con l’allargamento a Est della Nato non poteva durare. La cintura dell’una come dell’altra potenza è chiamata anche sfera di interesse. In America del Nord prende il nome di Dottrina Monroe. La dottrina fu annunciata negli anni Venti dell’800, dopo le guerre napoleoniche: vietava l’intromissione di forze esterne in tutta l’America Latina, isole comprese, e ancor oggi è sacrosanta per le amministrazioni Usa. Carlo Emilio Gadda la chiamò nel 1929 il “campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato” (in realtà non fu affatto leggiadro, come si vide poi in Cile o Venezuela o Nicaragua o Cuba). Il filo spinato che proteggeva l’URSS e il Patto di Varsavia era spaventoso ma nelle menti dei governanti russi l’idea di una “cintura” neutrale anche se non più spaventosa continua a esistere, e continuerà presumibilmente a esistere anche dopo Putin.

Questo l’equivoco che il primo grande allargamento a Est dell’Unione europea non ha risolto (otto Paesi in tutto, tra il 2004 e il 2013) e che sempre più ha avvelenato le sue relazioni interne, la sua idea di stato di diritto, il progetto pacifico che nel secondo dopoguerra era stato il cemento prima del Mercato Comune poi della Comunità infine dell’Unione. La promessa di includere al più presto l’Ucraina, e contemporaneamente anche la Georgia e la Moldavia che hanno presentato la loro domanda di candidatura il 3 marzo, tre giorni dopo la domanda di Kiev, rappresenta un radicale sbilanciamento dell’Unione a Est, con conseguenze enormi che andranno ben analizzate e se possibile contrastate e riaggiustate, se si vuole che l’UE sopravviva come progetto pacifico i cui interessi non possono eternamente coincidere con quelli oltreatlantici.

L’adesione di Ucraina, Moldavia e Georgia aggiungerebbe agli abitanti dell’Unione circa 51 milioni (ben più degli abitanti polacchi), tutti appartenenti a Paesi che o vivono in piena guerra come nel caso di Kiev, o sono dotati di confini incandescenti con Mosca e immersi in conflitti congelati come Georgia e Moldavia. L’ingresso di Cipro nel 2004 già fu una scelta avventata dei dirigenti UE, se si considera il fatto che l’isola era lungi dall’aver superato il conflitto territoriale con la Turchia. Prossimamente, con l’aggiunta di Ucraina, Georgia e Moldavia, sarebbero ben quattro gli Stati non ancora pacifici che entreranno nell’Unione con un’idea calda delle guerre fredde e con confini instabili oltre che controversi. La natura e l’immagine dell’Unione ne verrebbero alterate in maniera drastica.

Già oggi i Paesi dell’Est – Polonia e Baltici in prima linea – sono nell’Unione con l’idea di cambiarne propositi e ragion d’essere. Non riconoscono pienamente la Carta dei diritti fondamentali, che pure è giuridicamente vincolante essendo iscritta nei Trattati. Non mancano di sottolineare – ogni volta che prendono la parola nel Parlamento europeo o nel Consiglio – che principi e diritti contenuti nella Carta e nei Trattati sono soggettivi, la cui portata giuridica è opinabile. Sempre vedono, nell’Unione, i possibili e temibili tratti del Patto di Varsavia. Era questa d’altronde la posizione congiunta del gruppo di Visegrad, ultimamente sfasciatosi perché l’Ungheria, pur condividendo i giudizi di Polonia e Baltici sui diritti, si è rifiutata di entrare in rotta di collisione con Mosca durante la guerra in Ucraina, e non partecipa né alle sanzioni né a possibili blocchi delle importazioni di gas e petrolio.

L’ingresso dell’Ucraina (il paese più popoloso tra i nuovi candidati) accentuerebbe questa divisione tra “Vecchia” e “Nuova Europa”. Divisione su cui scommise con forza l’amministrazione di George W. Bush, nel 2003 in occasione della guerra in Iraq. Come scriveva Dario Fabbri nel dicembre 2017, su «Limes», tale era la “Nuova Europa nella bellicosa dizione di Donald Rumsfeld, da contrapporre alla censurabile mollezza dell’altra metà del continente. Estesa dalla Slesia al bassopiano sarmatico, dal Baltico al Mar Nero, dai Carpazi alla Bessarabia. Composta da molteplici etnie e confessioni, eppure universo reso culturalmente coeso dalla passata appartenenza all’impero sovietico”.

La divisione è oggi meno visibile, visto che anche la vecchia Europa si è appiattita sulle volontà della Nato e dell’amministrazione Usa, ma nel medio periodo potrebbe tornare a essere non solo visibile ma distruttiva e autodistruttiva. Le prime avvisaglie già sono percepibili: la decisione di Zelensky di rifiutare la visita a Kiev del Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, considerato “persona non grata” per le passate posizioni favorevoli al gasdotto Nord Stream 2, le critiche dei dirigenti ucraini ai governi europei troppo poco bellicosi o non bellicosi con Mosca, la predilezione evidente di Kiev per l’alleanza con la Gran Bretagna, che pure non è più parte dell’Unione: sono tutti segni che il cambio di rotta nella storia europea è già cominciato. Tra Paesi potenzialmente così diversi una difesa comune e indipendente da Nato e Washington sarà sempre più ardua, e quasi impossibile una comune politica estera su cui fondare ed ergere l’esercito europeo che tanti anelano nel nostro continente senza ben sapere di cosa stanno parlando.

© 2022 The Post International (TPI)

Perché Biden vuole una guerra lunga

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 aprile 2022

Ci sono delle grandi trasformazioni che si fanno a caldo, nel mezzo di guerre e di propagande feroci e prolungate.

Solo dopo molto tempo le trasformazioni o rivoluzioni vengono considerate inevitabili, e in alcuni casi necessarie. Parliamo della fine della dominazione geopolitica degli Stati Uniti, del possibile tramonto dell’egemonia globale del dollaro, infine di un conflitto tra produttori di gas e petrolio che scalzando gli abituali protagonisti sembra avvantaggiare in primis gli Stati Uniti, potenziale esportatore numero uno che profittando dei torbidi ucraini promette di rifornire l’Europa di gas naturale liquefatto in caso di blocco delle forniture russe (il Gnl è a tutt’oggi il più costoso e il più inquinante che esista).

Tutto questo sarà possibile se la guerra in Ucraina continua a lungo, come ha ufficialmente auspicato Biden quando non si è limitato a chiamare Putin un macellaio, ma ha anche indicato le aspettative della sua amministrazione (non degli europei e dei civili ucraini, che in un conflitto protratto hanno tutto da perdere): “Per vincere questa guerra – così Biden a Varsavia – non ci vorranno giorni o mesi. Sarà una lunga lotta”, per come somiglia alla “battaglia per la libertà contro l’Urss, che durò non giorni o mesi ma anni e decenni”.

