Enrico Calamai: giustizia per i nuovi desaparecidos

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Giornate di studio del GUE/NGL

Firenze, 18-20 novembre 2014

Intervento di Enrico Calamai durante la sessione del 19 novembre, dedicata al tema “Reframing migration and asylum policies: from border surveillance to migrants and asylum seekers rights approach”.

La logica di quello che nei fatti è un aberrante dumping di vite umane sembra essere: ne colpisci uno, ne educhi cento o mille. Ma il fatto sorprendente è che anche se ne colpisci cento, continuano a tentare di arrivare perché privi di alternative, in fuga come sono da dittature, terrorismo, catastrofi ecologiche e miseria estrema e crisi troppo spesso da noi stessi provocate. E allora, ecco che le frontiere vengono spinte sempre più in là, fino a renderli impercettibili nella tragedia del loro respingimento, dispersi nell’ambiente, impensabili e inesistenti perché quod non est in actis, non est in mundo.

Sono, in una parola, i nuovi desaparecidos, e il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita nel cono d’ombra di un sistema mediatico ormai prevalentemente iconografico, in cui si dà per scontato che tutto ciò che esiste viene rappresentato e ciò che non viene rappresentato non esiste, in maniera che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere.

Vale la pena soffermarsi un momento sul rapporto visibità/invisibilità. La strage di Lampedusa dell’ottobre 2013, in cui persero la vita circa 350 persone, tra cui una giovane madre col figlioletto nato e morto tra le fiamme, fece un tale scalpore da costringere le autorità italiane e quelle di Bruxelles a recarsi sul posto, a vedere di persona quel mostruoso spiegamento di bare. Ne conseguì l’avviamento di Mare Nostrum, che pur con tutti limiti inerenti a un’operazione che agisce a valle delle scelte politiche che causano il problema, ha ridato dignità alla Marina militare italiana, permettendole di salvare 130mila vite umane in un anno, ma che, trascorso per l’appunto un anno, viene cancellato per asserite ragioni di bilancio, come se fosse possibile e lecito porre un prezzo alle vite umane.

Inutile illudersi, Frontex e Triton rappresentano il ritorno a misure di polizia, non di salvataggio, facendo affidamento sulla stanchezza dell’opinione pubblica di fronte al periodico riaffiorare della sinusoide delle stragi, che, in ogni caso, riflette soltanto per difetto il numero delle vittime. Pur senza addentrarsi troppo in una contabilità evidentemente approssimativa, sorge comunque un dubbio: se in un anno di attività di Mare Nostrum ne sono stati salvati 130mila e ne sono comunque morti 3000 circa, quanti ne saranno morti negli ultimi vent’anni di cui 19 senza Mare Nostrum? Quanti ne seguiranno?

C’è, in tutto questo, qualcosa che rientra nella categoria dell’intollerabilità del diritto ingiusto, secondo la formula elaborata dal giurista tedesco Radbruch al termine della II guerra mondiale.

A noi della Campagna “Giustizia per i nuovi desaparecidos” sembra sia il caso di parlare di crimini di lesa umanità e che occorra intervenire con ogni possibile urgenza per porre fine allo stillicidio di morti, presumibilmente destinato a subire una nuova impennata con la chiusura di Mare Nostrum.

In occasione del semestre di Presidenza italiana, abbiamo presentato un appello al nostro Governo chiedendo che vengano intrapresi i passi necessari a smantellare la situazione di fatto e di diritto che è causa di tali crimini. E ci proponiamo di attivare tutte le vie legali, a livello nazionale e internazionale, a partire da un tribunale internazionale d’opinione, per porre fine all’impunità di coloro che risultino coinvolti, sia in passato che attualmente, nella formulazione e nell’attuazione della politica di morte sopra tratteggiata.

Chiediamo l’aiuto delle forze politiche di sinistra presenti a livello europeo per abbattere il muro di gomma dell’inconsapevolezza dell’opinione pubblica e avviare fin da subito un percorso di verità e giustizia.

Dobbiamo interrompere questa catena infame, porre al più presto fine a un meccanismo che costantemente rimescola vittime e benessere, trasformandoci in collettività subalterna e silenziosa di una democrazia, che non può essere altro che forma vuota ove non accompagnata da autentico rispetto dei diritti umani.

Annamaria Rivera: militarizzazione delle frontiere, retoriche del rifiuto e incremento del razzismo

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Giornate di studio del GUE/NGL

Firenze, 18-20 novembre 2014

Intervento di Annamaria Rivera durante la sessione del 19 novembre, dedicata al tema “Reframing migration and asylum policies: from border surveillance to migrants and asylum seekers rights approach”.

