Meloni deve scegliere o Draghi o Merkel

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 30 settembre 2022

Giorgia Meloni certamente lo sa: a partire dal momento in cui sarà designata presidente del Consiglio e si accingerà a formare il governo, dovrà fare i conti non solo con la supervisione di Mattarella, ma anche con le linee tracciate da Draghi, dal presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, dai vertici della Nato. Le iniziative eterodosse concesse alla minuscola Ungheria di Orbán (9,7 milioni di abitanti), o alla Turchia in seno alla Nato, sono malviste da sempre in un Paese proiettato nel Mediterraneo come l’Italia.

Draghi ha smentito fortunatamente le voci su una sua personale supervisione-monitoraggio, che si appaierebbe in modo costituzionalmente scorretto a quella del Quirinale, ma le sue scelte e non-scelte continueranno a pesare, soprattutto in ambito atlantico.

In altre parole, è come se gli italiani dopo il voto avessero un presidente visibile e un invisibile convitato di pietra, campione dell’ortodossia atlantica ed economica e imprescindibile punto di riferimento all’estero. La posizione di Draghi sulla guerra in Ucraina è stata al tempo stesso inflessibile e indolente fino a sfiorare l’immobilità, dunque l’irrilevanza: ha sostenuto senza mai batter ciglio le posizioni di Biden e del Segretario generale della Nato Stoltenberg, anche quando questi ultimi hanno bloccato tra marzo e aprile una bozza d’accordo Mosca-Kiev; ha fatto approvare dalla propria maggioranza sanzioni e invii di armi; si è guardato dall’appoggiare Parigi, quando Macron ha messo in guardia contro “l’umiliazione della Russia” e mantenuto un dialogo con Putin. La politica che potrebbe aver consigliato alla Meloni durante la campagna elettorale è un impasto di passività e subordinazione riassumibile nella parola d’ordine: non lasciarsi coinvolgere in iniziative che Washington disapprova, a cominciare dal gasdotto Nord Stream 2. Limitarsi, giusto per una photo opportunity, al viaggio in treno con Macron e Scholz a Kiev, il 16 giugno.

Questi precedenti possono rivelarsi nefasti, perché prolungano una guerra sempre più mortifera per gli ucraini, e che sconquassa l’Europa ben più degli Stati Uniti. Incoraggiano, inoltre, l’adesione acritica a un’Alleanza militare non più solo Atlantica ma estesa al Pacifico, pronta a schierarsi con Washington contro Pechino su Taiwan.

L’imperturbabile atlantismo di Draghi e Mattarella non sembra tener conto della svolta epocale avvenuta in Ucraina e al Cremlino subito dopo le nostre elezioni: nel referendum del 27 settembre, quattro regioni del Sud-Est ucraino (equivalenti al 15% del Paese) hanno scelto l’adesione alla Russia, e quale che sia il giudizio degli occidentali (il referendum sarebbe illegale, come quello del 2014 in Crimea) le province potrebbero da questo venerdì collocarsi in Russia. Conseguenza: qualsiasi tentativo di riconquistare Crimea e Sud-Est annesso sarà considerato come aggressione diretta della Nato e di Kiev alla Federazione russa indebolita, al punto da implicare il ricorso all’atomica come ventilato nei giorni scorsi da Putin e dall’ex presidente Medvedev.

L’uso delle atomiche tattiche – probabilmente più potenti di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki – è sempre più banalizzato, dai dirigenti russi e anche statunitensi, dalla stampa Usa e dalla nostra, e la banalizzazione sta addormentando le menti dei leader occidentali, Europa compresa, invece di svegliarle e spingerle a mutare strategie. L’escalation si intensifica – si aggiunga il sabotaggio di Nord Stream 1 e 2, a prima vista non nell’interesse russo – come se nessuno volesse prender sul serio le parole di Mosca.