Chi vorrebbe d’altronde trattare col Macellaio, anche se un giorno dovrà? In Europa nessun governo, se si escludono Ungheria e Serbia. Fuori dall’Europa invece quasi tutti: in Asia, Africa, Paesi arabi, Israele, America Latina. Nell’Unione europea i popoli sono contrari a sanzioni e invio di armi, ma i governanti se ne infischiano, comportandosi come fossero personalmente in guerra. Draghi per esempio avviluppa l’obiettivo di pace in una delle sue frasi più sibilline e malriuscite: “Non siamo in guerra per seguire un destino bellico”, il che vuol dire che prescindendo dal destino, di cui nessuno di noi sa un granché, l’Italia è in guerra.

Non che i suoi colleghi europei siano meno sibillini, ma pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c’è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai. Giustamente Calenda lo invita a ragionamenti meno sgangherati sulla dipendenza italiana dal gas e petrolio russi).

Verrà forse il giorno in cui sapremo qualcosa di meno impreciso su quel che è successo a Bucha presso Kiev: chi ha ucciso in quel modo? I russi hanno voluto lasciare questo ricordo nel ritirarsi dalla città il 30 marzo, cioè 4 giorni prima della scoperta del macello? Perché? Come mai il sindaco di Bucha ha annunciato il 31 marzo che in città non c’erano più truppe russe e non ha accennato ai civili uccisi in strada con le mani legate dietro la schiena? In attesa di prove genuine, ci concentreremo dunque sulle grandi trasformazioni indicate all’inizio.

Abbiamo detto del gas liquefatto nordamericano. Resta da interpretare in questo quadro la richiesta russa di pagare le esportazioni energetiche in rubli e non più in euro o dollari. È una replica alle sanzioni sempre più pesanti subite da Mosca e anche all’intenzione Usa di sostituirsi in Europa ai fornitori russi. Gli europei hanno reagito denunciando giustamente una violazione degli accordi di forniture, ma senza badare a due elementi cruciali. Primo: le vie d’uscita esistono (si paga in due tappe: inizialmente in euro, convertiti poi in rubli). Secondo elemento: è una contromossa che non cade dal cielo, era nell’aria da anni. La posta in gioco è l’egemonia del dollaro come moneta di riserva globale: il suo tramonto potrebbe essere accelerato dalla guerra in Ucraina.

L’inevitabilità di questo declino ha le sue ragioni d’essere. Non si può escludere la Russia da tutte le transazioni finanziarie (sistema Swift), bloccare le riserve della sua Banca centrale (643 miliardi di dollari), comminare sanzioni ad infinitum, puntare a un cambio di regime al Cremlino, senza prevedere che prima o poi questa politica danneggerà il fronte occidentale, Europa in primis, ma anche Washington, che sta infiammando il conflitto sperando che Putin e tutti i filistei cadano d’un sol colpo come colonne spezzate d’un tempio.

Non esiste più da tempo l’ordine creato nel secondo dopoguerra a Bretton Woods, non c’è più fiducia nella stabilità del dollaro come riserva monetaria internazionale, visto che la moneta Usa riflette le volontà e gli interessi statunitensi da quando si è sganciata dall’oro. L’alternativa ancora non c’è. L’unica moneta che oggi ha elementi di stabilità, e che sia pure marginalmente tende a divenire rifugio, è quella cinese: lo yuan.

Si capisce lo sgomento ma non la sorpresa degli europei: l’egemonia del dollaro è messa in questione da almeno 13 anni, e l’euro è troppo schiacciato sulla geopolitica Usa per rappresentare un’alternativa allettante come moneta di riserva internazionale. Già nel 2008 Mosca e Pechino reclamarono la “de-dollarizzazione” del sistema monetario internazionale e cioè una diversa unità di conto, che riflettesse l’interesse di altre potenze commerciali e non fosse al servizio dei soli interessi Usa. Era una rivolta contro la militarizzazione del dollaro e la domanda di un’unità di conto multipolare: un “paniere” di varie monete, in parte agganciato all’oro.

Ne parlò nel marzo 2009 l’allora governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, che elogiò l’unità di conto (chiamata Bancor) immaginata negli anni 40 da Keynes e affossata poi dagli Usa a Bretton Woods. Il governatore della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, definì il dollaro uno “strumento inaffidabile” nel maggio 2019. Anche Brasile e India auspicano la de-dollarizzazione. In Italia ci fu chi appoggiò questa rivoluzione dei rapporti di forza monetari: nel febbraio 2010, Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi, riesumò Bancor e disse che “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Riserva federale Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”.

Dopo le rovine del Covid, la guerra in Ucraina sta cambiando i rapporti tra Stati, con effetti sconquassanti nella Russia che l’ha scatenata e in gran parte del pianeta che ne soffrirà le conseguenze (blocco delle forniture di energia, cibo, concimi, metalli). Ma con effetti tutt’altro che promettenti a Washington, che pretende di dominare il pianeta con quest’ennesima guerra per procura.

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La nonna di Biden e il secolo di ferro

di martedì, Marzo 29, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 marzo 2022

Questa volta il divario tra gli interessi europei e statunitensi è netto. In un comizio a Varsavia, sabato, Biden ha definito Putin un “macellaio” – in precedenza l’aveva chiamato killer, dittatore sanguinario, criminale di guerra– per poi decretare: “Per l’amor di Dio, non può restare al potere!”.

Il ministro degli Esteri Blinken ha subito corretto, lo staff della Casa Bianca ha tentato una goffa retromarcia, Macron nelle vesti di Presidente di turno dell’UE si è dissociato, ma le parole presidenziali restano e palesano l’obiettivo Usa in Ucraina: un “cambio di regime” a Mosca, lo spodestamento di Putin. È la strategia del caos che Washington adotta da quando fantastica di aver stravinto la guerra fredda, di poter violare i patti del 1990 con Gorbaciov, di dominare il mondo con destabilizzazioni belliche regolarmente sconfitte: in ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. È la prima volta che la Casa Bianca punta al regime change di una potenza atomica (6.000 testate). I tabù della dissuasione nucleare crollano, l’impensabile che fondava la deterrenza (la cosiddetta distruzione mutua assicurata) diventa pensabile. Non è un caso che l’escalation di Biden sia avvenuta in Polonia, che vorrebbe un intervento Nato per difendere l’Ucraina dall’invasore russo. Se per settimane Zelensky ha insistito nel chiedere la no-fly zone senza badare al diniego Nato e Ue, è perché alcuni Paesi – Varsavia in primis – lo spingevano in tal senso, contando sulla Casa Bianca. Sin da quando è atterrato in Europa Biden si è comportato da padrone (incoraggiato dall’Ue che non s’è vergognata di invitarlo al Consiglio europeo) ma appena giunto in Polonia ha perso le staffe. Rivolgendosi all’ottantaduesima Divisione Aerea dell’esercito Usa, non ha parlato di vie d’uscita dal conflitto, non ha avviluppato in una retorica di pace l’aumento delle spese militari. Queste dissimulazioni sono affidate agli europei mentre Biden no, non dissimula, parla della propria nazione come “principio organizzativo attorno al quale si muove il resto del mondo – ossia del mondo libero”. Evoca l’icona della “nazione indispensabile” raffigurata nel 1998 da Madeleine Albright, ministro degli Esteri di Clinton e principale artefice dell’estensione Nato (“Non abbiamo bisogno che la Russia dia il suo accordo all’allargamento”, disse a chi obiettava).

