Rapporto Bresso-Brok: il fiscal compact inserito nei Trattati

Bruxelles, 8 novembre 2016. Intervento (non pronunciato) di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona” (Relatori Mercedes Bresso, S&D – Italia, Elmar Brok, PPE – Germania) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO).

Punto in agenda:

  • Esame degli emendamenti

Ringrazio i relatori di questo rapporto, anche se purtroppo ho constatato l’impossibilità di un confronto che sia serio e rispettoso con i relatori ombra.

Come già sottolineato nel corso della precedente discussione sulla Relazione Verhofstadt, quello che mi lascia più perplessa è la visione di fondo dei due documenti, ossia la scelta di cambiare la struttura, la tecnica – la “capacità di agire” a più livelli, rapidamente ed efficacemente, come è scritto nel rapporto – per lasciare essenzialmente invariata la sostanza. Un esempio tra tutti è il Fiscal Compact. Uno strumento figlio di politiche dell’austerità i cui contenuti ed effetti sono stati ampiamente criticati da noti economisti e, ultimamente, persino dallo stesso Fondo Monetario Internazionale. Piuttosto che modificarlo o scegliere soluzioni alternative, la strada percorsa è quella di legittimarlo completamente, incorporandone le parti più rilevanti all’interno del Trattato e rendendolo di conseguenza elemento strutturale della politica economica europea.  È quello che più ci viene contestato dai cittadini: la miopia, la sordità di fronte ad una richiesta di cambiamento che riguarda esattamente il fondo delle nostre scelte e non l’involucro tecnico all’interno del quale le presentiamo.

Penso anch’io, come i relatori, che i Trattati hanno limiti evidenti ma ci offrano già chiare indicazioni su una possibile via alternativa, ed è alla luce di tali indicazioni che dovremmo procedere per “sfruttarne le potenzialità”. È la direzione che ho tentato di seguire con gli emendamenti che ho presentato. Mi riferisco in particolare agli articoli iniziali del Trattato sull’Unione Europea: l’articolo 2 sui cosiddetti “valori” dell’Unione (mi piacerebbe che in una futura Costituzione si parlasse di norme e di diritti – i valori per definizione sono opinabili); l’articolo 3 sugli obiettivi dell’Unione – tra cui la creazione di un’economia sociale di mercato non solo competitiva, ma che miri – cito – alla piena occupazione e al progresso sociale, e a un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente; l’articolo 6 sui diritti fondamentali o l’articolo 11 sulla partecipazione dei cittadini al processo decisionale – solo per citarne alcuni. A rinforzo dei trattati abbiamo anche creato uno strumento unico, la Carta dei diritti fondamentali, che chiede solo di essere innalzata a reale parametro di azione. Si tratta ovviamente di standard generali che necessitano di norme che ne diano concreta attuazione, ma sono anche quei parametri che abbiamo scelto e deciso di inserire nei Trattati quali disposizioni comuni e presupposti del progetto di integrazione europea. Ritengo sia giunto il momento di darne concreta attuazione con politiche che non ne infrangano, come accade oggi quasi quotidianamente, l’essenza.

Un’ultima osservazione sulla politica di immigrazione e di asilo. Considerata l’involuzione sempre più autoritaria in Turchia, considerata la natura dittatoriale di regimi come quello eritreo e sudanese, e il caos che regna in Afghanistan e in Libia, considero impossibile – e indifendibile sul piano legale – la strategia dei cosiddetti “Paesi sicuri”, e ritengo che non vadano firmati accordi con Paesi terzi che sono tutt’altro che sicuri,  al solo fine di rimpatriare migranti e profughi, e di ridurre i flussi migratori prima che i migranti arrivino alle nostre frontiere.

Quanto c’è di marcio nel Migration compact 2.0 di Renzi

Articolo di Barbara Spinelli pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 6 giugno 2016

Solo in apparenza e per opportunismo le istituzioni europee e i governi degli Stati membri sono preoccupati dalle estreme destre che crescono in tutta l’Ue e in alcuni casi già governano. Si dicono allarmati dalla loro chiusura verso immigrati e rifugiati, dalla xenofobia. La verità è diversa e ci vuole poco per accorgersene. Da fine 2015 le politiche d’immigrazione comunitarie e nazionali incorporano ed emulano le linee difese dalle destre estreme.

