Guai a chi osa toccare il totem “Europa”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 dicembre 2023

Da quando sono apparse in Italia le prime critiche forti dell’Unione europea, e di uno sfacelo che va ben oltre la vicenda del Mes, i benpensanti sono in allarme. Militano a destra, nel centro, nell’ex sinistra Pd.

Nei grandi giornali hanno la penna pronta e la supponenza facile, perché l’Unione che pensano e piantonano non è un progetto che evolve ma un totem immobile, non perfettibile, antenato mitico che si venera sempre allo stesso modo, come se il mondo non cambiasse di continuo. Il totem è indifferente ai contesti e alla storia. Spiega il dizionario De Mauro che totem vuol dire “segno del clan”: grazie a esso “i membri del gruppo si riconoscono parenti”.

La bocciatura parlamentare del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) è solo l’ultimo episodio di quello che gli editorialisti dei principali giornali denunciano come sacrilego assalto al totem. L’Europa “è naturaliter il nostro orizzonte morale e valoriale”, si legge nei commenti, oppure: “Sovranisti di destra e populisti grillini si ritrovano nella stessa trincea (…) l’identità europea è il vero spartiacque fra le nostre forze politiche”. Non viene spiegato cosa significhi orizzonte valoriale: quali siano i princìpi in una Comunità che li sta calpestando in massa, e non a caso preferisce parlare di valori anziché di diritto esigibile. Né è afferrabile l’identità europea, non identificato oggetto vittima di guerre di trincea.

Intanto andrebbe chiarito un punto sul Mes, omesso ieri alla Camera dal ministro Giorgetti: fin da quando nacque, nel 2012, il Meccanismo fu concepito come dispositivo intergovernativo. Essendo esterno all’Unione, il suo mandato non è la difesa di un comune interesse europeo. Commissione e Bce disciplinano gli Stati assistiti e impongono vincoli che non mutano – tagli a spese sociali, disuguaglianze, privatizzazioni – ma sono solo esecutori. Il Parlamento europeo è estromesso. Come disse l’economista Giampaolo Galli nel 2019, i poteri molto ampli del meccanismo “si sovrappongono a quelli della Commissione sull’intera materia dell’analisi e valutazione della situazione economica e finanziaria dei Paesi dell’eurozona, non solo di quelli sottoposti a un programma di aggiustamento”.

Naturalmente il Parlamento italiano poteva ratificare la riforma del Mes senza pagare prezzi, visto che ratificare non significa chiedere prestiti. Se non lo ha fatto, e la riforma è stata bocciata da un’inedita maggioranza Fratelli d’Italia, Lega, M5S, è perché il contesto della ratifica è stato giudicato insoddisfacente: il giorno prima il Consiglio europeo aveva varato un nuovo Patto di Stabilità piuttosto rigido, ma approvato da Roma perché “migliore del precedente” anche se “peggiore della proposta della Commissione” (parola di Giorgetti). Ma se era migliore perché il No di Meloni al Mes?

Il Patto rinnovato mette in realtà un termine al comune indebitamento europeo, che Conte ottenne con grandi sforzi negoziali durante la pandemia, che rivoluzionò il dogma secondo cui l’“ordine in casa propria” va anteposto alla solidarietà, e che assegnò all’Italia ben 209 miliardi. La rivoluzione è finita, la Restaurazione ordoliberista torna a regnare restituendo al mercato lo spazio perduto: questa l’iniqua scelta di un’Unione che con l’arma dell’austerità ha già immiserito e umiliato la Grecia, nel 2009-2019. Dei tre protagonisti della troika, solo l’ex presidente della Commissione Juncker ha pronunciato un mea culpa (“Abbiamo calpestato la dignità dei Greci”). Olivier Blanchard del Fondo Monetario Internazionale ha ammesso un “peccato originale”. Unico privo di rimorsi: Mario Draghi che dirigeva la Banca centrale europea. È elogiato perché con tre parole “salvò l’euro”. Non si dice mai a che prezzo, per il welfare e la dignità degli Stati “salvati”. Gli anni del debito comune non sono una rivoluzione europea per Giorgetti, ma “quattro anni di allucinazione psichedelica” indotta dal debito italiano facile.