Biden è intriso di teologia politica: il “mondo libero” è votato a intervenire contro il Male. La guerra va oltre Kiev, ha una giusta causa ed è lotta “fra libertà e autocrazia, fra democrazia e oligarchi”: Putin non ha in mente l’Ucraina ma vuol demolire la democrazia. A conclusione dell’appello ai paracadutisti ricorda il nonno, che l’incitava a “mantenere la fede”. Ma soprattutto la nonna, che rincarava: “No, diffondila!” (spread it).

Che importa se nel frattempo il pensiero della Chiesa cattolica non è più quello di Tommaso d’Aquino. Se ha abbandonato, da Giovanni XXIII in poi, l’idea di guerra giusta. Papa Francesco denuncia la follia del riarmo occidentale, e di una guerra per procura scatenata colpevolmente da Putin senza negoziati in vista fra grandi potenze (Usa, Russia, Cina), ma Biden non se ne cura. D’altronde ha ammesso che Washington arma l’Ucraina da anni (2 miliardi di dollari, di cui 1 miliardo nelle ultime settimane).

Noam Chomsky ricorda che il culmine fu raggiunto il 1º settembre 2021, poco prima dell’aggressione russa, quando fu firmata la Dichiarazione Congiunta sulla Partnership Strategica Usa-Ucraina. Il documento annunciava l’apertura delle porte Nato all’Ucraina, e riforniva Kiev di armi oltre che di un “programma di robusto addestramento ed esercitazione per sostenere lo statuto ucraino di partnership rafforzata” (NATO Enhanced Opportunities Partnership, preludio dell’adesione, concesso anche alla Georgia). Alla Dichiarazione Congiunta fece seguito una vasta esercitazione Nato in terra ucraina (“Rapid Trident”) che partì dalla base di Yavoriv presso Leopoli, e cui partecipò anche l’Italia. La Dichiarazione Congiunta rappresenta il culmine di un’espansione Nato a Est cominciata dal giorno in cui Clinton violò l’impegno di Bush padre di non espandere la Nato. Una violazione contestata aspramente da diplomatici di primo piano come Henry Kissinger, George Kennan, Jack Matlock (ex ambasciatore Usa a Mosca), William Burns (attuale capo della Cia).

Le guerre di religione tra Bene e Male hanno una natura dualistica e conducono immancabilmente alla morte: l’Europa lo sa meglio del Nord America, perché i suoi popoli le hanno vissute nel ’500-600 (15 milioni di morti) e le conclusero quando capirono che la pace era possibile a una sola condizione: che non vi fosse la vittoria di una fede sull’altra, e che il potere politico non si diffondesse come fosse una fede. Oggi traversiamo un simile “secolo di ferro”, e Biden che vuol atterrare Putin profittando delle sue dissennatezze belliche lancia segnali anche alla Cina, a Taiwan, ai pochi alleati che gli restano nell’estremo oriente. L’India di Modi sta cautamente distanziandosi e nel resto del pianeta – Asia, Africa, paesi arabi, America latina – si moltiplicano gli avversari delle sanzioni e del riarmo, che promettono fame e prezzi energetici proibitivi. Biden assieme a gran parte dell’Europa non sembra aver imparato nulla della storia, né quella antica né quella recentissima.

Ignoranza e mancanza di memoria recente sono forse i dati più significativi della politica atlantica di fronte a un’aggressione russa certamente spropositata, ma che poteva essere evitata e potrebbe ora essere affrontata con altro spirito, di difesa del popolo ucraino e di negoziati su alcuni punti precisi: non solo la neutralità (scritta stavolta nero su bianco, non promessa come ai tempi di Gorbaciov) ma anche la rinuncia al riarmo in Est Europa, alle guerre di regime change. Se questo secolo è di ferro come nel ’500-600, urge un trattato di Vestfalia: un ordine che riconosca gli Stati a prescindere dalle fedi che pretendono di diffondere con le armi.

Quanto all’Unione europea, non è tramite il riarmo che troverà pace, ma proponendo tregue che non siano percepite come sconfitte epocali né a Kiev né a Mosca e riconoscendo che i propri interessi non coincidono con quelli statunitensi. La Russia è una superpotenza atomica, ci è geograficamente e culturalmente vicina. La guerra di Putin in terre ucraine l’allontana dall’Europa e rischia di renderla molto dipendente da Pechino. È con questi dati di fatto che ci troviamo a dover fare i conti.

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Ucraina, l’Ue ignora i nostri interessi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 marzo 2022

Circola un numero talmente spropositato di menzogne, sulla guerra in Ucraina, che pare di assistere a un contagio virale. I ragionamenti freddi (o realisti) vengono sistematicamente inondati da passioni bellicose e molto calde.

L’onda travolge le ricostruzioni del conflitto, e anche i fatti elencati dagli esperti militari. Perché ripercorrere la storia dei rapporti russo-ucraini, o ricordare le tante guerre Nato, quando il dualismo teologico-politico è così favolosamente chiaro: lì il Male, qui il Bene – lì Satana, qui arcangeli in tute mimetiche – lì il “dittatore sanguinario” e “criminale guerra” (epiteti escogitati da Biden), qui i combattenti della civiltà.

In genere si replica che in guerra è sempre così: propaganda e controverità imperversano in tutti i campi –si ripete – e già è una prima menzogna perché gli italiani e l’UE non sono in guerra, non vogliono andarci e potrebbero dunque concedersi il lusso di analisi più vicine alla realtà, meno interessate al proselitismo bellico, tendenti più all’asciutto che all’umido. Gli Stati Uniti invece vogliono che la guerra continui, anche se per procura. D’altronde è questo lo scopo di Biden: “Far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo” (4-2-21).

Ne consegue che gli interessi europei e americani divergono, coincidendo solo nella retorica. Per l’Europa e l’Italia il proseguimento bellico è una sciagura, sia che Putin perda sia che vinca. Avranno un caos che durerà decenni ai confini orientali. E se l’Ucraina entra nell’Unione gli equilibri si sbilanceranno a Est ancor più di quanto già lo siano, da quando l’UE ha incorporato Paesi più interessati alla Nato che all’Europa (soprattutto Polonia e Baltici). L’egemonia nell’Unione sarà esercitata dall’Est, con Berlino che fungerà da arbitro avendo deciso di ergersi a potenza militare di primissimo piano. Parigi per ora si limita a commentare. Il Sud è muto. Solo i produttori di armi guadagneranno.

Di qui la menzogna più vistosa: ovunque vengono aumentate a dismisura le spese militari, si intensifica il riarmo dell’Ucraina (Biden promette 1 miliardo di dollari), e l’Unione europea si trasforma in patto bellico, proclamando però che mai invierà soldati e mai chiuderà i cieli agli aerei (no-fly zone), affinché non scoppi l’Armageddon nucleare. Dai nostri paesi non partono soldati ma mercenari e contractor sì, molti: almeno 20.000 occidentali di cui 4.000 nordamericani, secondo fonti ucraine. Un guazzabuglio di guerra-non guerra insomma, che resuscita la Nato e abbassa l’Europa potenza pacifica.