Ha fatto eccezione il 27 settembre Angela Merkel, in un discorso alla Fondazione Kohl. Ricordando la figura del predecessore, l’ex Cancelliera si è domandata quel che farebbe oggi l’artefice della riunificazione tedesca negoziata con Gorbaciov: in una situazione simile a quella odierna, ha detto, non perderebbe mai di vista “il giorno dopo”. Farebbe di tutto per restaurare la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, “ma parallelamente non smetterebbe mai di pensare quel che al momento è del tutto impensabile, inconcepibile: come sviluppare di nuovo le relazioni verso e con la Russia”. Ha poi aggiunto che “prendere le parole di Putin sul serio, non considerarle un bluff ma confrontarsi con esse non è segno di debolezza o pacificazione, ma di intelligenza politica”. Infine ha elencato “tre principi dell’arte politica” appresi dal predecessore: “L’importanza in politica della personalità, la volontà incondizionata di dar forma alle cose, il pensare dentro contesti storici”.

Più chiara di così la Merkel non poteva essere. La «Süddeutsche Zeitung» parla di discorso “velato”, ed è vero che dietro il velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono.

L’annessione alla Russia di una parte dell’Ucraina (non ancora ratificata dalla Duma) vede il peso dell’Italia ridotto a zero, ed è evidente ormai che dalla minaccia atomica si può uscire solo con un negoziato diretto fra le tre superpotenze: Usa, Russia e Cina. Vista tuttavia la riluttanza di Biden a una trattativa che sancirebbe la fine dell’egemonia unipolare Usa e del tentativo di separare l’Ue dalla Russia, gli europei potrebbero avviare un primo tentativo di “pensare l’inconcepibile” e conquistarsi l’autonomia strategica di cui parlano da anni inutilmente. Potrebbero smettere di puntare solo su Erdogan, che si presenta come intermediario pur di ottenere il diritto a distruggere impunemente, nel Nord-Est siriano, la democratica Repubblica curda di Rojava che ha sconfitto per noi lo Stato islamico (Isis). Il mediatore potrebbe essere proprio la Merkel, anche se gli appoggi sono tenui: sono restii i Verdi tedeschi, è contrario il suo partito, e l’Ue è divisa.

Molti avversari delle sanzioni e dell’invio di armi l’hanno indicata in passato come possibile mediatore. Adesso potrebbe diventarlo, anche se la prospettiva sembra utopica. Ha la personalità adatta, conoscendo Putin, la lingua russa, la Cina meglio dei governanti odierni. Ha saputo dar forma ai propri progetti (se si esclude l’arroganza verso la Grecia piegata dalla troika). E conoscendo Mosca e l’Est europeo, non le manca di sicuro il senso della storia.

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Germania, cercasi mamma perduta

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 25 settembre 2021

Più che una competizione politica, la campagna elettorale tedesca è stata una lunga, stremata cerimonia degli addii.

Addio ai 16 anni di Angela Merkel, eulogia sterminata delle sue ineguagliabili doti, necrologio che da mesi si sovrappone malinconicamente alle analisi su passato, presente e futuro. Non pianto, ma rimpianto che inonda ogni pensiero, paralizzando in anticipo chiunque sia chiamato a succederle alla cancelleria: forse il socialdemocratico Olaf Scholz, forse il democristiano Armin Laschet, in fondo non sembra importare molto. Forse di nuovo alleati, forse invece coalizzati ciascuno con altri partiti: Verdi o Liberali. Con la sinistra – la Linke – le coalizioni restano improbabili: il “nemico rosso” già governa in regioni e città, ma critica troppo la Nato. La logica dell’obituario esige che tutto resti così com’è. Come se ancora ci fosse lei: Mutti come la chiamano i tedeschi – Mamma. Di Mamma ce n’è una sola.

Scialbi tutti e due, Scholz e Laschet, non perché la natura li abbia fatti così, ma perché questa è la legge del necrologio cui si attengono quasi tutti i commentatori, soprattutto fuori dalla Germania. È commisurando le caratteristiche dei candidati al mirabile profilo della Merkel che il commentatore giudica, azzarda ipotesi di coalizioni, di politiche. L’occhio sgranato dei celebranti non vede quel che guarda. Vede solo quello di cui ha fin d’ora nostalgia, l’attimo che vorrebbe fermare perché così bello.