È da qualche tempo che la parola contesto è equiparata a eresia anti-europea. È eretico indicare il contesto – cioè le radici – dell’aggressione russa all’Ucraina (veto di Washington e Nato alla neutralità di Kiev) o della violenza di Hamas (rapporti rovinosi Israele-palestinesi). Così per quanto riguarda il Mes. Meloni ha detto più volte che la riforma andava vista “nel contesto” di un Patto di Stabilità meno castigatore. Non senza ragione: accettare centri di controllo paralleli all’Ue è pericoloso, se contestualmente non si punta all’indebitamento comune. Patto e Mes aggiornati certificano l’impossibilità di un’Unione fondata sulla solidarietà, che preceda i “compiti da fare in casa”.

Il guaio è che né Meloni né Giorgetti hanno mostrato di sapere cosa dicono quando difendono, ma poi dimenticano, l’idea di contesto: né su Ucraina, né sulla sovranità limitata dalla Nato, né infine, oggi, sul controrivoluzionario nuovo Patto di Stabilità, nato da un accordo fra Parigi e Berlino senza sostanziali interferenze italiane. Senza che Macron mantenesse la promessa di fronteggiare con noi i falchi dell’austerità europea. Contrariamente a quanto proclamato da Meloni, l’Italia non ha “ottenuto moltissimo”. I vincoli non solo restano ma si moltiplicano, i controlli concedono qualche esenzione ma sono onerosi, la sovranità solo sbandierata a destra è sbrindellata. Solo per tre anni ci sarà un po’ di flessibilità (riduzione annuale del debito dello 0,5 per cento del Pil, poi dell’1,5). Sono gli anni del governo Meloni. Si può solo sperare in emendamenti incisivi, quando il Patto sarà votato dal Parlamento europeo. Quanto al sovranismo, c’è da sperare che cessi di essere un insulto mai approfondito.

Si capisce il sì al Mes dei neocentristi Renzi e Calenda. Sono gli scimmiottatori di Macron, artefice ultimamente di una legge sull’immigrazione che non ha avuto bisogno dei voti di Le Pen in Parlamento, solo perché aveva assorbito grandissima parte delle idee lepeniste. Macron in Francia è un mito spento. Veramente incomprensibile di contro è il Pd. “Non ci hanno visto arrivare”, aveva detto Elly Schlein, ma nel frattempo è arrivata e non ha ancora scelto se liberarsi della fallimentare Terza via di Blair, Renzi, Enrico Letta. Prodi si augura che Schlein diventi il federatore del centrosinistra allargato, senza intuire che missione primaria del segretario, al momento, è federare il Pd. Missione per ora incompiuta. Schlein non sta creando un Pd diverso, pur volendolo intensamente. Difende i diritti, il salario minimo, i migranti, ma ammutolisce in Europa sull’ordoliberismo di stampo tedesco, sulla Nato, sulle guerre. I socialisti nel Parlamento europeo, italiani compresi, non hanno mai condannato l’umiliazione della Grecia, avendo sempre anteposto l’alleanza coi Popolari. Ma soprattutto: se si esclude il Movimento di Conte, difficile che i partiti azzardino critiche radicali e non occasionali all’Unione. Basta un momento di lucidità, sullo sfacelo europeo, e subito partono le mitragliatrici degli affratellati guardiani del totem.

© 2023 Editoriale Il Fatto S.p.A.