1. Il fatto che l’Unione Europea coltivi una sorta di sovranazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere, non solo è causa d’una strage di migranti e potenziali rifugiati di proporzioni mostruose, di cui dirò dopo, ma ha anche contribuito indirettamente, a mio avviso, a incoraggiare i nazionalismi “nazionalitari” o etnici, quindi al successo delle destre, anche estreme, in tutta Europa. Oltre che economica, la crisi europea è anche politico-ideologica, come ci ricorda da alcuni anni Slavoj Žižek.

Non per caso, nell’intero continente, a occupare il primo posto nella scala del rifiuto e del disprezzo sono rom, sinti e camminanti, le popolazioni che più di altre incarnano, almeno simbolicamente, il rifiuto di confini e frontiere.

Secondo un sondaggio recente (2014) sulle attitudini nei confronti di rom, musulmani ed ebrei, realizzato dal Pew Research Center, comparando l’Italia, la Francia, la Spagna, il Regno Unito, la Germania, la Grecia e la Polonia, per antiziganismo è l’Italia, seguita dalla Francia, a collocarsi in testa alla classifica. L’84% del campione intervistato esprime ostilità o paura per la presenza di appena 180mila fra rom e sinti (70mila dei quali cittadini italiani) corrispondenti a un magro 0,23% della popolazione totale [1].

In realtà, essi continuano a svolgere un ruolo vittimario assai simile a quello storicamente attribuito agli ebrei, a tal punto che sugli “zingari”, come un tempo sugli ebrei, tutt’oggi fioriscono e si propalano voci, leggende e “false notizie”, per dirle alla Marc Bloch: anche le più arcaiche, come quella della propensione al rapimento di bambini, pur smentita da dati e lavori scientifici (v. Tosi Cambini, 2008).

Insomma, fra le politiche di militarizzazione delle frontiere e il dilagare delle retoriche del rifiuto c’è un legame assai stretto, se non un circolo vizioso.

In gran parte dei paesi europei va diffondendosi sempre più l’uso politico e ideologico di tali retoriche: i cliché dell’“invasione”, dei migranti come fonte d’insicurezza e impoverimento dei “nazionali”, della “clandestinità” come sinonimo di criminalità sono ampiamente utilizzati perfino da istituzioni, talvolta anche da partiti di centrosinistra, soprattutto da formazioni populiste, di destra e di estrema destra, che in Europa conoscono oggi un’ascesa impressionante. In particolare, quella dell’”invasione” e della “marea montante” è una tipica falsa evidenza: come è ben noto, la quota preponderante dei flussi migratori parte dai paesi del Sud del mondo per dirigersi verso altri paesi del Sud.

Sul versante delle istituzioni, in una parte dei paesi dell’Unione Europea prevale un approccio di tipo emergenzialista, conseguenza, fra le altre cose, del fatto che, in realtà, migrazioni ed esodi non sono stati integrati –starei per dire “elaborati” come tendenze strutturali del nostro tempo.

Anche questo spiega perché il razzismo tenda a diventare “ideologia diffusa, senso comune, forma della politica” (Burgio, 2010). E non si tratta del ritorno in superficie dell’arcaico, bensì di una delle fasi del riemergere ricorrente del lato oscuro della modernità europea.

Le discriminazioni istituzionali, l’allarmismo dei media nonché la cattiva gestione dell’accoglienza, almeno in alcuni Statimembri, non fanno che produrre ondate ricorrenti di moral panic, alimentando anche violenza razzista ‘popolare’ nei confronti degli indesiderabili, spesso usati come capri espiatori, particolarmente in questa fase.

In non pochi paesi europei la crisi economica si coniuga con una crisi, altrettanto grave, della democrazia e della rappresentanza, talché la distanza fra i cittadini e il potere si fa siderale e la cittadinanza va trasformandosi sempre più in sudditanza (v. Balibar, 2012). Non sorprende affatto, quindi, che gli effetti sociali della crisi e delle politiche di austerità, coniugati con la condizione e il senso soggettivo di sudditanza, alimentino frustrazione, spaesamento, risentimento sociale, e conseguente ricerca del capro espiatorio. Una buona parte di cittadini penalizzati dalla crisi finisce così per identificare il proprio nemico negli immigrati “che rubano il lavoro” o nei rom che degraderebbero il loro già degradato quartiere di periferia. Sicché si potrebbe sostenere che il razzismo ‘popolare’ sia perlopiù rancore socializzato.

