Barbara Spinelli a Bologna per lanciare l’Altra Emilia Romagna

di Paola Benedetta Manca, «Europa», 3 novembre 2014

«Il semestre di presidenza dell’Italia si chiude con un nulla totale. In Europa la politica di Matteo Renzi e del Pd è fallimentare. Non hanno spostato di un centimetro gli equilibri interni dell’Ue». L’europarlamentare dell’Altra Europa con Tsipras, Barbara Spinelli, da Bologna attacca frontalmente le politiche europee del governo Renzi. Spinelli ha dato il via ufficialmente alla campagna elettorale dell’Altra Emilia Romagna, la lista che si presenta alle elezioni regionali «in continuità politica e ideale con L’Altra Europa con Tsipras».

Al fianco di Spinelli, Cristina Quintavalla, candidata alla Presidenza dell’Emilia Romagna e Fabrizio Bocchino e Francesco Campanella, i due senatori espulsi dal Movimento 5 Stelle – che ora stanno dando vita all’esperimento del gruppo in Senato “Italia Lavori in corso” – e che sostengono l’Altra Emilia Romagna. «La proposta politica dell’Aer – spiega l’ex M5S Campanella – è quella che, in questo momento, ha maggiore credibilità. Sia dal punto di vista dell’impegno per la ridistribuzione del reddito che delle politiche del lavoro, con l’opposizione ferma al Jobs Act del governo Renzi e le lotte per tutelare la dignità dei lavoratori». «È anche il movimento – sottolinea – che ha elaborato la proposta politica più coerente sulle questioni dell’Unione Europea. In Europa, infatti, dobbiamo avere più voce in capitolo ma non uscendo dall’euro bensì ridiscutendo i trattati». Campanella confida nella nascita della lista “Altra Italia” a livello nazionale.

Presenti al lancio della campagna anche il giuslavorista Piergiovanni Alleva – capolista a Bologna e sentito in questi giorni dal Governo nell’ambito delle audizioni degli esperti sul Jobs Act – e l’economista-ambientalista Guido Viale. L’eurodeputata Spinelli ha bocciato a più riprese le politiche dell’Unione Europea. «Siamo in un’Europa – sottolinea – con un commissario all’Economia che si occupa di austerità e non di crescita e con un presidente della commissione Jean-Claude Juncker, tanto elogiato dal governo, che ha promesso un piano di 300 miliardi di euro in tre anni che non si sa come verrà finanziato, visto che ha previsto che i fondi arrivino dagli Stati e non dalle risorse dell’Unione Europea. Come ha già fatto notare la cancelliera Angela Merkel, però, alcuni stati sono così indebitati che non potranno mai contribuire».

«Renzi – attacca Spinelli – in Europa ha fatto solo “chicchirichì” ma poi ha accettato i diktat dell’Ue». È possibile però – sottolinea – fare resistenza, ma non con un atteggiamento minoritario, piuttosto guardando “oltre la sinistra classica, che va in piazza ma non solo in piazza». Con l’idea, come dice Landini, di governare e, se vinceremo le elezioni, lo faremo. Non staremo fuori dal governo a dire solo dei no ma attueremo un programma di sviluppo economico diverso”.

Insomma, la lista Altra Emilia Romagna, formata da esponenti del Prc, del PdcI, da ex 5 stelle e da una gran parte del mondo dell’associazionismo, sembra voler uscire dallo storico ruolo della sinistra radicale, quello di sola opposizione, e governare. Per questo, guarda con interesse ai voti dei delusi a 5 Stelle di sinistra, sperando che seguano l’esempio di Bocchino e Campanella. La lista di Grillo – afferma Quintavalla – attraversa una crisi molto significativa e credo sia l’occasione buona per un dialogo con la base».

A dividere profondamente i due movimenti, però – spiega la candidata parmense – «è il fatto che nel Movimento manca del tutto la democrazia partecipativa, come è evidente dal modo di governare Parma del sindaco Pizzarotti». Eppure l’Aer potrebbe in realtà conquistare proprio i voti dei “pizzarottiani”, stanchi della disciplina ferrea imposta da Grillo e Casaleggio e fautori di una politica più dialogante con gli avversari.