I disastri dello status quo

La versione inglese di questo testo è stata pubblicata da openDemocracy

È opinione molto diffusa che Alexis Tsipras abbia smentito chi lo considerava sconfitto, annunciando il ritorno alle urne il 20 settembre e chiedendo un nuovo mandato popolare. È un’opinione non solo affrettata ma soprattutto irrealistica, perché nella sostanza nulla cambierà in Grecia, tutto è già scritto nel Memorandum d’intesa che il Premier ha sottoscritto con le istituzioni europee il 12 luglio scorso: l’austerità che continua e si inasprisce, la svendita di gran parte del patrimonio ellenico a imprese in gran parte tedesche, il fallimento di una sinistra che si illudeva di scardinare l’europeismo realmente esistente per fondarne un altro, non più germanocentrico e non più prigioniero del dogma neoliberista. Anche se il debito greco venisse ristrutturato – prima o poi lo sarà, dal momento che resta insostenibile – la strada è tracciata e non sono i greci ad averla decisa né a poterla cambiare. La constatazione di Stefano Fassina, ex vice ministro dell’economia uscito dal Pd italiano, è impietosa e appropriata: «Promettere un’interpretazione ‘sociale’ del Memorandum è propaganda. Quando ti sei impegnato a fare un avanzo primario di 3,5 punti percentuali e tagli pesanti già da quest’anno puoi dire addio al sostegno del reddito».[1]

Una via d’uscita differente era ed è possibile? Fuori dalle istituzioni europee era forse possibile, ma impraticabile: un Grexit gestito in maniera ordinata non è al momento consentito né dagli Stati forti dell’Unione né dalla Bce. Quanto alla proposta fatta a suo tempo da Yanis Varoufakis (rifiutare il memorandum, creando la liquidità necessaria a fronteggiare la chiusura delle banche tramite una provvisoria moneta parallela), sarebbe stata rigettata durante una riunione ristretta di gabinetto. Restano le riforme interne, che Tsipras vuol ottenere all’ombra del Memorandum: associando ad esempio il Parlamento europeo, “unico organo dell’Unione eletto dai cittadini” al Quartetto dei Creditori che ha preso il posto della Trojka (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo Monetario, Meccanismo europeo di stabilità). Difficile pensare che gli elettori greci si entusiasmino all’idea che il loro potere venga prima svuotato, poi trasferito a un Parlamento europeo dominato stabilmente da ben diverse coalizioni di forze. Il Premier dimissionario è certamente consapevole che il suo odierno orizzonte è quello di un fallimento: altrimenti non avrebbe ammesso di aver firmato “sotto ricatto” il Memorandum.

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Golpe di tipo nuovo voluto da Merkel, Lagarde e Renzi

Intervista a Barbara Spinelli di Giampiero Calapà, «Il Fatto Quotidiano», 1° luglio 2015

«Inammissibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

Cos’altro vuole la Germania? Il sangue greco? È un intervento gravissimo. Non può e non deve essere il cancelliere, l’interlocutore di Atene. Le trattative le porta avanti la Troika, anche se i greci rifiutano di chiamarla così: Commissione europea, Bce e Fmi. Anzi sarebbe bene che Atene negoziasse prescindendo dal Fmi. Il resto è ingerenza. Qual è il motivo dell’ingerenza?
Si configura come un colpo di Stato di tipo nuovo: una forma di regime change. È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras.
Perché?
Per avere di nuovo, in Grecia, un gruppo dirigente in linea con l’austerità voluta da Berlino. Ma è proprio così che si è generato il disastro europeo che stiamo vivendo. Non è responsabile solo la Merkel, ma anche la Lagarde, Renzi e molti altri.
Non era questa l’Europa sognata da suo padre a Ventotene…
Era l’opposto. È stata azzerata la solidarietà, l’Unione oggi viola il proprio stesso Trattato, che prescrive la “cooperazione leale” in caso di crisi. Dovrebbe essere citata davanti alla Corte di Lussemburgo. E la Bce non è in grado di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. L’interruzione degli aiuti d’emergenza viola le regole stesse della Bce, che dovrebbe garantire stabilità finanziaria nell’eurozona.
Boccia anche l’operato di Mario Draghi, quindi?
Difendo l’indipendenza della Bce e il ruolo positivo spesso svolto durante la crisi dell’euro. Negli ultimi frangenti, però, la stessa Bce ha svolto un ruolo molto dubbio, di parte. Non indipendente.
 