L’attimo di Angela Merkel non è stato eroico. Non è stato nemmeno carismatico, come ricorda lo storico Heinrich August Winkler. Gli attributi che sintetizzano i 16 anni di governo, e che si ripetono con impressionante monotonia, sono: pragmatismo in primis, e uso parsimonioso della parola, senso dell’utile, del management, della modestia.

Questo si cerca oggi di trovare, nei successori e anche ai vertici degli Stati europei: un sosia della Merkel.

Scholz e Laschet vanno bene se la imiteranno, se continueranno a disarmare l’immaginazione, se non saranno lì per risolvere le grandi crisi, ma per arrangiarsi e cavarsela nel breve termine (durchwursteln è l’ottimo verbo tedesco).

Sono anni che Angela Merkel è descritta come egemone in Europa, e oggi più che mai. La modestia pratica elude le ideologie, le visioni di lungo periodo, le scelte trasformatrici che durano nel tempo. Angela era così anche quando viveva nella Repubblica Democratica Tedesca: silenziosa e ligia. Quando i tedeschi dell’Est sfilavano nelle piazze lei non c’era. Fece capolino ben dopo la caduta del Muro di Berlino, quando Kohl la scelse come pupilla.

Il management delle crisi è la dote merkeliana cui oggi si anela, ovunque. Anche quando si espresse con ferocia, e Berlino impartì le direttive alla trojka che piegarono e umiliarono la Grecia, riducendola quasi alla fame con l’assistenza della Banca centrale europea e della Commissione europea.

A volte la monotonia pragmatica s’interruppe, e Mutti improvvisò condotte inedite. Accadde quando annunciò l’uscita dal nucleare, dopo il disastro di Fukushima, ma accrescendo poi la dipendenza da carbone e gas. E accadde soprattutto nel 2015, durante quella che viene chiamata crisi migratoria e fu invece crisi europea sulle migrazioni. La Merkel d’un colpo spalancò le porte ai migranti, soprattutto siriani. Furono circa 1 milione a entrare. Ma durò poco, tanto quanto bastava per ringiovanire un Paese sempre più vecchio. Le porte si richiusero, e Berlino fu la prima nell’Unione a imporre un accordo con la Turchia cui si chiese di non far partire i rifugiati in cambio di 6 miliardi di euro.

Un’altra interruzione dell’utilitarismo pragmatico fu la messa in comune del debito europeo, al culmine della pandemia Covid: una soluzione sempre osteggiata dal dissimulato nazionalismo tedesco. Nato in Germania, l’ordoliberismo esigeva che ogni Paese membro “facesse i compiti in casa” prima di ricevere assistenza dall’Unione ed ecco che d’un tratto Merkel sconfessava gli ordoliberisti, accettava la lettera che Giuseppe Conte aveva scritto assieme ad altri otto leader dell’Unione in favore di una nuova solidarietà europea. Ne nacque il Recovery Plan, particolarmente generoso verso Italia e Spagna.

Ma Mutti non disse mai che la soluzione sarebbe stata strutturale, permanente, e tale da abolire i rigidi parametri fissati a Maastricht e inseriti nei Trattati dell’Unione. Fu un’iniziativa necessaria ma di eccezione, fece capire. E così dicono i successori: da Laschet il democristiano agli aspiranti Tesorieri nei futuri governi di coalizione (tra gli altri: il democristiano Friedrich Merz o il liberale Christian Lindner). Lo stesso Scholz, che forse favorirebbe il superamento di parametri che risalgono agli anni Novanta, non ha mai preconizzato a chiare lettere la loro riscrittura. Lo spettro dell’Unione delle Elargizioni (“Transfer Union”), di cui profitterebbero gli “sperperatori intrappolati nel debito” del Sud Europa, continua a ossessionare le élite tedesche, dalla Banca centrale nazionale all’Unione industriali: una paura cavalcata per anni dalla nuova destra impersonata da Alternativa per la Germania (Afd), nata nel 2013 durante la crisi greca.

