Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 aprile 2024

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.

C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota automatico” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata. Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen. La concorrenza fra le due persone è finta.

Chi legga il discorso dell’ex Presidente del consiglio, a tutto penserà tranne che a un pensatore e protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.

Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa”. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).

Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

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Ucraina, il cinismo dei falchi Nato&Usa

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 agosto 2023

In apparenza sembra davvero un’estate di sconfitte, quella subita dai falchi occidentali che pretendono di stabilizzare il pianeta scatenando guerre distruttive a ripetizione o inasprendo guerre iniziate da altri.

Lo constata Seymour Hersh, che in un articolo del 17 agosto parla di Africa oltre che di Ucraina, e conferma quanto vanno dicendo da giorni i servizi Usa: la controffensiva ucraina sta fallendo, e c’è chi nella Nato comincia a prospettare cessioni di territori a Mosca, per metter fine a una guerra che Kiev combatte e prolunga per procura.

Biden ancora non si espone, ma si espongono gli uomini della sua intelligence, che smettono di incensare Zelensky: il «Washington Post» riporta la loro opinione, secondo cui Kiev, non potendo riprendersi la porta d’accesso alla Crimea che è Melitopol, sta mancando la riconquista che si era promessa.

Negli stessi giorni, ricorda Hersh, la Francia di Macron è espulsa quasi completamente dalla sua sfera d’interesse nelle nazioni del Sahel. Dopo aver perso il Mali a seguito del golpe del 2022, dopo aver perso alleati stabili in Ciad, ora perde il Niger, ricco di uranio e crocevia delle migrazioni dal Sahel. Il golpe militare del 26 luglio ha spodestato il presidente Mohamed Bazoum, amico obbediente di Parigi e Washington. Le popolazioni hanno festeggiato la liberazione dal neocolonialismo francese in Africa centro-occidentale.

A ciò si aggiunga che il cosiddetto Sud Globale si riconosce sempre più nel gruppo non allineato dei Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica: il 40% della popolazione mondiale) riunito da martedì a Johannesburg. Sono circa 23 gli Stati che chiedono di entrare nel gruppo, ritenendolo l’unica alternativa al disordine prodotto dalla bellicosità Usa contro Russia e Cina, e dal dominio globale del dollaro. Aggressività e dominio che sottendono quella che Washington considera la missione sua e della Nato: il rules-based international order. La regola base può essere riassunta così: se gli Stati Uniti vogliono dominare il mondo, come nel 1945 quando abbatterono Hitler e sganciarono l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, devono ripetere senza sosta, spalleggiati da Europa e alcuni Paesi asiatici, le guerre “di civiltà” contro il Male Assoluto che da allora incessantemente si reincarna. Male che assume di volta in volta il volto di Milošević, di Saddam Hussein, dei Talebani, di Gheddafi, e oggi di Putin e Xi Jinping.

Sembrerebbe dunque l’estate dello scontento, per i neoconservatori occidentali, se non fosse che questi ultimi già stanno cercando il modo di uscire immacolati dalla prova ucraina, pronti per nuovi disordini e guerre. Come potranno riuscirvi? Come già hanno fatto in Vietnam o Afghanistan: scaricando le colpe sul Paese belligerante a cui è stata affidata la delega di combattere a oltranza, non solo per proteggere le sue terre dall’invasore ma per difendere addirittura la civiltà occidentale fino a piegare la potenza russa. Zelensky si è infilato volontariamente nella micidiale trappola e per questo punta ancora sulla guerra lunga: se non fosse così, Danimarca e Olanda non gli darebbero i caccia F-16 utilizzabili solo nel 2024.

Vale la pena leggere attentamente il «Washington Post» del 17 agosto sulla controffensiva ucraina. Scrivono gli articolisti che se Kiev non vince, è perché non ha seguito le direttive Usa, che prescrivevano un assalto ben più massiccio lungo la linea del fronte minata dai russi a difesa delle zone conquistate a sud-est: “Le simulazioni congiunte di guerra (joint war games) condotte da militari statunitensi, britannici e ucraini avevano anticipato perdite massicce di uomini, e calcolato che Kiev le avrebbe accettate se questo era il prezzo per rompere la linea di difesa russa. Ma l’Ucraina ha voluto limitare i morti nel campo di battaglia, preferendo puntare su unità di combattimento più piccole”. In altre parole: se Kiev perde è perché al momento decisivo non ha avuto l’ardire di far morire in massa i propri soldati.

L’accusa è ripresa il 18 agosto dal «New York Times», che enumera i morti (500.000 uccisi o feriti tra ucraini e russi, secondo l’intelligence) e indica i “difetti” della controffensiva. I funzionari Usa interrogati avrebbero oggi un grande timore: che “l’Ucraina sia diventata casualty averse”, ostile alle perdite di vite umane, e che “per questo stia mostrando prudenza nella controffensiva”. Il giornale non sembra colpito dall’indecenza delle condizioni dettate a Kiev in una guerra dove vinci se non sei casualty averse.

È così che l’Amministrazione Biden e la Nato escono dalle guerre per procura: addossando i fallimenti all’agente belligerante. Senza batter ciglio si apprestano a dar ragione con ritardo a Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto, e a quel che disse nello scorso novembre quando suggerì l’avvio di negoziati, visto che “la vittoria ucraina non era ottenibile”. Il ritardo ha comportato e comporta migliaia di morti, ma gli occidentali che aizzano senza combattere ne vorrebbero di più.

Da icona del Bene che è stato per un anno e mezzo, Zelensky potrebbe divenire, d’un tratto, l’uomo che pagherà gli errori e misfatti di chi, nella Nato, ha voluto che questa guerra durasse e s’impelagasse. Di chi ha avversato ogni accordo di tregua o di pace, a cominciare da quello negoziato tra Kiev e Mosca poche settimane dopo l’invasione, e pronto per la firma nell’aprile 2022. L’accordo fu affossato per volontà britannica e statunitense, e prevedeva vantaggi per Kiev non più ottenibili. Da allora Zelensky è incastrato nella strategia Usa e Nato, con un Paese ridotto a moncone senza più industrie vitali. Oggi rischia d’esser scaricato come lo fu Thieu a Saigon, quando Washington si stancò di seminare morte in Vietnam.

Nel frattempo, in solo un anno e mezzo i morti ucraini hanno superato i morti statunitensi in due decenni di guerra in Vietnam (58.000 circa). Il loro numero è simile a quello dei soldati di Kabul morti nella guerra di Afghanistan fra il 2001 e 2021 (circa 69.000). Colpa di Kiev, se rischia di perdere la guerra perché agisce di testa sua e non manda ancora più i soldati a saltar per aria sulle mine. Stati Uniti ed europei possono da un giorno all’altro scrollarsi di dosso i perdenti e senza tema di contraddirsi vantare vittorie inesistenti.

È quello che fa Josep Borrell, responsabile/irresponsabile della politica estera europea, quando dice che una trattativa potrebbe iniziare a settembre, ma proclama al contempo che “in ogni caso chi ha davvero perso è Putin, che voleva una guerra lampo ed è oggi sulla difensiva”. Infatti cos’è la Russia ai suoi occhi? “Nient’altro che un nano economico, un distributore di benzina il cui proprietario ha la bomba atomica” (intervista a «El País», 20 agosto). La guerra di Ucraina non è finita, ma l’ebetudine illimitata del socialista Borrell conferma che l’Europa unita, avendo perso ogni aspirazione all’autonomia e alla sovranità, e dimenticando d’esser nata come artefice di pace, non impara più nulla dai propri fallimenti.

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