Crede che il suo gruppo, la Sinistra europea, abbia responsabilità?
La Sinistra europea è minoritaria, non mi pare responsabile di questo dramma.
 
Almeno la responsabilità della sconfitta?
Il governo Tsipras ha indetto un referendum: non è una sconfitta, ma un ritorno alla natura democratica della costruzione europea contro le decisioni prese da poteri oligarchici. L’azione di Tsipras è una scommessa sulla democrazia, l’elemento che più è mancato nella crisi dell’euro.
La cura potrebbe essere l’unità tra sinistra radicale e socialdemocrazia?
È la cosa in cui spero moltissimo. Così come punto su alleanze con i Verdi. Ma non sembrano esserci ancora le condizioni. Dopotutto i partiti socialisti (la Spd tedesca e anche il Pd) hanno sulla Grecia una posizione perniciosa, ambigua: interpretano il referendum come una scelta tra dracma ed euro. Ma Tsipras non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro. I socialdemocratici sono dentro una deliberata strategia della paura e della menzogna, molto pericolosa.
Paradossalmente anche il Movimento cinque stelle racconta così questo referendum…
Fa molto male. Beppe Grillo ha tutto il diritto di pensare che la soluzione sia l’uscita dall’euro, ma non la penso così io e non la pensa così il governo Tsipras.
Che cosa succede se vince il sì?
Il panico è tale che non si può escludere una vittoria del sì alle proposte della Troika, ancora nel segno dell’austerità. Credo che in quel caso il governo Tsipras accetterà comunque il nuovo mandato popolare, se ne farà interprete fino ad accettare le proposte della Troika e “riconfigurando il governo”, come ha detto il ministro Varoufakis.
L’Europa del dopoguerra era una speranza. Oggi non riesce a fornire alcuna risposta. Né economica né di civiltà. E il Mediterraneo sembra diventato un mare di migranti in costante pericolo di vita e di terroristi pronti a uccidere.
Non sono d’accordo con quest’ultima visione. È anch’essa il risultato della strategia della paura. È sbagliato mischiare migranti, richiedenti asilo, terroristi, scafisti: alimentando un immaginario di terrore nelle nazioni. Ingiusto e non corrispondente al vero.

Così si salva la democrazia: appello di Barbara Spinelli e Étienne Balibar

Chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un’ennesima terapia dell’austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil.

Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.
Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.

Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.

Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.

 

Grexit and the European sleepwalkers

di mercoledì, Giugno 24, 2015 0 , , , Permalink

Il Sole 24 ore, June 21, 2015 (Versione italiana)

“We can restore the dialogue only with adults in the room”, Christine Lagarde has affirmed, warning Greece on behalf of the Monetary Fund. Ironically, she is right: there are too many careless persons and too many economic experts lacking historical memory and geopolitical awareness in the rooms where, for months, the faith of Europe as a whole, not only of Greece, has been decided upon. When we discuss about the euro and its rules or when we invoke stronger European institutions without questioning the standards that should support the single currency, Europe as such is at stake and not just a single State in trouble.

The IFM has proven not to be fully adult itself in defending, over and over again, structural reforms that the IFM itself has questioned since 2013 for being harmful and counter-productive, hence wrong. Those who raised the spectre of Grexit selling it as an easy solution, spread panic among Greek savers, and gave misleading information about the chaos that would affect the Greek Central Bank, cannot be considered adults either. The Union Treaties and the Statute of the ECB do not provide for unilateral mechanisms designed to leave the eurozone unless the State at risk of bankruptcy preliminarily decides to leave the European Union. The Greek government is not opting for this solution. It is definitely not possible to expel Greece.

During a speech delivered at the European Parliament on June 15, Mario Draghi implicitly revealed the truth when he suggested that the “political decision will have to be taken by elected policymakers, not by central bankers”. He did not propose any real alternative, and reaffirmed that “the ball lies squarely in the camp of the Greek government to take the necessary steps” – thus appearing more political than he wanted to be – but he admitted that an additional failure in the negotiations will push us into “uncharted waters”.