Il contagio genera altre controverità, come fossero varianti virali. Tra le più fuorvianti: la supposta condanna del Cremlino espressa “quasi all’unanimità” dall’assemblea Onu, il 2 marzo, e l’esistenza di una “comunità internazionale compatta” nel penalizzare Putin. Più che una menzogna è un’impostura. Dalla “quasi unanimità” vengono esclusi Cina, India, Iran, Pakistan, parte dell’America Latina, parecchi paesi arabi, che si sono astenuti. Si tratta di più di 3 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione terrestre. Segno che la “comunità internazionale” e l’“ordine mondiale” minacciato da Mosca sono pure invenzioni.

Quel che esiste è un disordine globale che il potere unipolare statunitense ha propagato aprendo più scenari di guerra (Afghanistan, Libia, Siria, Somalia, ecc.) e spostando la Nato fino alle porte della Russia, per volontà dei Presidenti Usa a partire da Clinton. Quel che esiste è la volontà statunitense di perpetuare l’ordine unipolare creatosi dopo la fine della guerra fredda, fallito miseramente in Iraq e Afghanistan. Un ordine che Biden vorrebbe resuscitare usando l’Ucraina, per meglio sfidare Russia e poi Cina.

All’Europa converrebbe aprire con la Russia una trattativa che preveda la fine delle guerre in Ucraina e la costruzione nel medio termine di un sistema comune di sicurezza, indipendente dalla Nato e dalle strategie Usa. Dire che “Putin non vuole la pace”, come annunciato da Draghi, senza offrire la fine delle sanzioni in cambio della cessazione delle ostilità, rispecchia la teologia politica della Nato, non i nostri interessi. Ormai dovrebbe essere chiaro che l’identificazione dell’UE con l’Alleanza atlantica e con le aspirazioni unipolari statunitensi produce guerre e caos ovunque. La terra è abitata da una moltitudine di potenze e paesi con aspirazioni e visioni contrastanti, che devono imparare a coesistere senza scannarsi e concentrandosi sul punto essenziale che è la sopravvivenza del pianeta. L’ordine futuro non potrà che essere multipolare: qualcosa di ben più complesso del multilateralismo praticato da Stati che già possiedono comuni obiettivi.

La genealogia della guerra ucraina non è ignota. Comincia quando la Nato promette di accogliere Kiev, nel 2008 a Bucarest; continua con la destituzione nel 2014 del Presidente Janukovyc, colpevole di aver ribadito la neutralità scelta dopo la fine dell’Urss; prosegue nel 2019 con l’adesione alla Nato iscritta nella Costituzione. Sempre nel 2014 scoppia la guerra nel Donbass, e il neonazista battaglione Azov viene inserito nell’esercito regolare ucraino. Gli accordi di Minsk-2 chiedevano che venissero concesse vere autonomie al Donbass, anche linguistiche, ma Kiev si opponeva.

A questi eventi si aggiungano le manovre Nato sul territorio ucraino. Nel centro di addestramento di Yavoriv, ai confini della Polonia presso Leopoli, la Nato addestra da anni l’esercito ucraino, fornisce armi e know how. È partita da qui l’ultima esercitazione – la più intensa – nel settembre 2021 (“Rapid Trident”). Hanno partecipato 15 paesi tra cui l’Italia. Nel giugno-luglio 2021 si era svolta un’esercitazione nel Mar Nero guidata da USA e Ucraina, di fronte alla Crimea (nome in codice ”Brezza di Mare”).

Con questo non neghiamo che Mosca sia l’aggressore. Non supponiamo nemmeno che Putin faccia i propri interessi. Per ora è riuscito a resuscitare la Nato, a incollare UE e amministrazione Usa, a spostare a Est il baricentro dell’Unione, a creare nel centro Europa una potenza tedesca super-armata, più legata di prima al fronte Est. E come potrà nascere un’Ucraina pacifica, dopo simile guerra? Come finanziare la ricostruzione delle sue città, della sua economia, dello stesso Donbass, dopo tanta devastazione? Come evitare una dipendenza da Pechino che rischia di seppellire l’idea russa di un’alleanza tra pari? Sono domande cui Putin e i suoi successori faticheranno a rispondere, quali che siano le genealogie della guerra in corso.

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L’inconsulto bisogno di un nemico a Est

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 marzo 2022

Visto che nessun Paese della Nato o dell’Unione europea vuol entrare in guerra con la Russia, e rischiare uno scontro che implichi il ricorso – intenzionale o accidentale – all’Armageddon nucleare, logica vorrebbe che si tentassero tutte le vie per metter fine alla guerra scatenata dal Cremlino in Ucraina, e al massacro delle città ucraine. “Tutte le vie” vuol dire instaurare al più presto un cessate il fuoco, aprire corridoi umanitari, avviare subito un negoziato che salvi la faccia non solo a Kiev, ma anche al Cremlino, e che eviti umiliazioni irreparabili dell’aggredito come dell’aggressore, tali da avvelenare il futuro degli ucraini e dei russi quando i loro governi cambieranno.

“Tutte le vie” vuol dire anche incaricare possibili mediatori, che non giustifichino l’aggressione di Mosca, ma che abbiano l’intelligenza di mettersi nei panni di chi, pur responsabile della guerra, ha da far valere alcune ragioni, inascoltate da decenni nella Nato e nell’Ue. Le proposte non mancano, ma purtroppo un incarico formale manca. Si parla di Angela Merkel, che con Putin parla in russo e tedesco, e che per anni ha difeso gli accordi di Minsk (comprensivi di una revisione costituzionale ucraina che conceda ampie autonomie al Donbass: punto cruciale per Mosca). Oppure si parla di una mediazione israeliana o turca o cinese, anche se Pechino resta neutrale e aborre ogni sorta di separatismo. Non per ultimo potrebbe muoversi il Vaticano, usando come leva l’inedita comunanza creatasi in questa guerra tra Chiesa ortodossa ucraina e russa.

Il guaio è che non ci sono logica né metodo nel pensiero della Nato, dell’Unione europea e di gran parte dei commentatori, ma un bisogno ormai patologico del nemico esistenziale, a Est, che legittimi il sopravvivere di blocchi super-armati a Ovest anche se non esiste più nelle forme di ieri. Di qui l’immagine ricorrente di Putin come Hitler, o Stalin. O come animale, e anzi “peggio di un animale” a sentire le scempiaggini del ministro degli Esteri Di Maio (messo a tacere solo da Georgia Meloni, non dal governo né dal suo partito). Profetico in questo quadro quel che disse Georgy Arbatov, consigliere politico di cinque segretari generali del Partito comunista russo, quando l’Urss si disintegrò: “Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”.

Provare ad ascoltare le ragioni e le esigenze segnalate da Mosca non vuol dire giustificare una guerra che resta criminosa, e oltremodo opaca per quanto riguarda gli obiettivi veritieri di Putin. Vuol dire ascoltare e prender sul serio le condizioni elencate proprio ieri da Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino: immediato cessate il fuoco, in cambio del riconoscimento della Crimea annessa nel 2014, del riconoscimento delle Repubbliche del Donbass e della neutralità dello Stato ucraino (i modelli potrebbero essere il trattato Russia-Finlandia del 1948 e quello sull’Austria del 1954).