Si è anche molto parlato dell’asse fra Macron e Merkel. Ma Berlino in realtà fa da sé, sia nei rapporti con Mosca (di volta in volta freddi e caldi) sia in quelli con la Cina.

La Cancelliera non ha sprecato molte parole neppure quando Emmanuel Macron ha ricevuto da Joe Biden la formidabile sberla che è consistita nell’accordo Usa-Australia-Regno Unito per la fornitura di sottomarini a propulsione nucleare, che ha affossato l’accordo franco-australiano con una mossa imperiale che smentisce ogni ipotesi sul declino Usa dopo il ritiro dall’Afghanistan. Troppo presto è stato scritto che lo schiaffo colpisce l’intera Unione, proprio mentre quest’ultima discute di comune difesa e perfino di autonomia strategica da Washington.

Non ci sarà mai accordo su simile autonomia, fino a quando Parigi non “europeizzerà” la propria atomica e fino a quando gli avamposti orientali dell’Unione (Polonia, Baltici) preferiranno la protezione militare statunitense garantita dalla Nato.

Berlino stessa, di fronte a una scelta radicale, non si farà trascinare in prove autentiche di indipendenza. Adenauer fu messo davanti a questa scelta da De Gaulle, alla fine degli anni Cinquanta, e rispose con un secco No.

Forse verrà il giorno in cui Berlino guiderà la trasformazione dell’Unione. Ma l’Eliseo dovrà cambiare rotta, e per smuoverlo non basterà di certo il pragmatismo tedesco.

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Draghi e la necessità di un lockdown

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 16 febbraio 2021

La prima prova del governo Draghi, e la più urgente, riguarda il Covid e le varianti che stanno per prendere il sopravvento in tutta Italia (la variante inglese si sostituirà al virus circolante entro 5/6 settimane, ha detto il 13 febbraio Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità. Le varianti brasiliane e sudafricane cominciano a circolare).

Le nuove necessità sanitarie non consentono dilazioni, e si spera vengano esplicitate nel discorso programmatico che Draghi pronuncerà mercoledì in Parlamento. Il Comitato tecnico scientifico e i principali esperti chiedevano da giorni il rinvio della riapertura delle piste di sci, ma c’era la crisi. Alcuni consigliano un lockdown totale e immediato, scuole comprese. L’appello al lockdown viene da esperti indipendenti come il virologo Andrea Crisanti, e dal consigliere del ministro della Salute Walter Ricciardi. Ridurre la trasmissione del virus è oggi l’imperativo whatever it takes, a ogni costo.

Roberto Speranza ne ha tenuto conto, appena riconfermato ministro, e in accordo con Draghi ha deciso di prolungare la chiusura degli impianti di sci. Ma i segnali che arrivano dalla maggioranza sono inquietanti. Sia la Lega che Italia Viva s’indignano per l’ordinanza del ministro. Matteo Salvini, ospite di Mezz’ora in più, ha attaccato Ricciardi, accusandolo di “terrorizzare 60 milioni di italiani”: “Non mi va bene che questo consulente dica che bisogna chiudere tutto. (…) Visto che ci sono tanti scienziati che non la pensano come Ricciardi, mettiamoli tutti intorno a un tavolo e chi convince di più con numeri alla mano ha ragione. Non ne possiamo più di questo apri-chiudi continuo”. Quanto alla chiusura delle scuole, pochi ne vogliono sentir parlare, a cominciare dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e forse anche da Draghi, che nei giorni scorsi ha manifestato la sua preferenza: anno scolastico allungato sino a fine giugno, per recuperare il tempo, che probabilmente ritiene perduto e rovinoso per il Pil, della didattica a distanza (come se quest’ultima non avesse enormemente logorato professori e studenti).