The pressure put on Athens to further reduce public expenditure and pensions – even if these have been already reduced to a minimum level – confirms that the Union is led by powers lacking any sense of responsibility. If those powers were adults, they would invite to the room of negotiations persons with historical sense and, above all, historical memory. These would be persons provided with a central vision and strong inspiring principles, aware of the fact that history is tragic, mindful of the past catastrophes and conscious of the imminent risks, namely the risk for the Union to collapse and lose its attractive force towards its citizens. Sitting at the negotiating table there would be geostrategic experts and all those economists – such as the two Noble Prices Winners Joseph Stiglitz and Paul Krugman – who have been regularly despised in all these years even though they never proved wrong. We do not see predictive economists among those who are pushing the Tsipras Government to carry out already accomplished structural reforms, but simple politicians who, in order to hold their power, lazily and indifferently keep on following hegemonic austerity philosophies that have already proved their obsolescence. The real gross domestic product of Greece already fell by 27% due to austerity measures, the public debt rose to 180% of GDP, unemployment has reached 27%.

Experts in geopolitics would help us understand the centrality of Greece within a Europe struggling with chaos at its Eastern and Southern borders. A Europe which is unable to face this chaos autonomously – and does not want to tackle it by itself, while, at the same time, keeping the distances from an American strategy that consciously revives the Cold War with Russia and has contributed to create, beyond the Mediterranean Sea, an area of instability from Sub-Saharan Africa to Afghanistan. Greece is at the border of this world, at the crossroads of the Balkans, the Middle East, and Syria. Its bonds with Russia are strong and deep-rooted. The aversion of the Tsipras government to the war on terrorism, and more recently to the project of intervening in Libya to fight against human traffickers, is well-known in Berlin and Paris. Its hostility against the Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) is equally known. Perhaps, someone in Europe would like to “lose” Athens precisely for such reasons, but this loss would be a political suicide.

Europe cannot give up Greece if it wishes to stop being a puppet of the US administration, to avoid a new cold war and to properly analyse the Ukrainian situation – while recognising that Ukraine moved from a pro-Russian oligarchy to another kind of oligarchy linked to russophobic right-wing extremists. Europe cannot manage without Greece on immigration issues either. The newly elected Greek government is facing an influx of migrants and asylum seekers much heavier and sudden than the Italian one and it is dealing with it without evoking xenophobic instincts. The hypothesis of a Grexit is not only outrageous but even dull if compared to the silence that, at the same time, surrounds the Hungarian plan – announced on June 17 – to erect a 175 km long wall along the border with Serbia in order to stop the flow of refugees and migrants into the country.

Finally, negotiations lack of persons with a basic level of general knowledge. In an article published on June 16 by Die Welt, the commentator Jacques Schuster warned the Germans that Tsipras is proving to be one of the most skilful and astute European politicians: he is capable of exploring the deepest recesses of the German soul and of using guile and cunning in order to take advantage of the “weak nerves” of Germany. It cannot be otherwise: “the Greeks are a nation of sailors”, and the sailors “are used to fluctuate in the waters and swing on the edge”.

Such worrying articles are reminiscent of pre-First World War language, charged with psycho-ethnic allusions to the “nerves” of single personified populations. The distinction between Land and Sea – theorized by Carl Schmitt in the Thirties and Forties – comes back: on one side, lawless people that are used to fluctuate in the oceans and, on the other side, cultures rooted in the mainland and thus able to create the nòmos, namely the law and all the needed rules.

The European Head of States appear to come from those ages. They seem monarchs who, as drunkards, let themselves be tempted by such bellicose lexicon without realising it. The future of Europe is too important to be entrusted to sleepwalkers who only base their expertise on defunct economic theories. Being an adult in Europe means having the ability to recognize not only uncharted waters, but even the muddy ones into which we risk to blunder.