La guerra è certo opaca e non sappiamo se davvero Putin si accontenterà della neutralità ucraina e del riconoscimento di Crimea e Donbass russi. Ma provare a mettersi attorno a un tavolo si può, e rinunciare ufficialmente a nuovi allargamenti Nato si deve. Non lo dicono solo i pacifisti. Lo hanno detto protagonisti della Guerra fredda e delle teorie del “contenimento” come George Kennan nel 1997 (“l’allargamento Nato è l’errore più fatale del dopo Guerra fredda”), e poi Henry Kissinger ed Helmut Schmidt nel 2014 dopo l’annessione della Crimea.

Confrontate con gli argomenti di questi ultimi, le condotte odierne dei leader europei sono di una mediocrità senza pari. C’è chi, senza sapere cosa dice, si felicita della fermezza con cui l’Ue si arma ai propri confini e invia sempre più armi in Ucraina, perché lo scannamento continui sui nostri schermi. Secondo alcuni, non solo in Italia, questa guerra avrebbe addirittura “spinto l’Unione europea a reinventarsi”.

In realtà l’Europa non sta inventando alcunché, se per invenzione s’intende ideare qualcosa di nuovo, di non ancora tentato. Se esistesse l’autonomia strategica dalla Nato di cui Macron parla senza mai specificarne le modalità. Se cominciasse un’autocritica non solo sull’estensione della Nato, ma anche sulle politiche di allargamento Ue a Paesi dell’Est che sono entrati nell’Unione solo per meglio accedere alla Nato, l’istituzione da loro preferita.

Sono giorni che Macron, presidente di turno del Consiglio Ue, parla con Putin per poi annunciare, quasi fosse un giornalista qualunque, che i russi “andranno fino in fondo”. A che serve saperlo se non viene indicata la via d’uscita che l’Europa potrebbe escogitare? L’Europa scarta la guerra frontale con la Russia e per questo è giustamente contraria alla chiusura dello spazio aereo sopra l’Ucraina chiesta da Zelensky e avversata dal Cremlino, che l’interpreterebbe come guerra dichiarata della Nato. L’Ue auspica sanzioni sempre più severe, ma molti Stati non vogliono perdere l’accesso al gas russo, necessario alle proprie società. Quanto ai profughi, ben venga l’apertura doverosa, se non fosse per la selettività che la contraddistingue. “Grande emozione perché vedo europei con occhi azzurri e capelli biondi!” (viceprocuratore generale ucraino). “Non stiamo parlando di fuggitivi siriani, ma di europei!” (BFM TV, Francia). “Stavolta non sono profughi siriani ma ucraini… Si tratta di cristiani, di bianchi! Sono nostri simili” (Nbc News).

Né è inventivo riesumare di continuo parallelismi storici strampalati. Quello ricorrente menziona il cedimento (appeasement) delle democrazie che nel 1938 a Monaco permisero a Hitler di smembrare la Cecoslovacchia. Non manca giorno in cui il ’38 non venga evocato, senza mai fare accenno alla vittoria ottenuta nel ’45 grazie a oltre 20 milioni di morti russi (il “patto col Diavolo” ci ha salvati). Il contributo russo alla Resistenza è sempre più obnubilato (fino a cancellarlo, nella risoluzione del Parlamento europeo del 2019). Questo revisionismo storico è un altro elemento che offende la Russia, Paese europeo per eccellenza.

Gli storici futuri narreranno questa guerra come un attacco sproporzionato, come punitivo regime change, ma ricorderanno le umiliazioni inflitte per trent’anni alla Russia, a cominciare dalla Nato allargata. Può darsi che la strategia del Cremlino sia imperiale, ancora non sappiamo. Ma di certo conosciamo le parole di Putin: “Chiunque non senta la mancanza dell’Unione sovietica è senza cuore. Ma chiunque voglia il suo ritorno è senza cervello”.

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Una guerra nata dalle troppe bugie

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 febbraio 2022

Paragonando l’invasione russa dell’Ucraina all’assalto dell’11 settembre a New York, Enrico Letta ha confermato ieri in Parlamento che le parole gridate con rabbia non denotano per forza giudizio equilibrato sulle motivazioni e la genealogia dei conflitti nel mondo.

Perfino l’11 settembre aveva una sua genealogia, sia pure confusa, ma lo stesso non si può certo dire dell’aggressione russa e dell’assedio di Kiev. Qui le motivazioni dell’aggressore, anche se smisurate, sono non solo ben ricostruibili ma da tempo potevano esser previste e anche sventate. Le ha comunque previste Pechino, che ieri sembra aver caldeggiato una trattativa Putin-Zelensky, ben sapendo che l’esito sarà la neutralità ucraina chiesta per decenni da Mosca. Il disastro poteva forse essere evitato, se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato costantemente prova di cecità, sordità, e di una immensa incapacità di autocritica e di memoria.

È dall’11 febbraio 2007 che oltre i confini sempre più agguerriti dell’Est Europa l’incendio era annunciato. Quel giorno Putin intervenne alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e invitò gli occidentali a costruire un ordine mondiale più equo, sostituendo quello vigente ai tempi dell’Urss, del Patto di Varsavia e della Guerra fredda. L’allargamento a Est della Nato era divenuto il punto dolente per il Cremlino e lo era tanto più dopo la guerra in Jugoslavia: “Penso sia chiaro – così Putin – che l’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza o con la garanzia di sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa quest’espansione? E cos’è successo alle assicurazioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda. Ma io voglio permettermi di ricordare a questo pubblico quello che fu detto. Gradirei citare il discorso del Segretario generale Nato, signor Wörner, a Bruxelles il 17 maggio 1990. Allora lui diceva: ‘Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco offre all’Urss una stabile garanzia di sicurezza’. Dove sono queste garanzie?”.

Per capire meglio la sciagura ucraina, proviamo dunque a elencare alcuni punti difficilmente oppugnabili.

Primo: né Washington né la Nato né l’Europa sono minimamente intenzionate a rispondere alla guerra di Mosca con una guerra simmetrica.

Biden lo ha detto sin da dicembre, poche settimane dopo lo schieramento di truppe russe ai confini ucraini. Ora minaccia solo sanzioni, che già sono state impiegate e sono state un falso deterrente (“Quasi mai le sanzioni sono sufficienti”, secondo Prodi). D’altronde su di esse ci sono dissensi nella Nato.

Alcuni Paesi dipendenti dal gas russo (fra il 40 e il 45%), come Germania e Italia, celano a malapena dubbi e paure. Non c’è accordo sul blocco delle transazioni finanziarie tramite Swift. Chi auspica sanzioni “più dure” non sa bene quel che dice. Chi ripete un po’ disperatamente che l’invasione è “inaccettabile” di fatto l’ha già accettata.

Secondo punto: l’Occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca. Nel ’91 Bush sr. era addirittura contrario all’indipendenza ucraina. L’impegno occidentale non fu scritto, ma i documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive) confermano che i leader occidentali– da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner Segretario generale Nato – furono espliciti con Gorbaciov, nel 1990: l’Alleanza non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice” (assicurò il Segretario di Stato Baker). Nel ’93 Clinton promise a Eltsin una “Partnership per la Pace” al posto dell’espansione Nato: altra parola data e non mantenuta.