Gli slogan di Salvini e Le Pen – “aiutiamoli a casa loro”, “respingiamoli in massa”, senza minimamente curarsi delle ragioni delle fughe (guerre, fame, siccità) – non sono più loro esclusive parole d’ordine. Sono ormai l’ossatura della politica comunitaria. Il governo austriaco che chiudeva le frontiere (e che oggi propone di relegare i rifugiati nelle isole greche, seguendo l’esempio australiano) obbediva già agli slogan del partito di Norbert Hofer. Il Migration compact 2.0 di Renzi, approvato dalle istituzioni europee, dice esattamente questo: aiutiamoli a casa loro, in Africa soprattutto, visto che da lì parte il maggior numero di richiedenti asilo o migranti. Il modello da imitare è quello dell’accordo Ue-Turchia stipulato il 7 marzo, che garantisce sovvenzioni dirette di 6 miliardi di euro. L’accordo (ma viene chiamato statement, dichiarazione, per aggirare l’approvazione che il Parlamento europeo deve dare ai Trattati) è giudicato pericoloso e potenzialmente illegale da tutte le maggiori ong: perché i rimpatri forzati e per gruppi etnici verso la Turchia violano la Convenzione di Ginevra e la Carta europea dei diritti fondamentali (divieto di respingimento), secondo cui ogni domanda d’asilo deve essere esaminata individualmente, non secondo l’appartenenza a una collettività. Perché la Turchia respinge una notevole parte dei rimpatriati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti (Siria), non esitando a sparare sui fuggitivi siriani che vorrebbero scappare in Turchia. Perché la Turchia ha sì ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, ma con precise limitazioni geografiche: Ankara non si assume obblighi verso profughi non europei. Non ha ratificato il Protocollo di New York del ’67 che ha rimosso gli originari limiti che definivano rifugiati solo i profughi europei sfollati per eventi antecedenti il ’51. In altre parole, quello di Erdogan non è uno “Stato sicuro”. L’intesa comunque porrebbe naufragare, visto che Ankara non ha ottenuto la liberalizzazione dei visti per i connazionali.

Nonostante ciò, l’accordo è presentato come eccellente. È anzi il prototipo degli accordi con una serie di Stati africani suggeriti nel Migration Compact 2.0 come soluzione ottimale della questione rifugiati. Ecco i 4 principali obiettivi del piano:

1) Aiuti allo sviluppo e cooperazione economica vanno massicciamente rilanciati, ma in stretta e assai contestabile connessione con il management delle frontiere, con la gestione dei rifugiati e, molto genericamente, con le questioni di sicurezza. Mettere tutto ciò sullo stesso piano è contestabile dal punto di vista del diritto internazionale.

2) Priorità deve essere data a 17 “partner strategici”: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Somalia, Sudan e Tunisia. Nessuna preoccupazione sfiora gli estensori circa il non rispetto dei diritti fondamentali e dell’obbligo di non-respingimento in paesi come Eritrea, Sudan, Libia, Mali, Etiopia e Somalia.

3) Fin dal Consiglio europeo del 28-29 giugno, sarà proposto un “piano straordinario”, che prevede accordi con 7 “Paesi-pilota”: 4 Paesi d’origine (Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Senegal), 2 di transito (Niger, Sudan), e uno di transito e origine (Etiopia). Qui si sperimenterà il nuovo volto dell’aiuto allo sviluppo: investimenti in progetti sociali e in infrastrutture, condizionati a “precise obbligazioni” nella cooperazione sulla sicurezza militar-poliziesca e il contenimento dei flussi migratori, economici o politici che siano.

4) Il finanziamento: si parla di una sorta di Piano Juncker per l’Africa, come se il Piano per l’Unione avesse funzionato: il bilancio Ue metterebbe a disposizione 4,5 miliardi, che dovrebbero servire da leva per investimenti privati o pubblici pari a 60 miliardi.

Fin qui i punti chiave del piano che il governo italiano difende da tempo, e che la Commissione e i partner europei (Ungheria in testa) mostrano di apprezzare. Questa involuzione dell’Unione ha ormai una storia. La svolta avvenne il 4 marzo 2015, quando il commissario all’immigrazione Avramopoulos ruppe il tabù, in una conferenza stampa: “Dobbiamo cooperare con i regimi dittatoriali nella lotta allo smuggling” di migranti e rifugiati.