Il programma dell’Aer – spiega l’aspirante governatrice – si differenzia da quello di Stefano Bonaccini, candidato del Pd, in alcuni punti fondamentali: «gli aiuti promessi alle imprese che non vanno dati a chiunque, come vorrebbe Bonaccini, ma solo a chi dice no alle delocalizzazioni, regolarizza i lavoratori e investe sul territorio»; la «svendita di risorse e beni ai privati – a partire dalla sanità e con Unipol in testa – che noi non accettiamo» e il nodo delle infrastrutture, con il Pd che «dice sì a tutte le opere più disastrose per il territorio e che alimentano il dissesto idrogeologico: Cispadana, people mover, Passante nord. Noi, invece, siamo contro la cementificazione del territorio». Alla presentazione della lista erano presenti anche l’attore Ivano Marescotti (già candidato alle europee di primavera) e l’aspirante presidente in Calabria (dove la soglia per l’elezione è stata fissata dal centrodestra uscente all’8%), Domenico Gattuso.

Fonte

Salvare le democrazie nazionali con l’aiuto del Parlamento europeo

Sei anni di crisi economica sembrano aver devastato le menti e le memorie, oltre che le economie europee, e il motivo mi pare chiaro: sia in Europa sia nei singoli Stati, non sono più i parlamenti a esser sovrani, ma le forze dei mercati, assieme a istituzioni lontane dai cittadini e sorde alle loro esigenze. La democrazia rappresentativa è agonizzante in Europa, e quella diretta ancora non è nata. I parlamenti nazionali non hanno praticamente più voce in capitolo, quando sono in gioco le politiche economiche e finanziarie dell’Unione, e sembrano aver perso il ricordo stesso di quel che proclamavano ed esigevano pochi anni fa. Per recuperare la sovranità che hanno smarrito, i Parlamenti degli Stati non hanno altra via se non quella di collaborare in maniera più sistematica con il Parlamento europeo, e di far fronte al pericolo della propria auto-dissoluzione puntando a forme federali di integrazione europea. Di questo si è discusso il 29 ottobre 2014 in un’audizione presso la Commissione Affari europei del Senato, alla presenza degli europarlamentari italiani.


 

Roma, 29 ottobre 2014. Audizione presso la Commissione Affari europei del senato. Intervento di Barbara Spinelli

Sono due i punti che vorrei trattare.

Il primo riguarda la collaborazione fra parlamenti nazionali e Parlamento europeo. È giusto e urgente modificare il regolamento del Senato (e, spero, anche della Camera), come spiegato dal Presidente Vannino Chiti, e far proprio il modello adottato dalla Germania, che nell’articolo 93 del proprio regolamento prevede il coinvolgimento sistematico del Parlamento europeo nei lavori del Bundestag. Quel che tuttavia mi domando è: perché la modifica e perché il bisogno, da molti espresso in quest’audizione, di non limitarsi alla verifica dei cosiddetti criteri di sussidiarietà e proporzionalità?

Se si vuol dare una risposta seria a questa domanda, occorre a mio avviso parlare fra di noi in piena sincerità, senza giri di frase e infingimenti.

Perché dunque l’urgenza? Perché da troppo tempo viviamo sotto la guida di istituzioni e regole emergenziali, in gran parte intergovernative (dal «Six-Pack» al Fiscal Compact al Semestre Europeo), che hanno finito con l’esautorare drammaticamente i parlamenti nazionali e anche quello europeo. Lo vediamo con i nostri occhi in questi giorni: le finanziarie sono concepite dal governo, poi sono discusse e negoziate con la Commissione, e solo alla fine – una volta che la Commissione ci ha fatto le pulci e ha ottenuto gli emendamenti e gli adattamenti e i tagli che esige – il testo approda al Parlamento nazionale, che non ha più margini se non quello di dire sì, o di opporre un no inerte, senza conseguenze d’alcun tipo. Il commissariamento non ha bisogno di esser scritto nero su bianco, per essere operativo a tutti gli effetti. È il motivo per cui sono assai meno ottimista del senatore Chiti, che ha parlato in quest’aula del consolidarsi nell’Unione di un «sistema parlamentare euro-nazionale».