In un articolo sul «Corriere della Sera» dell’11 febbraio, lo scrittore e fisico Paolo Giordano esprime una preoccupazione interamente condivisibile: che il discorso economico sia tornato a predominare su quello della sicurezza sanitaria, e che la concentrazione sul Recovery Fund e la crisi di governo “stia nella sostanza ‘assorbendo’ il discorso pandemico, relegandolo a un sottofondo, a un ipotetico normale”. Di qui la marginalizzazione degli esperti: la loro sovraesposizione mediatica, aggiunge Giordano, “li ha resi organici alla crisi, quindi più deboli nei messaggi”.

Anche se indeboliti, tuttavia, i messaggi scientifici restano lucidi, e smantellano gran parte dei discorsi consolatori o minimizzanti fatti dai politici. Innanzitutto – dicono – non è vero che le varianti aumentano la contagiosità ma non la letalità del virus. L’aumento vistoso dei contagi moltiplicherà esponenzialmente anche i decessi, come confermato da studi britannici. In secondo luogo non è vero che le scuole siano senza pericolo: è ormai acclarato che le varianti approfittano delle scuole aperte, infettando anche bambini e adolescenti, e tramite loro le famiglie e gli anziani. È il motivo per cui Regno Unito e Germania hanno chiuso le scuole, anche se le regioni tedesche decideranno in autonomia (Angela Merkel non ha convinto tutti i Länder: il che conferma quanto sia difficile anche in Germania il rapporto Stato-regioni). Infine, non è vero che le vaccinazioni garantiranno presto l’immunità collettiva: nell’intervallo, il rischio è grande che il virus “impari” – se la sua circolazione non viene drasticamente bloccata – ad aggirare la protezione vaccinale attraverso nuove e probabili mutazioni. Il lavoro così come impostato da Domenico Arcuri è prezioso e si spera che possa continuare e accelerare: comunque, è grazie a lui che l’Italia è oggi il Paese che vaccina di più in Europa.

Questo significa che fin da mercoledì, Draghi si troverà a dover scegliere, e ad annunciare misure molto più restrittive, come seppe fare Giuseppe Conte in occasione del primo lockdown generale. Non è detto che saprà o vorrà farlo. Perché la maggioranza così ampia che lo sostiene non favorisce coesione e rapidità di decisioni. Perché lui stesso non ha mai detto nulla di importante sul Covid in Italia (più di 74.000 morti in un anno e varianti che rendono inefficaci i vaccini: è qualcosa che subito dovrebbe neutralizzare le pressioni delle lobby economiche e i discorsi sul Pil). Se c’è una spesa da fare subito, è quella destinata al sequenziamento delle varianti Covid: un’attività per cui mancano fondi, come sostiene da dicembre il virologo Massimo Galli: “In Gran Bretagna il Covid-19 Genomics Consortium, che comprende le maggiori Università del Paese, è stato finanziato con 20 milioni di sterline e ha potuto realizzare oltre 50.000 sequenze genomiche del coronavirus, permettendo di identificare (la variante inglese), mentre in Italia i laboratori non hanno ricevuto supporto significativo. Da noi la ricerca è poco considerata anche quando servirebbe a dare risposte immediate per il controllo di una pandemia”.

Vale la pena ricordare che tra gli obiettivi di chi per mesi ha lavorato all’abbattimento del governo Conte, c’era anche quest’obiettivo: metter fine alle chiusure e agli allarmi, riaprire e ripartire. È da tempo l’opinione di Renzi, secondo cui “la politica ha abdicato nei confronti dei virologi, esattamente come abdicò negli anni 92-93 nei confronti dei magistrati e nei primi anni del decennio scorso nei confronti dei tecnici dell’economia” (discorso al Senato, 30 aprile 2020). Un’opinione che il centrodestra e le regioni da esso governate condividono.

Conte era sospettato di sottomissione al Comitato tecnico scientifico: è stato silurato anche per questo. Non è stato mai sconfessato invece dagli italiani, convinti dal suo coraggio. La sua popolarità va studiata, perché è venuta da un popolo che si è sentito al tempo stesso salvato e rovinato da lockdown e zone rosse. Il consenso di cui beneficia Draghi è costruito per adesso su parole dette in altri tempi e sul mito dell’italiano incensato all’estero, che giornali e tv amplificano smisuratamente. Per il momento ha poco a che vedere con la popolarità di Conte, per il semplice motivo che Draghi ancora non è stato messo alla prova, e che la crisi politica ha ridotto la pazienza e la vigilanza degli italiani.