Terzo punto: la promessa finì in un cassetto, e senza batter ciglio Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia (a quel tempo la Russia era in ginocchio economicamente e militarmente, ma possedeva pur sempre l’atomica). Nel vertice Nato del 2008 a Bucarest, gli Alleati dichiararono che Georgia e Ucraina sarebbero in futuro entrate nella Nato. Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. Se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba).

Quarto punto: sia gli Usa che gli europei sono stati del tutto incapaci di costruire un ordine internazionale diverso dal precedente, specie da quando alle superpotenze s’è aggiunta la Cina e si è acutizzata la questione Taiwan. Preconizzavano politiche multilaterali, ma disdegnavano l’essenziale, cioè un nuovo ordine multipolare. Il dopo Guerra fredda fu vissuto come una vittoria Usa e non come una comune vittoria dell’Ovest e dell’Est. La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui.

Il quinto punto concerne l’obbligo di rispetto dei confini internazionali, fondamentale nel secondo dopoguerra. Ma Putin non è stato il primo a violarlo.

L’intervento Nato in favore degli albanesi del Kosovo lo violò per primo nel ’99 (chi scrive approvò con poca lungimiranza l’intervento).

Il ritiro dall’Afghanistan ha messo fine alla hybris e la nemesi era presagibile. Eravamo noi a dover neutralizzare l’Ucraina, e ancora potremmo farlo. Noi a dover mettere in guardia contro la presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare). Noi a dover vietare alla Lettonia – Paese membro dell’Ue – il maltrattamento delle minoranze russe.

Non abbiamo difeso e non difendiamo i diritti, come pretendiamo. Nel 2014, facilitando un putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, abbiamo fantasticato una rivoluzione solo per metà democratica. Riarmando il fronte Est dell’Ue foraggiamo le industrie degli armamenti ed evitiamo alla Nato la morte cerebrale che alcuni hanno giustamente diagnosticato. Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere.

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L’atlantismo di Draghi impotente in Ucraina

di mercoledì, Febbraio 23, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2022

Salvo ripensamenti più o meno notturni (è una specialità di Enrico Letta, quando prima approvò poi rifiutò la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale) sembrerebbe che il “campo largo” potrebbe sostituire l’alleanza prospettata a suo tempo fra Democratici e Movimento 5 Stelle di Conte. Essendo largo, il campo includerebbe Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva e micro-centristi vari. Resterebbero fuori 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che Renzi e Calenda giudicano equivalenti. Negli anni ’70 l’Italia fu chiamata alla riscossa contro gli “opposti estremismi”. Prima ancora, nel secondo dopoguerra, fu imposta la “conventio ad excludendum”: i comunisti andavano esclusi dai governi, per volontà non degli elettori ma di Washington e della Nato.

Quello scenario si ripete, adesso che la guerra fredda ricomincia e addirittura si riscalda in Ucraina, solo che la quarantena politica – morto il Pci – è riservata al leader di 5 Stelle: inaffidabile perché ebbe la sfrontatezza di aprire alla Via della Seta e di nutrire dubbi sulle sanzioni. Ecco dunque rispuntare i raggruppamenti centristi, sempre rassicuranti perché sempre allineati: quadripartiti, pentapartiti, e via allargando nella speranza che alle prossime elezioni il M5S perda più voti di quel che già perde per conto proprio.

Se nel descrivere la resurrezione di vecchi scenari citiamo Nato e Usa è perché il nuovo “campo largo” (si dice centrosinistra ma s’intende centrodestra) è andato rafforzandosi man mano che cresceva la tensione Usa-Russia sull’Ucraina. Tensione sfociata nella rabbiosa mossa di Putin che riconosce e garantisce militarmente l’indipendenza delle regioni del Donbass (Donec’k e Luhans’k) e alimentata per anni dall’afonia europea e, in Italia, dall’accresciuto appiattimento sulle bellicose posizioni statunitensi e britanniche. Macron almeno si è adoperato perché i negoziati riprendessero; Scholz ha sospeso ieri l’autorizzazione del gasdotto Nord Stream 2 – un disastro per gli europei – ma prima aveva almeno ammesso che l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato “non è all’ordine del giorno” (cruciale obiettivo strategico di Putin). Draghi invece niente. Ha perso il treno del pomposamente annunciato viaggio a Mosca, e ieri ha definito “inaccettabile” la mossa russa: aggettivo futile, perché chi dice inaccettabile senza metter subito mano alla  pistola ha già accettato. Prima ancora, il 17 febbraio, ha emesso commenti piuttosto sbalorditivi. Nessun accenno alle richieste di Putin, né agli accordi di Minsk-2 (ampia autonomia delle autoproclamate Repubbliche di Donec’k e Luhans’k, mai concessa da Kiev), ma in cambio smilzi appelli al dialogo e un peculiare compiacimento: “Il punto numero uno è riaffermare l’unità atlantica. Questo è forse il fattore che ha più colpito la Russia! Inizialmente ci si poteva aspettare che essendo così diversi avremmo preso posizioni diverse, invece nel corso di tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che diventare sempre più uniti. Il dispiegamento di quest’unità già di per sé è qualcosa di importante”.

Il Presidente del Consiglio dimentica che nel 2003 Parigi e Berlino si scontrarono con gli Usa e non parteciparono alla rovinosa guerra in Iraq. Lo spirito e gli interessi europei furono salvaguardati da un memorabile intervento all’Onu del ministro degli Esteri Dominique de Villepin, e il conflitto con Washington fu benefico. L’unità atlantica non è rassicurante a priori, nei rapporti con Mosca o anche Pechino. E per quanto ci riguarda: se la Nato non rispetta gli interessi di tutti gli europei vale solo il primo paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra”.

Non pochi commentatori, istupiditi dalla “fermezza atlantista” di Palazzo Chigi, scoprono con otto anni di ritardo che nel Donbass c’è guerra tra forze ucraine (compresi battaglioni neonazisti) e popolazioni russofone che Kiev si limita a definire russofile. Temo che conoscano poco la situazione, nonostante le puntuali precisazioni offerte da esperti per niente estremisti come l’ex ambasciatore Sergio Romano o lo storico Gastone Breccia (“La Nato non è stata concepita per arrivare fino al Dnepr. Riconoscere le ragioni geopolitiche dell’avversario e i propri limiti strategici non significa tradire i principi fondativi dell’Occidente, ma soltanto applicarli con realismo e saggezza”).

Su questo punto Letta jr. è più realista del re. Il 25 gennaio giudicò improponibile la candidatura al Colle di Franco Frattini – ventilata da Conte e Salvini– per il solo fatto che l’Improponibile menzionava i millenari interessi russi (evocati con insistenza da Putin, lunedì) e sconsigliava altri allargamenti della Nato, in memoria delle promesse fatte a Gorbachev nel 1990.