Il pericolo di Grexit e i sonnambuli europei

di lunedì, Giugno 22, 2015 0 , , , , Permalink

Articolo uscito su «Il Sole 24 Ore», 21 giugno 2015 (English version here)

Dice Christine Lagarde, mettendo in guardia la Grecia in nome del Fondo Monetario, che «possiamo riavviare il dialogo solo se ci sono adulti nella stanza». Paradossalmente ha ragione: ci sono troppe persone incaute, troppi esperti economici privi di memoria storica e coscienza geopolitica, nelle stanze dove da mesi si sta decidendo il destino non tanto di Atene, quanto dell’Unione. Perché quando si discute dell’euro e delle sue regole, quando si invocano istituzioni europee più solide senza mettere in questione i parametri chiamati a sorreggere la moneta unica, è di tutta l’Europa che si parla e non di un singolo Paese in difficoltà.

Non è completamente adulto il Fmi, che difende a oltranza riforme strutturali giudicate dal Fondo stesso nocive e controproducenti, dunque sbagliate, fin dal 2013. Non sono adulti coloro che agitano lo spettro del Grexit, fingendo che sia una cosa facile, seminando panico nei risparmiatori greci, disinformando sul caos che regnerebbe nella Banca centrale ellenica. I Trattati dell’Unione e lo statuto della Bce non prevedono uscite unilaterali dall’euro, a meno che il Paese a rischio bancarotta non decida preliminarmente di abbandonare l’Unione stessa. Cosa che il governo greco non ha alcuna intenzione di fare. Cacciarlo non si può.

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C’è ancora un’Europa?

di martedì, Febbraio 10, 2015 0 , , , , Permalink

Editoriale pubblicato su «Il Fatto Quotidiano», 10 febbraio 2015

English version

In un’Unione malata, divisa, minacciata da povertà e diseguaglianze crescenti, le proposte avanzate dal governo greco dopo le elezioni del 25 gennaio andrebbero attentamente esaminate e discusse: tra i 28 Stati membri, tra i 19 governi dell’eurozona, e nella Commissione, nel Parlamento europeo, nella Banca centrale europea. Le risposte fin qui date ad Atene sono non soltanto ingiuste e in alcuni casi pericolosamente antidemocratiche, ma del tutto controproducenti. La possibilità di cambiare radicalmente rotta, nell’amministrazione della crisi e nei programmi di austerità, viene esclusa a priori. La domanda stessa formulata dal governo Tsipras – non una cancellazione del debito ma un negoziato sulle modalità dei rimborsi e un aggancio di questi alla crescita – viene arbitrariamente travisata, demonizzata, e rigettata. Vince l’autocompiacimento della fede, contro i fatti e l’evidenza dei fatti. La malattia, non curata, coscientemente la si vuol perpetuare.

Per questo c’è da allarmarsi, quando i governi (e in primis il governo tedesco) lasciano sola la Banca Europea, con le uniche risposte tecniche che le sono consentite, a sciogliere nodi che essendo eminentemente politici non le spettano. Sola, ad annunciare che non accetterà più i titoli di Stato ellenici, e a dare alla Grecia pochi giorni di tempo per rientrare nei ranghi e obbedire alle direttive impartite a suo tempo dalla troika (la BCE lascia tuttavia una porta aperta: la possibilità di erogare Liquidità d’Emergenza attraverso l’ELA). Vuol dire che la richiesta di studiare il piano ellenico di rientro dal debito non sarà neppure presa in considerazione. Che al governo greco è vietato fronteggiare l’emergenza umanitaria con aumenti del reddito minimo, con la restaurazione di servizi pubblici basilari nell’istruzione e nella sanità, con nuovi investimenti, con tasse patrimoniali. Vuol dire che non si discuterà del Piano Marshall – ben più consistente del Piano Juncker – che il ministro del Tesoro Yanis Varoufakis ha proposto al governo Merkel, chiedendogli di divenire l’“egemone” di un’Europa da guarire e rifondare. Vuol dire che l’Europa così com’è non è considerata affetta da una crisi sistemica tale da mettere in questione non qualche Stato indebitato ma l’intera architettura dell’unione monetaria. Significa infine chiudere gli occhi di fronte all’essenziale: il divario che va estendendosi fra la sovranità dei cittadini, iscritta nelle singole costituzioni, e quello che un’élite decide al loro posto. Il fastidio è palpabile e diffuso, verso il tribunale democratico che sono le elezioni.