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The many faces of Angela Merkel

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Bruxelles, 13 ottobre 2015. Discorso di Barbara Spinelli in occasione della proiezione del film “The Godmother” diretto da Stelios Kouloglou (GUE/NGL-Syriza, Grecia).

Gertrud Höhler, the author of the book “Die Patin” – “The Godmother” – says: there is a mystery surrounding Angela Merkel. A mystery because she wins and wins elections, without never offering any great vision, because she so manifestly lacks any emotion even looking back at the years in the German Democratic Republic – she was a mere observer, she never participated in a single demonstration in the months before the fall of the Berlin Wall – but still she never stops having success in politics and being popular in her country.

The film of Stelios Kouloglou shows very well this contradiction: it does this with humour, sarcasm and dramatic images of the devastating effects of Merkel’s austerity in Greece and in the other countries tamed by the troika.

I will try to sum up those contradictions since they are at the very essence of Merkel’s success, and constantly reveal a sort of double nature of the Chancellor. First of all, she always seemed to me a mixture of inflexibility, indecision, extreme cunning, and supreme mediocrity. The same person uses the indifference to values as a weapon, as asserted by Gertrud Höhler speaking in her book of the Chancellors systematic “value-abstinence”. At the same time she is able to literally devour one German political party after the other (first the party fashioned by Helmut Kohl, then the Spd, lastly the Greens with the exit from the nuclear energy; in the future she could even destabilise Die Linke on refugees policies). Finally, her mediocrity: it’s a talent she brings, sometimes and deliberately, to the extremes. It’s a talent well represented in the documentary of Stelios by her trivial remarks on holidays, or by what she said once about the German Democratic Republic (DDR) where she grew up: “What is most disturbing, in the DDR, is the fact that there is no decent yogurt”. That’s what she remembers of her adult life in the German communist system.

She can be arrogant and even cruel, as demonstrated by the negotiations with the Greek government on the memoranda. At the same time, she is the only European leader who tries to have sensible and rational policies on migrants. She is not only the “undercover Chancellor” described by Gertrud Höhler but she really is a two-faced person, if the circumstances so demand.

There are two sentences which show her amphibious nature. One of these is quoted in the film of Stelios Kouloglou, and it concerns the memorandum negotiated with Athens when George Papandreou was Prime Minister: “It must hurt!”, “Es muss wehtun!”. It is a terrible symbol of the austerity years. The other was pronounced in the most dramatic days of migrant’s influx, in the first half of October, when she opened the doors of her country to Syrian asylum seekers. In that occasion, she did not hesitate to clash with the right wing of her party. And she avoided the word “migrants”, preferring the more appropriate word “refugees”. She was sure of what she said: “Wir schaffen es!”. Which is the German equivalent of “Yes we can!”.

What is the link between the two sentences, apparently so divergent one from the other? They both lack any European dimension and vision. As far as austerity is concerned, the German dogma states that every country must fulfill its “homework” alone, before a real solidarity and transnational cooperation can begin: it’s the core of German ordo-liberalism. With regard to migration, she says something similar: Germany can cope with all on its own. Consequently, it means that all Member States can cope with everything on their own. Only en passant she admits that the European Dublin System is dead and gone, that the Union as such must change its whole approach on asylum policies. She has an enormous self-esteem and opinion of her country. She is substantially nationalist, in economy as well as in refugee and migration policy.

German newspapers reacted harshly to her slogan “Yes we can!”. Only two days after she uttered the sentence, they began to headline articles saying that she couldn’t at all: “No we can’t” – “ Wir schaffen es nicht”. Now she focuses all her attention, in the European Council’s meeting, on repatriation policies and on the control of the EU borders. How many Merkels are acting on the stage?