Se così stanno le cose tuttavia, e se anche in politica interna il patto Pd-M5S si sbriciola, sarebbe ora di smettere il termine “centro-sinistra”. La sinistra non c’è, nel campo largo detto nuovo centro-sinistra. L’attributo non può essere accampato a vanvera per l’eternità. E non perché Conte rappresenti la sinistra. Ma su alcuni punti la tiene in vita: sul lavoro precario, il salario minimo, la corruzione, la giustizia, il reddito di cittadinanza, e non per ultimo sulla visione di un ordine mondiale multipolare, che metta fine all’unipolarismo Usa e al suo costante bisogno di nemico esterno. Il campo largo liquida questa sinistra, per sintonizzarsi con un atlantismo che cura interessi industriali-militari contrabbandandoli per Valori. Della storia russa (Leitmotiv significativo nel discorso di Putin) Italia e Occidente non sanno più nulla, da quando Clinton e Obama vollero allargare la Nato a Est. Nell’agosto 1991 Bush padre avversò l’indipendenza dell’Ucraina; nel 2014 Helmut Schmidt ricordò che “fino ai primi anni ’90 l’Occidente non dubitava che Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del Cremlino è comprensibile”. Sono saggezze perdute, da ritrovare.

Le larghe intese –la formula Draghi senza Conte – fanno comodo a tutti coloro che ritengono bifolco ogni partito che non abbia, come unica cultura, quella “del governare”, non importa se nelle vesti di vassalli. Fa bene Conte – definito sull’«Espresso» “un ambizioso avvocato, scialbo e opportunista, privo di afflato politico”– a rispondere che “creare accozzaglie per puntare solo alla gestione del potere senza la reale prospettiva di un governo che serva davvero a cambiare il Paese a noi non interessa”. Si spera che non interessi troppi dirigenti, nel suo partito.

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Quirinale, menzogne e Amarcord

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 febbraio 2022

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola locuzione “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i gilets jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

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Se non sei atlantista al Colle non ci vai

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 gennaio 2022

È bastato che Franco Frattini dicesse alcune cose sensate sulla crisi ucraina e sulla russofobia regnante in Occidente, perché il suo nome – suggerito fugacemente da Conte e Salvini nei giorni scorsi – scomparisse come per magia da tutte le rose dei candidati alla Presidenza della Repubblica.

Un grido di sdegno si è subito levato, proclamando che il futuro capo dello Stato o sarà geneticamente atlantista, o non sarà. Dovrà sostenere Kiev contro l’aggressore russo, incondizionatamente. Non dovrà muover dito perché l’inane riarmo dell’Ucraina e la seconda guerra fredda con la Russia – una messinscena geopolitica per Washington, una catastrofe per l’Europa – finalmente cessino. Dovrà agire e reagire come se l’Ucraina già fosse parte dell’Alleanza atlantica o dell’Unione europea.

Il primo grido di sdegno è venuto da Enrico Letta, forte dell’appoggio zelante di Matteo Renzi: “Sono preoccupato per la situazione tra Ucraina e Russia e dobbiamo difendere l’Ucraina. Abbiamo bisogno di un profilo ‘atlantico’”, ha scritto in un tweet, virgolettando per ignoti motivi l’aggettivo atlantico. Ha ripetuto poi il dolente monito in un’intervista alla Cnbc, come se la candidatura dell’intruso russofilo fosse realmente esistente. È a quel punto che la già pallida figura di Frattini è del tutto svanita, come in certe fotografie ritoccate dei tempi di Stalin. Per meglio puntualizzare è scesa in campo anche Lia Quartapelle, responsabile Pd per gli affari internazionali ed europei: “I venti di guerra che soffiano dall’Ucraina ci ricordano che all’Italia serve un o una Presidente della Repubblica chiaramente europeista, atlantista, senza ombre di ambiguità nel rapporto con la Russia”.

Si ripete così dopo poco più di tre anni il gran rifiuto opposto dal Colle a Paolo Savona, designato ministro dell’Economia dal Conte-1. Il no di Mattarella fu netto: il Quirinale non poteva digerire un esponente che fosse “visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro”. Anche in questo caso Savona scomparve in un baleno dalle foto dei ministrabili. Savona non auspicava l’uscita dall’euro, limitandosi a prospettare una profonda revisione dell’architettura economica europea, ma che importa la verità, quel che conta è mostrarsi muscolosi gridando al lupo.

Fin da quando entrò a Palazzo Chigi – e già aspirando al Quirinale – Mario Draghi mise dunque le mani avanti: si disse “convintamente europeista e atlantista”, visto che le alte e altissime cariche si conquistano con questa carta d’identità. È segno che l’Italia non può permettersi critiche, all’Unione europea e ancor meno alle ormai confuse e convulse decisioni della Nato. Non abbiamo sovranità d’alcun tipo, e quale che sia il presidente della Repubblica, quale che sia il governo, restiamo quello che siamo: non uno Stato ma un Dispositivo della Nato.

Della Russia e dell’Ucraina gli atlantisti italiani sanno poco, anzi nulla. Si attengono al copione distribuito dai vertici degli Stati Uniti e della Nato, secondo cui Putin vuol ingoiare l’Ucraina, e l’Ucraina non è nella sfera di interesse russa, ma nostra. Fingono di dimenticare che l’unificazione della Germania e lo scioglimento del Patto di Varsavia furono ottenuti grazie a una promessa che Bush padre e i leader europei (Kohl, Genscher, Mitterrand, Thatcher) fecero a Gorbaciov nel 1990: la Nato non si sarebbe estesa “nemmeno di un pollice” a Est, garantì il Segretario di Stato, James Baker. Avrebbe rispettato l’antico bisogno russo di non avere vicini armati ai propri confini. Un bisogno speculare a quello statunitense, come si vide nella crisi di Cuba del 1962.

È l’assicurazione che Putin chiede da anni, invano. Washington e Londra hanno imposto il riarmo dell’Est europeo, si sono immischiate nelle rivoluzioni colorate in Georgia e poi Ucraina, e ora inviano ulteriori massicci aiuti militari a Kiev. Molti governi europei sono contrari, soprattutto in Francia e Germania (la prudenza di Scholz prevale al momento sull’atlantismo dei Verdi). L’Italia invece tace, perché non si sa mai: la Casa Bianca potrebbe innervosirsi, come accadde al vicesegretario di Stato Victoria Nuland nel 2014. L’Europa esitava durante la rivoluzione arancione? “Fuck the EU!” (che vada a farsi fottere), commentò Nuland in un’elegante telefonata con l’ambasciatore Usa a Kiev.

Nei mesi scorsi Frattini ha sottolineato l’evidenza dei fatti, e suggerito vie d’uscita. In primo luogo, occorre dire un no esplicito all’ingresso di Kiev (o della Georgia) nella Nato: “Un Paese come l’Ucraina, che al suo interno conta tre province indipendentiste, non può aderire all’Alleanza. La Nato dovrebbe essere la prima a dirlo. Purtroppo ha perso il ruolo di attore politico di primo piano che aveva in passato”. (L’ingresso nell’Ue è escluso, considerata l’accidentata integrazione dell’Est Europa.)