Personalmente non auspico il ritorno delle Banche centrali nelle mani degli Stati, né la fine dell’indipendenza dell’istituto di emissione. Ritengo che tale indipendenza rappresenti non un ostacolo, ma una precondizione perché il pubblico interesse sia almeno parzialmente tutelato dall’intrusione imprevedibile e infida dei mercati, delle lobby, delle forze politiche di questo o quello Stato. La vera insidia non è racchiusa nell’indipendenza della Banca centrale, ma nella sua eccessiva solitudine. Un comune istituto di emissione senza Europa politica sarà per forza di cose accusato di ingerenza e prepotenza. La Banca centrale è, e deve rimanere, un’istituzione con compiti limitati; non può colmare le lacune della politica. Tuttavia, deve essere più che mai consapevole delle speciali difficoltà e responsabilità che derivano dall’anomalia di una moneta senza Stato.

Una moneta è legittimata se costituisce lo strumento di pagamento e di scambio di un territorio dotato di un governo, di un sovrano politico: in democrazia, un sovrano legittimato dalle urne. Se l’euro non è legittimato, è appunto perché continua a essere una moneta senza Stato. Contrapporre le riforme strutturali dell’eurozona al verdetto delle urne, affermare che le elezioni democratiche non hanno effetto alcuno sugli accordi di gestione della crisi che hanno prodotto disastri umanitari in uno Stato membro è una regressione gravissima. Questa regressione è in atto da molti anni: perdono peso le Costituzioni, i Parlamenti, gli appuntamenti elettorali. La crisi economica che traversiamo è sfociata in crisi delle democrazie. Cresce la propensione a ripetere errori del passato, precipitando un popolo nell’umiliazione: tende a ripeterli proprio Berlino, che sperimentò tale umiliazione dopo la Prima guerra mondiale.

Continuare a ripetere che “l’euro è irreversibile” non ha più senso. È un sotterfugio performativo, che appartiene alla sfera del pensiero magico e non ha nulla a che vedere con la realtà e con la sua possibile evoluzione. Nessuna conquista politica o sociale è irreversibile. Non dobbiamo andare molto indietro nella storia per sapere che la nostra civiltà è, come tutte le altre, mortale.


Is there still a Europe at all?

In a Union which is ill, divided and threatened by growing poverty and inequality, the proposals presented by the Greek government after the elections on 25 January should be examined and discussed carefully: among the 28 member states, among the Eurozone’s 19 governments and within the Commission, the European Parliament and the European Central Bank. The answers Athens has received so far are not just unfair and sometimes dangerously antidemocratic, they are entirely counter-productive. The possibility of radically changing course in managing the crisis and regarding the austerity programmes, is excluded without discussion. The very request made by the Tsipras government – not the cancelling of the debt, but rather, negotiations on how to pay it back, linking repayments to growth – has been arbitrarily misconstrued, demonised and rejected. What wins out is complacency deriving from faith, against the facts and the evidence they provide. No cure is provided for the disease, and there is a conscious will to perpetuate it.

This is why there is cause to be alarmed, when governments (and first of all the German government) leave the European Bank on its own with the only technical answers that it is allowed to offer, to untie knots that are eminently political and, hence, are not its competence. Without any political indication, alone on the stage, the ECB announced that it will no longer accept Greek bonds and gave Greece a few days to return within the ranks and obey the directives issued by the troika some time ago (nonetheless, it left a door open: the possibility of providing emergency assets through Emergency Liquidity Assistance, ELA).