La soluzione è di mettere in piedi una struttura negoziale tra parlamenti nazionali e Parlamento europeo che consenta loro di influire in anticipo sulle scelte economiche dei singoli Stati e dell’Unione, togliendo a esse il carattere di ineluttabilità, oltre che di estraneità alle istituzioni e alle abitudini democratiche.

Per raggiungere quest’obiettivo, bisogna modificare radicalmente il ruolo europeo dei Parlamenti nazionali, così come iscritto nei Trattati dell’Unione. Ruolo oggi esclusivamente negativo: i Parlamenti possono solo bloccare le iniziative legislative della Commissione, nel caso esse violino il principio della sussidiarietà.

A questo potere negativo dei Parlamenti nazionali bisogna aggiungerne due che siano positivi:

  • potere sul bilancio dell’Unione (e quindi anche, oggi, sul Piano di investimenti promesso dal Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker). Intendo il potere di far sentire il proprio peso e la propria volontà, avviando discussioni congiunte e regolari fra parlamenti nazionali e Parlamento europeo prima che gli atti di governo abbiano luogo. Mi riferisco, tra l’altro, all’opportunità di una collaborazione tra Parlamenti nazionali e Parlamento europeo in vista della revisione intermedia del bilancio europeo del 2016 (mid-term review).
  • potere di riformare i trattati europei, quando essi dimostrano di essere – come lo sono – inefficaci e profondamente lesivi della democrazia parlamentare.

Il secondo punto è strettamente connesso al primo: anch’esso implica un linguaggio di verità, e soprattutto di non smemoratezza. Il 25 giugno 2013, il Parlamento italiano ha adottato una risoluzione solenne, proprio sulla modifica del Trattato di Lisbona. Una risoluzione che accennava alla possibilità di una seconda Convenzione. Camera dei Deputati e Senato accolsero la proposta del Movimento europeo in Italia di promuovere la convocazione di Assise interparlamentari sul futuro dell’Europa, entro la primavera del 2014, e si assunsero l’impegno di favorire la realizzazione di «una grande conferenza dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo – con ampie delegazioni e la presenza dei leader di maggioranza e di opposizione, capaci di interpretare e rappresentare la volontà dei rispettivi popoli – attraverso le quali perseguire l’obiettivo di una più compiuta integrazione europea (unione bancaria, economica, di bilancio e politica) e di una nuova politica economica volta a promuovere la crescita e sconfiggere la recessione»: questo, per preparare al contempo la campagna delle elezioni europee e una riforma dell’Unione in chiave federale.

Scopo prioritario delle assise doveva essere una più compiuta integrazione europea, per lottare contro il marasma in cui viviamo da sei anni. Il culmine sarebbe stato il semestre di presidenza italiana, che doveva divenire addirittura un “semestre costituente”, e darsi “istituzioni europee più democratiche, trasparenti, efficaci, (…), il cui operato risulti pienamente comprensibile ai cittadini”.

Mi chiedo dove siano andate a finire tutte queste parole, e se questo oblio di sé non sia il più grande peccato di omissione della presidenza italiana. E non solo della presidenza italiana, ma anche dei due parlamenti: quello italiano e quello europeo.


Considerazioni sul semestre italiano

(Parte dell’intervento di Barbara Spinelli, non pronunciata al Senato, sulla presidenza Renzi)

Siamo giunti quasi alla fine del semestre italiano, e mi chiedo quali risultati abbiamo raggiunto.

Tutto dipende dalle ambizioni di partenza, dall’idea che ci si faceva e ci si fa dell’ormai lunga crisi europea.

Se l’ambizione era di farsi un po’ di spazio, di dire «ci siamo anche noi», il risultato è solo in apparenza positivo, anche se qualche effimero margine è stato conquistato. Il governo italiano potrà rinviare al 2017 il pareggio di bilancio, e anche se toccherà rivedere la finanziaria ha ottenuto qualche flessibilità. Siamo anche stati lodati dal Premier Cameron, all’ultimo Consiglio europeo: «Credo che abbia detto bene il Premier italiano quando ha affermato che il ricalcolo (dei contributi versati dagli Stati all’Unione) è un’arma letale». Renzi ha poi assicurato di non aver usato l’espressione “arma letale”, ma nella sostanza Londra e Roma sembrano avere un comune nemico: la troppo dispendiosa burocrazia di Bruxelles, e implicitamente l’insieme delle istituzioni europee.