In secondo luogo bisogna rilanciare gli accordi di Minsk, nel “Formato Normandia” che include Russia, Ucraina, Francia, Germania e si è tornato a riunire ieri. Dice ancora Frattini che dopo l’occupazione della Crimea il governo Renzi poteva e doveva fare di più: “Allora l’Italia era ancora nelle condizioni di partecipare al Formato Normandia o di esercitare una forte azione su Putin che forse avrebbe ascoltato. Ha scelto invece di acquietarsi su un’acritica politica delle sanzioni di Obama. In diplomazia quando vuoi convincere chi la pensa all’opposto non lo cacci dal tavolo, aggiungi una sedia”.

Terza condizione per smorzare la crisi: spingere perché vengano ascoltate le popolazioni russe in Ucraina, e perché siano conferite vere autonomie a regioni come il Donbass, che nel 2014 si dichiarò unilateralmente indipendente dall’Ucraina (assieme alla Repubblica di Luhans’k) e dove si combatte da otto anni. I cittadini di origine russa in Ucraina sono circa 11 milioni e il loro status linguistico è calpestato: anche questo allarma Mosca.

Di fronte a tali complessità non si può far finta che le manovre Nato nell’ex Repubblica sovietica non esistano (l’ultima risale al settembre scorso) e che solo i russi si esercitino ai confini con l’Ucraina, non oltrepassando peraltro le proprie frontiere.

Forse sarebbe l’ora di dire che la Nato perde senso, essendosi sciolto il Patto di Varsavia. Che l’ascesa della Cina a potenza globale richiede politiche nuove, multipolari. Discuterne è impossibile in Italia. C’è il copione e se te ne discosti sei un appestato sovranista.

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Il patto Draghi-Macron è il trionfo del segreto

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 novembre 2021

Si è parlato più volte, nella scorsa settimana, del Trattato italo-francese di cooperazione – il cosiddetto Trattato del Quirinale – che Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno firmato ieri al Quirinale. Ma se ne è parlato per giorni come se si trattasse di un tesoro nascosto, da custodire in stanze chiuse, impenetrabili. Il testo non era disponibile a chi volesse esaminarlo o magari criticarlo, anche perché nessuno dichiarava di volerlo. Il Trattato veniva ripetutamente definito segreto, come fossimo alla vigilia di qualche terribile guerra e occorresse osservare la consegna del silenzio al massimo grado, per evitare che il nemico ascoltasse. Chissà cosa poteva succedere nelle avanguardie o nelle retroguardie, se qualche bozza fosse trapelata e un giornale l’avesse intempestivamente pubblicata.

Sono in gioco interessi potenti – geopolitici, finanziari, economici, legati ai rispettivi complessi militari-industriali – e questo spiega il recinto oligarchico che fino a ieri ha avvolto l’illustre evento. La cosa stupefacente non è il recinto e non è l’oligarchia: siamo abituati ai recinti, alla non trasparenza e alle democrazie oligarchiche. Stupefacente è la naturalezza con cui giornalisti, diplomatici ed esperti danno per scontate e accettano benevolmente, fino al giorno della firma di un Trattato, la segretezza e la non trasparenza dei negoziati che l’hanno prodotto.

Eppure non erano mancate alcune vigili messe in guardia. Quella di Romano Prodi ad esempio, che confida a «La Stampa» i suoi timori per una Francia sempre più tentata dal sovranismo alla vigilia delle Presidenziali del 2022 (inseguendo Eric Zemmour e Marine Le Pen, tutto il centrodestra imbocca la via polacca e rivendica il primato del diritto francese su quello europeo, specialmente sulle migrazioni: questo è oggi il sovranismo francese). O la messa in guardia dell’economista Carlo Pelanda, che agli inizi di novembre esamina in un’intervista a Sussidiario.net alcuni “leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina” e si domanda: “Che senso ha oggi firmare un trattato bilaterale a 360 gradi con la Francia in un’Europa dove l’Italia e le altre nazioni avrebbero semmai l’interesse opposto, quello di depotenziare il trattato franco-tedesco dell’Eliseo che guida l’Europa dal 1963?”. A cosa serve la frantumazione dell’Unione europea in aree potenzialmente separate, dai Nordici ai Paesi del gruppo Visegrad a Est?

Un Trattato simile, che impegna i contraenti a cicliche pre-consultazioni bilaterali ogniqualvolta vengono prese decisioni dai rispettivi governi e viene convocato un vertice europeo, non dovrebbe essere segreto, almeno in tempi di pace. Le bozze del Trattato dovrebbero essere discusse, eventualmente emendate, nelle Camere e anche sulla stampa, non al momento della ratifica parlamentare, ma prima. Non si dovrebbe fare esclusivamente ricorso ai leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina. Soprattutto se le parti non prendono alcun impegno comune sulle questioni migratorie, dunque sull’accoglienza, la redistribuzione e l’integrazione dei richiedenti asilo che approdano in Italia, ma ci si limita a preconizzare pseudosoluzioni come il “contrasto dello sfruttamento della migrazione irregolare” (articolo 1 del Trattato). Soprattutto se c’è il sospetto di un trattato asimmetrico, e addirittura, come scrive ancora Pelanda sconsigliando la firma, di “un’autoannessione alla Francia, industriale e strategica. Edulcorata ma sostanziale” (“All’occhio attento non sfugge che i tecnici francesi mostrano di sapere benissimo cosa vogliono, mentre quelli italiani sono spaesati, cercano di fare controproposte che sono deboli perché prive di prospettiva. C’è un’asimmetria palpabile e imbarazzante”).

La naturalezza con cui si accetta tale opacità è la stessa con cui, ormai automaticamente e sistematicamente, e ben più che in altri Paesi dell’Unione, si va dicendo che ogni sorta di riforma italiana legata al Pnrr, o di decisione politica, s’impone “perché l’Europa lo chiede, lo vuole”.

Perché l’Europa “ci sottrarrà i soldi del Recovery Plan” in caso di non adempienza. Significativo ci pare quel che Chiara Saraceno afferma nell’intervista rilasciata a Carlo Di Foggia, venerdì, su questo giornale: tutti i suggerimenti sul Reddito di cittadinanza presentati dal Comitato di esperti da lei presieduto “sono stati ignorati dall’esecutivo”, compresa la proposta di ridurre la durata di permanenza in Italia di migranti che desiderano ricorrere al Reddito: per quanto riguarda “la proposta sugli stranieri ci è stato perfino detto che era ‘improponibile’ per motivi politici e che si preferisce aspettare che sia l’Unione europea a risolvere il problema sanzionandoci”.

Ecco come stiamo messi in Europa, nei rapporti con i singoli Paesi alleati, e di certo anche nella Nato: siamo lì in attesa di “annessioni”, di ordini, sperando in sanzioni il giorno in cui si constaterà che abbiamo sbagliato o i conti o le leggi.

Perfino la data delle elezioni viene fatta entrare nelle chiuse stanze dell’opacità che decidono, in segreto e chissà in quale sede, dei nostri destini.

In questi mesi che precedono la scelta del successore di Mattarella non si parla d’altro: delle elezioni, anticipate o no. Se ne parla nei giornali, nei talk show. Ma aggiungendo ogni volta, sotto forma di monito o di leak, che “l’Europa le elezioni proprio non le gradirebbe”. Perché? In vista di quale guerra incombente, che impone di ignorare le procedure costituzionali e di tener cucite le bocche e le urne?

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