Illustra bene questa tendenza ciò che è accaduto di recente a Tor Sapienza, un sobborgo dell’hinterland romano. In questa “periferia composta da insediamenti casuali e frammentari, di enclave vissute nella cultura dell’emergenza e mai messe in condizione di poter comunicare o interagire, di crescere insieme per diventare società” (Goni Mazzitelli, 2014), una frazione di residenti ha compiuto ripetuti raid contro un centro di accoglienza che, oltre ad alcune famiglie di rifugiati, ospitava poche decine di minori non accompagnati, provenienti da Egitto, Bangladesh, Etiopia e altri paesi subsahariani. Dopo alcuni giorni di assalti violenti, istigati dall’estrema destra, i minori sono stati allontanati da quel centro – che ormai sta per chiudere e separati in diverse strutture provvisorie.

Etichettare questo caso, come altri simili, secondo la formula abusata di “guerra tra poveri” è, a mio avviso, un’espressione di quel “pensiero debole in un mondo complesso” di cui ha parlato qui Carlo Freccero. Infatti, ammesso sia opportuno usare la metafora della guerra, questa è tutt’altro che simmetrica: è, semmai, una guerra contro i più vulnerabili tra i poveri.

2. In assenza d’itinerari sicuri e legali per raggiungere l’Europa, i rifugiati in cerca di protezione e i migranti che aspirano a una vita migliore sono sottoposti dall’Unione Europea a un’autentica prova di sopravvivenza. Non tutti la superano.

Si tenga conto che nel corso del 2013 il 68% delle persone che hanno tentato di raggiungere l’Europa illegalmente per via marittima proveniva dalla Siria, Eritrea, Afghanistan e Somalia, paesi devastati da conflitti, persecuzioni e violenze (Amnesty International, Des vies à la dérive, 2014).

Secondo Fatal Journeys, il recente rapporto dell’OIM (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), nonostante la missione Mare Nostrum della Marina Militare Italiana, che pure, dal 18 ottobre 2013, ha salvato 115.000 migranti, nei primi otto mesi di quest’anno sono morte nel Mediterraneo almeno 3.072 persone. Cioè il 75% di tutte le vittime di migrazioni illegali su scala mondiale, nello stesso periodo.

Basta scorrere i grafici del Rapporto per constatare che l’Europa è largamente in testa alla classifica delle aree migranticide, per usare un neologismo. E ciò non solo per ovvie ragioni geografiche e per l’aumento vertiginoso di migranti e potenziali rifugiati che cercano di raggiungerla, ma soprattutto perché le politiche proibizioniste europee rendono i viaggi sempre più pericolosi. Al punto che il tentativo di raggiungere il nostro continente è costato la vita a ben 22.400 migranti in soli 14 anni.

I cosiddetti “trafficanti di esseri umani” rappresentano soltanto gli “utilizzatori finali” del sistema di frontiere e muri che l’Europa ha eretto intorno alla sua fortezza. Sono le politiche proibizioniste ad avere creato le condizioni perché si sviluppasse l’offerta di attività irregolari e dunque un aumento spaventoso delle stragi in mare.

Queste sono destinate a un incremento ulteriore, dal momento che si è deciso di abbandonare Mare Nostrum in favore dell’operazione Triton, uno degli avatar di Frontex. Come insiste Amnesty International nel rapporto che ho citato, Triton non è affatto un’operazione di ricerca e salvataggio. Privarsi di un Mare nostrum, magari « riformato » e sostenuto concretamente da altri Statimembri, è da cinici o irresponsabili, in presenza –rimarca Amnesty Internationaldi una crisi concernente i rifugiati che si configura come la più grave dopo la Seconda guerra mondiale.

Ricordo che il nuovo regime delle frontiere affermatosi in Europa ha prodotto non solo un’autentica ecatombe, ma anche la proliferazione e perfino l’esternalizzazione dei centri di detenzione per migranti, nei quali, in certi casi, sono rinchiusi finanche richiedentiasilo e minori; e talvolta anche per responsabilità di Frontex. Le condizioni di tali lager spesso muniti di gabbie e filo spinato, e controllati da forze dell’ordine e militari armati sono state condannate dalla stessa Corte di Strasburgo. In alcuni paesi, come l’Italia, sono istituzioni del tutto abusive, in quanto violano la Costituzione e lo stato di diritto.

