Barbara Spinelli: salviamo l’Europa
dai conservatori e dagli euroscettici

Intervista di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano», 9 febbraio 2014

Ci sarà un momento per parlare di candidature, per discutere di quanto coinvolgere i partiti, per capire se la rinascita della sinistra italiana passa da Atene. Ma per ora Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica , scrittrice, sempre europeista e sempre più critica, vuole parlare delle ragioni che hanno spinto lei e un gruppo di intellettuali a lanciare una lista italiana a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras, capo del partito greco Syriza, alla commissione europea in vista delle elezioni di maggio.

Barbara Spinelli, lei ha contribuito a portare nella politica italiana un leader greco, Alexis Tsipras. Qual è il primo bilancio dopo la sua visita a Roma?

Ha riempito un vuoto. Sono rimasta stupita perché i grandi giornali hanno coperto pochissimo l’iniziativa, ma quando Tsipras era al Teatro Valle c’era la strada piena di gente che non riusciva a entrare. Per ora è un successo, ma è un’iniziativa molto difficile.

La cosa più complessa sembra inserirsi tra euro-scettici e forze moderate.

In Italia c’è una maggioranza molto critica dell’Europa ma che non la vuole sacrificare: i sondaggi parlano chiaro. Ed è così anche in Grecia. Tsipras è cambiato molto dalla campagna elettorale del 2012: ha fatto una vera evoluzione europeista, anche per tenere conto della volontà popolare. C’è una parte settaria della sinistra greca che è molto anti-euro, ma lui ha deciso di imporre una linea europeista.

Questo però sembra il momento degli euroscettici.

La crisi è stata un colpo durissimo all’economia europea, al welfare, ma anche un rivelatore della perdita di sovranità degli Stati nazionali congiunta con la crisi delle democrazie. Ha mostrato che siamo a un bivio: bisogna capire dove vengono dislocati i poteri persi dagli Stati. Ci sono due grandi linee politiche in Europa. La prima: abbiamo fatto l’Europa, grosso modo va bene, bisogna migliorarla con piccole riforme. La seconda linea è quella di chi considera questa Europa una micidiale minaccia alle sovranità nazionali, da recuperare. Alla destra estrema che dice queste cose da anni si è aggiunta durante la crisi una buona porzione della sinistra e parte del M5S. Due linee apparentemente antagoniste ma complici nella difesa dello status quo.

In che senso?

Abbiamo perso sovranità nazionale e i poteri sono passati a entità superiori su cui non c’è controllo: le forze del mercato, gli Usa. Si determina una strana complicità tra i difensori del mercato che si aggiusta con le proprie forze e chi più violentemente critica questo approccio. L’iniziativa Tsipras serve a far capire che è possibile una linea fortemente europeista che denuncia questa complicità tra i no e i sì, una linea che io chiamo degli “europeisti insubordinati”. I poteri non devono “evaporare”, per usare un’espressione di Giuliano Amato, ma essere trasferiti all’Europa, alle sue istituzioni politiche che vanno radicalmente cambiate perché oggi non sono in grado di rappresentare un punto di riferimento politico forte alternativo alle forze del mercato.

Ma le istituzioni europee sembrano bloccate.

Siamo in una situazione simile a quella in cui Alexander Hamilton, ministro del Tesoro americano, usò la crisi del debito dopo la guerra d’indipendenza per passare da una confederazione molto lasca di Stati a una federazione, con poteri più forti, anche impositivi. In Europa il rischio è il ritorno alla situazione di prima della Seconda guerra mondiale: balance of power tra Stati in cui conta la volontà del Paese più forte. È naturale che la Germania diventi il Paese egemone anche se non lo vuole. Tutto quello che conta viene deciso dal Consiglio europeo, cioè dagli Stati, sulla base di un metodo assurdo, che porta alla distruzione delle istituzioni: l’unanimità.

L’unico motore rimasto pare la Bce.

La Bce è un’istituzione federale, ma non ha legittimazione democratica. È come se Hamilton invece di usare la crisi del debito per arrivare alla Costituzione federale avesse cominciato dalla banca centrale. La Bce ci ha salvato più volte. Il problema è la politica che lascia alla banca centrale un compito che non sarebbe suo. La creazione di un’Europa politica permetterebbe infine alla Bce di divenire una Banca prestatrice di ultima istanza. E dopo il momento hamiltoniano servirebbe quello rooseveltiano.

Cioè un piano per uscire dalla recessione.

Non ci si può limitare alla battaglia contro l’austerità. Il momento rooseveltiano è l’idea del New Deal, o del Piano Marshall, come dice Tsipras: gli Stati devono stare attenti all’indebitamento, quindi spetta all’Europa occuparsi della crescita per tutta l’Unione.

E chi paga un New Deal europeo?

L’Europa deve cominciare a imporre tasse. Non c’è tassazione senza rappresentanza, ma è vero anche il contrario. Penso alla tassa sulle transazioni finanziarie e sulle emissioni di anidride carbonica. Secondo le stime valgono 40 miliardi ciascuna. La tassa sulle transazioni finanziarie è stata già approvata, in teoria.

Sì, ma poi le risorse della Tobin Tax sono rimaste a livello nazionale.

Dobbiamo renderla davvero europea.

Quando si è negoziato il bilancio europeo dei prossimi sette anni, pochi mesi fa, tutti i Paesi dell’Unione hanno lavorato per ridurlo, tanto che poi il Parlamento europeo lo ha bocciato.

Prima c’è stata una bocciatura, poi il compromesso sull’impegno di rivederlo nel 2016. Questa vicenda dimostra che i Consigli europei andrebbero proprio eliminati: i governi, con scelte come quella di ridurre al minimo il bilancio comunitario, vanno contro gli interessi dei loro stessi cittadini.

In questi anni l’Europa è cambiata tantissimo, c’è il fondo Salva Stati, l’inizio di un’Unione bancaria, un coordinamento di politica economica. Non basta?

Abbiamo ottenuto alcune cose necessarie, le autorità di Bruxelles considerano superata la fase acuta della crisi del debito. Se non vengono accompagnate da un cambiamento radicale delle istituzioni e da un New Deal europeo, questi piccoli passi rischiano di essere distruttivi perché confermano la vulgata secondo cui si sono salvate soltanto le banche. Mentre una gran parte dell’economia reale europea resta in uno stato di sofferenza acuta. L’operazione è riuscita ma il malato è morto.

L’idea di uscire dall’euro ha parecchi seguaci.

È un’illusione pensare che lo Stato nazione torni com’era. Abbandonare la moneta unica per recuperare sovranità servirebbe solo a rendere la lira più dipendente dal marco e dal dollaro, il Paese diventerebbe un orpello di poteri su cui meno che mai avrebbe un controllo.

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