This means that the request to examine the Hellenic plan to pay back its debt won’t even be considered. That the Greek government has been forbidden from tackling a humanitarian emergency by reintroducing the minimum wage, by restoring essential public education and health services, through new investments, by taxing property and assets. This means that there won’t be any discussion of the Marshall Plan – a lot more consistent than the Juncker Plan – which Yanis Varoufakis, the minister of the Treasury, has proposed to the Merkel government, asking it to become the “hegemonic” force in a Europe that must be cured and founded anew. This means that Europe is not deemed to be affected by a systemic crisis which calls into question the entire architecture of the monetary union, rather than a few indebted states. Finally, it means closing one’s eyes when facing something that is of fundamental importance: the gap that is widening between citizens’ sovereignty, which is written into national constitutions, and what an elite decides in their stead. Annoyance towards the democratic tribunal which is represented by elections is noticeable and widespread.

Personally, I neither wish for a return to central banks in the hands of states, nor for an end of their independence. I do not consider this independence an obstacle, but rather a prerequisite in order for public interest to be at least partly safeguarded from the unpredictable and treacherous intrusions by the markets, lobby groups, or one state or another’s political forces. The real pitfall does not lie in the Central Bank’s independence, but rather in its excessive solitude. A common central bank without a politically united Europe will necessarily end up being accused of interference and bullying. The Central Bank is, and must remain, an institution with limited functions; it cannot fill the gaps left by politics. However, now more than ever, it must be conscious of the special difficulties and responsibilities that derive from the anomaly of having a currency without a state.

A currency is legitimated if it constitutes the payment and exchange instrument for a territory that has a government, a political sovereign: in a democracy, it is a sovereign legitimated by the ballot boxes. If the euro is not legitimated, it is precisely because it continues to be a currency without a state. Placing the Eurozone’s structural reforms in opposition with the verdict from the ballot boxes, and stating that democratic elections do not have any bearing whatsoever on the crisis management agreements that have produced humanitarian disasters in a member state, is a very serious regression. This regression has been taking place for many years: the Constitutions, Parliaments and electoral results have been losing importance. The economic crisis that we are experiencing has given rise to a crisis of democracies. The inclination to repeat past mistakes is growing, plunging a people in humiliation: and it is Berlin which is bent on repeating them, in spite of experiencing this kind of humiliation itself after the First World War.

Continuing to repeat that “the Euro is irreversible” no longer makes any sense. It is a performative subterfuge that belongs to the sphere of magical thought and has no relation with reality and its possible evolution. There isn’t any political or social gain that is irreversible. We don’t need to dig too deep into history to know that our civilisation, like all the others, is mortal.

Barbara Spinelli: salviamo l’Europa
dai conservatori e dagli euroscettici

Intervista di Stefano Feltri, «Il Fatto Quotidiano», 9 febbraio 2014

Ci sarà un momento per parlare di candidature, per discutere di quanto coinvolgere i partiti, per capire se la rinascita della sinistra italiana passa da Atene. Ma per ora Barbara Spinelli, editorialista di Repubblica , scrittrice, sempre europeista e sempre più critica, vuole parlare delle ragioni che hanno spinto lei e un gruppo di intellettuali a lanciare una lista italiana a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras, capo del partito greco Syriza, alla commissione europea in vista delle elezioni di maggio.

Barbara Spinelli, lei ha contribuito a portare nella politica italiana un leader greco, Alexis Tsipras. Qual è il primo bilancio dopo la sua visita a Roma?

Ha riempito un vuoto. Sono rimasta stupita perché i grandi giornali hanno coperto pochissimo l’iniziativa, ma quando Tsipras era al Teatro Valle c’era la strada piena di gente che non riusciva a entrare. Per ora è un successo, ma è un’iniziativa molto difficile.

La cosa più complessa sembra inserirsi tra euro-scettici e forze moderate.

In Italia c’è una maggioranza molto critica dell’Europa ma che non la vuole sacrificare: i sondaggi parlano chiaro. Ed è così anche in Grecia. Tsipras è cambiato molto dalla campagna elettorale del 2012: ha fatto una vera evoluzione europeista, anche per tenere conto della volontà popolare. C’è una parte settaria della sinistra greca che è molto anti-euro, ma lui ha deciso di imporre una linea europeista.

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