Questo sistema si è rafforzato anche grazie agli accordi bilaterali con paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, cui si delega una parte del “lavoro sporco”. L’Italia ha perpetuato fino a ieri gli accordi di cooperazione perfino con un paese devastato qual è la Libia, il quale, oltre tutto, non ha leggi sull’asilo, pratica gravissime violazioni dei diritti umani, non ha sottoscritto neppure la Convenzione di Ginevra del ’51. Come è ben noto, la Libia, tappa ineludibile soprattutto per i migranti e i profughi subsahariani, è un vero e proprio inferno. Come e peggio che al tempo di Gheddafi, pratiche tuttora correnti sono gli arresti arbitrari, il lavoro forzato e lo sfruttamento schiavile, le deportazioni, i taglieggiamenti, le torture, gli stupri: orrori la cui apoteosi è l’inferno della prigione di Kufra. L’unica differenza è che oggi sono le milizie armate a “dirigere” i centri di detenzione e a compiere le nefandezze cui ho fatto cenno.

È necessario, dunque, modificare radicalmente la legislazione europea (per non dire di quella italiana), nel senso indicato dai relatori/trici che mi hanno preceduta. Ma soprattutto occorre che tra le nostre stesse fila si affermi la consapevolezza che decisiva è la battaglia contro il razzismo e per i diritti dei migranti e dei rifugiati. Da essa non si può prescindere se si vuole scongiurare il lato oscuro della modernità europea, in favore della prospettiva di un’Europa della democrazia, della giustizia sociale, dell’uguaglianza dei diritti.

[1] Pew Reserch Center’s Global Attitudes Project: EU Views of Roma, Muslims, Jews, 12 maggio 2014.


Approfondimenti:

Annamaria Rivera: militarizzazione delle frontiere, retoriche del rifiuto e incremento del razzismo

 

Migranti – L’era dei torbidi

Giornate di studio del GUE/NGL

Firenze, 18-20 novembre 2014

Intervento di Barbara Spinelli durante la sessione del 19 novembre, dedicata al tema “Reframing migration and asylum policies: from border surveillance to migrants and asylum seekers rights approach”.

Vorrei condividere qui con voi l’idea che mi sono fatta in questi anni, e in maniera più precisa da quando sono al Parlamento europeo, su migranti, accoglienza, diritti, asilo, esilio.

L’idea che mi sono fatta è che la questione migrazione s’intorbida sempre di più. Da un lato continua a essere percepita come fenomeno principalmente economico, quando buona parte dei migranti è oggi costituita da chi fugge guerre o disastri climatici. Qualsiasi ragionamento geopolitico, di politica estera, viene liquidato. Il caos che abbiamo scatenato con le guerre antiterroriste, e anche con quelle umanitarie, viene sistematicamente sconnesso dai ragionamenti sui nuovi flussi migratori.

Dall’altro lato i governi europei tendono a intervenire aggirando le proprie Costituzioni e la comune Carta dei diritti fondamentali e invocando un diritto emergenziale, con l’alibi che a nuove sfide occorra rispondere con nuovi metodi. In realtà l’emergenza conferisce legittimità a uno stato di eccezione divenuto permanente, grazie al quale i poteri vengono accentrati negli esecutivi e le Costituzioni vengono svuotate: finita l’emergenza, finito quel che viene vissuto come imprevedibile, i governi ci promettono un fantasmatico ritorno allo status quo ante. Ma di fatto il diritto emergenziale diventa diritto ordinario, con conseguenze nefaste sia sulle politiche che vengono adottate, sia sul linguaggio usato per descriverle o anche contrastarle.

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Alluvioni e retorica dell’emergenza

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13 novembre 2014. Testo dell’intervento di Barbara Spinelli letto all’assemblea dell’Altra Europa con Tsipras, a Torino

Per la seconda volta in un mese, l’Italia è piegata da piogge che si sono mutate in alluvioni. Il 9 ottobre, a Genova, un uomo è annegato durante l’esondazione del Bisagno. L’11 novembre due anziani coniugi sono stati sepolti da una valanga di fango sulla porta di casa, nell’entroterra del Tigullio. Il giorno dopo un uomo è mortotravolto da una frana a Biella, e un altro è annegato nell’esondazione del Lago Maggiore. Questa notte, a Crema, un giovane è annegato mentre cercava di far defluire l’acqua da un mulino in stato di abbandono. Sfollati, feriti, scuole chiuse, treni bloccati, strade impraticabili, attività commerciali distrutte: è l’eccezione che continua, l’emergenza che si ripete. Ma lo stato emergenziale è ormai una retorica pericolosa, un addebitare all’imponderabilità, in questo caso della natura, responsabilità che non si vogliono assumere.