Ma se l’ambizione è di guarire l’Europa, di riconquistare la fiducia dei cittadini nelle sue istituzioni, le cosiddette conquiste italiane – tanto più se strappate con la complicità britannica –  sono non solo false consolazioni neonazionaliste, ma vere armi di distrazione di massa.

Distrazione da una crisi che è tuttora una tempesta perfetta, visto che in essa si congiungono una recessione ormai pluriennale, un disastro climatico, un accanito attaccamento a vecchi modelli di crescita industriale.

Distrazione da quel che l’Europa potrebbe fare, se si desse le risorse e le istituzioni per dar vita a una crescita alternativa, basata su ricerca, energie rinnovabili, produzioni diverse dal passato. Il Piano Juncker, vedremo quel che produrrà. Per ora è ambiguo e vago. Non si sa come si finanzierà, visto che a garanzia degli investimenti privati ci si propone di usare i Fondi strutturali e la BEI, che vivono di contributi nazionali. Gli stessi contributi che sono oggi rimessi in questione, e che i paesi più indebitati non potranno versare.

Ma distrazione, soprattutto, da risoluzioni precise che questo Parlamento aveva solennemente preso il 27 giugno 2013. Qui i passi indietro sono enormi. Ancora pochi anni fa si parlava di una seconda Convenzione, che modificasse il Trattato di Lisbona. (…) Di quei propositi, si è perduto oggi perfino il ricordo.

In alternativa al Piano Juncker:
l’iniziativa New Deal 4 Europe

Strasburgo, 21 ottobre 2014. Intervento di Barbara Spinelli in riunione plenaria sul prossimo Consiglio europeo del 23-24 ottobre

Rilancio dell’economia, sicurezza energetica, clima: sono i tre temi che verranno trattati al prossimo Consiglio europeo, e spero che vengano trattati insieme, perché perché nessuno di essi esiste per conto proprio, ognuno dipende dagli altri due. Quest’interdipendenza è appena accennata nel piano di 300 miliardi su tre anni che il Presidente Juncker ha promesso ai paesi dell’Unione.

C’è, nel Piano, un accenno alla green economy. Ma non basta. Per far ripartire le economie europee, dopo anni di un’austerità distruttiva, occorre un vero New Deal europeo. Penso al New Deal per l’Europa: un’Iniziativa cittadina che dovrebbe esser fatta propria dall’Unione, anche se potrebbe mancare il milione di firme richieste. È l’unico orizzonte che permette di tenere insieme obiettivi pericolosamente disgiunti: la protezione del clima dalle emissioni di anidride carbonica, la nuova occupazione, e al tempo stesso gli investimenti in energie alternative e nella sicurezza degli approvvigionamenti. Il Piano Juncker non risponde a queste tre sfide, cui ne aggiungerei una quarta, cruciale: una politica estera autonoma soprattutto verso la Russia e l’Ucraina, che preservi la neutralità di quest’ultima.

Il Piano Juncker dipende dai contributi nazionali ai Fondi strutturali e alla Bei: dunque gli Stati più indebitati non potranno contribuire, limitati come sono nelle loro azioni dai vincoli di bilancio. Il Cancelliere Angela Merkel l’ha fatto capire in maniera chiara, nel recente vertice sul lavoro che si è tenuto a Milano. Il New Deal 4 Europe, proponendo autentiche risorse proprie dell’Unione – una tassa sulle transazioni finanziarie, una carbon tax – è il piano di cui l’Europa ha bisogno, per dare finalmente alla crescita una dimensione ecologica e tassare non il lavoro sempre più precario, ma le rendite finanziarie.

Ricordo qui che invece di tassare le rendite finanziarie, il Consiglio degli affari economici e finanziari (Ecofin) ha purtroppo deciso di rinviare ancora una volta l’applicazione della direttiva sulla lotta ai grandi evasori.

Grazie