Segue un’escalation di momenti di verità della governance europea. Il culmine è raggiunto il 25 gennaio dalle parole che il segretario di Stato belga all’immigrazione Théo Francken avrebbe rivolto all’omologo greco Ioannis Mouzalas, secondo quanto riferito da quest’ultimo alla Bbc: in un Consiglio informale dei ministri dell’Interno e della Giustizia, ad Amsterdam, il belga gli avrebbe consigliato: “Respingeteli o affondateli” (“push back migrants, even if that means drowning them”). Il ministro belga ha smentito, ma Mouzalas ha ripetutamente confermato.

A questo si aggiungano le dichiarazioni ufficiali del massimo rappresentante del Consiglio europeo, il presidente Donald Tusk. Ne elenchiamo alcune:

13 ottobre 2015, lettera ai colleghi del Consiglio europeo. C’è un’apertura alla Turchia (compreso l’appoggio a “zone sicure” in Siria) e una messa in guardia contro le frontiere aperte: “La facilità con cui è possibile entrare in Europa è il principale pull factor per i migranti”. Nessun accenno alla fuga per ben altri motivi: guerre attizzate o acuite dagli occidentali, dittature cruente, respingimenti in massa di eritrei operati dal Sudan, disastri ambientali e fame in gran parte provocati da investimenti e accaparramenti di terre (land grabbing) da parte di imprese occidentali.

22 ottobre 2015, intervento al Congresso di Madrid del Partito popolare europeo: “Non possiamo continuare a pretendere che la gran marea di migranti sia ciò che vogliamo, e che stiamo perseguendo una politica di frontiere aperte”.

3 marzo 2016, appello ufficiale “ai migranti potenzialmente illegali”: “Non venite in Europa. Non credete agli smuggler. Non rischiate le vostre vite e il vostro denaro. Non servirà a nulla!”. Ricordiamo che la stessa identica frase (“It’s all for nothing!”) fu detta nel 2014 dal governo australiano, uno degli Stati più criticati per la politica dei rifugiati.

Il Migration compact 2.0, unito a simili proposte dell’ungherese Orbán, è una tappa di questa escalation. Pochi giorni fa, alla vigilia del G7 in Giappone, il capo gabinetto di Jean-Claude Juncker, Martin Selmayr, ha twittato: “Un G7 con Trump, Le Pen, Boris Johnson, Beppe Grillo? Uno scenario dell’orrore che mostra perché è importante combattere il populismo. Con Juncker”. Mettere sullo stesso piano quei quattro nomi è una truffa, sicuramente apprezzata da Renzi alla vigilia delle amministrative e cinque mesi prima del referendum costituzionale. Ma più fondamentalmente resta la domanda: se è importante combattere Le Pen e l’estrema destra, perché adottare precisamente le sue politiche, con direttive, accordi e il Migration compact di Renzi?


Si veda anche:

EU considering working with Sudan and Eritrea to stem migration, «The Guardian», Monday 6 June 2016

 

I cittadini davanti ai poteri di Frontex

Bruxelles, 10 novembre 2015. Intervento di Barbara Spinelli in occasione della Riunione congiunta delle Commissioni Petizioni e Libertà civili, giustizia e affari interni.

Punto in Agenda:
Rapporto di iniziativa relativa a Frontex, a seguito della Relazione speciale del Mediatore europeo (Emily O’Reilly).

Relatori: Roberta Metsola (PPE – Malta), Ska Keller (Verdi/ALE – Germania)

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Desidero evidenziare due tematiche, a mio avviso importanti, che dovrebbero essere inserite nella Relazione in esame.

Il primo punto, su cui non mi soffermerò in quanto già esaustivamente considerato prima di me dalla collega Laura Ferrara (Movimento Cinque Stelle), concerne il diritto al ricorso dei migranti, di cui questi ultimi devono potersi avvalere soprattutto se provenienti dai cosiddetti “paesi sicuri”.

Riguardo al secondo punto, ritengo sia essenziale che la Relazione richiami l’articolo 263 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il quale prevede che la Corte di Giustizia eserciti un controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi dell’Unione (Frontex, in questo caso) destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.

L’applicazione dell’articolo 263 permette in effetti di salvaguardare e rafforzare un principio fondamentale della democrazia costituzionale: quello secondo cui più poteri vengono istituiti, più il cittadino è tutelato. In tal caso, un potere supplementare di controllo e monitoraggio viene attribuito al giudice.