Dal 1966, anno della terribile alluvione di Firenze, a oggi, in Italia ci sono state 17.688 frane, 3656 alluvioni, danni per oltre 168 miliardi di euro (3,5 l’anno) e 4173 morti. Sono passati 44 anni dall’alluvione di Genova del 1970, in cui persero la vita 44 persone, e sono passati solo tre anni da quando, il 4 novembre 2011, sempre a Genova, morirono travolte dall’acqua sei persone, tra cui due bambine. Da ottobre, di nuovo piogge torrenziali, allagamenti, paura, danni. Di nuovo lutti, dolore, rabbia, che inevitabilmente si trasformano in profondo discredito delle istituzioni.

In tutte le regioni colpite dalle alluvioni – Liguria, Piemonte, Toscana, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Veneto – si assiste a un consumo di suolo che non ha pari in Europa, e alla mancanza di manutenzione ordinaria del territorio. Ciò che è diventato ordinario, è lo spettacolo di un’urbanizzazione incontrollata, la distruzione delle campagne e dei boschi, l’apertura di cave, la cementificazione che ha reso impermeabile il terreno, la superfetazione di grandi opere infrastrutturali, fonte di guadagno per le imprese e di corruzione einfiltrazione mafiosa negli appalti.

Fenomeni metereologici anormali che, ci spiegano gli studiosi, diventeranno la norma (conseguenza di un cambiamento climatico al quale le nostre politiche economiche globali non sono estranee) non possono essere affrontati con scelte locali dissennate. Occorre restituire terreno libero, non impermeabilizzato, alle nostre città; occorre prevedere piani di mantenimento e difesa dei torrenti e delle aree boschive. Occorrono piani casa che non consentano di costruire a pochi metri dagli argini dei corsi d’acqua, che mettano fine alla costruzione delle migliaia di box che bucano le colline come termitai, che proibiscano ogni aumento di volumetria, che liberino le zone limitrofe ai torrenti, che consentano il recupero delle aree in abbandono. Occorre rifiutare la logica che spinge a fare cassa con gli oneri di urbanizzazione.Occorre rompere lo scellerato patto di stabilità, occorre rifiutarsi di investire in grandi opere. Occorrono coraggio e scelte innovative, occorrono cittadini che partecipino attivamente, rivendicando il proprio diritto di scegliere.

Finora ben poco è stato fatto. I bacini di laminazione che, a Genova, fin dai progetti degli anni Ottanta avrebbero dovuto rallentare la portata d’acqua del Bisagno, non sono mai stati realizzati, così come non sono mai stati riforestati i suoi versanti, né è stato messo riparo alla cementificazione incontrollata che impedisce alla pioggia di essere assorbita. Si è scelto di ignorare le indicazioni di geologi e ambientalisti, e di finanziare opere costose – come i deviatori e gli scolmatori dei torrenti – peraltro mai iniziate.

A Massa Carrara, flagellata anch’essa dall’alluvione, negli scorsi giorni i cittadini hanno occupato il Comune indicendo un “presidio permanente”, in attesa delle dimissioni del sindaco e della caduta della giunta, ritenuta responsabile dell’ultima inondazione, per la precaria condizione degli argini.

Negli stessi giorni, il 10 novembre, il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) approvava una serie di interventi strategici per la Regione Veneto, nei grandi settori dei trasporti e delle infrastrutture. Via libera al corridoio autostradale Orte-Mestre; all’alta velocità della Tav Veneto Verona-Padova; alla costruzione dell’Autostrada A31 Valdastico Nord; al completamento delle paratie mobili del Mo.S.E. di Venezia.

Fiumi di denaro pubblico destinato a opere il più delle volte inutili e spesso devastanti, quando mancano i soldi per la difesa del suolo dalle esondazioni, per la Protezione civile, per la sanità, per un abitare dignitoso,per i servizi essenziali.

Il governo, ha scritto oggi un gruppo di genitori liguri, rivolgendosi al Prefetto di Genova, “nelle ultime settimane ha varato provvedimenti che stanziano diversi miliardi di euro per opere di cementificazione, riservando al contempo poche decine di milioni all’unica vera grande opera utile nel nostro territorio: la sua messa in sicurezza”.

Mettere in sicurezza il territorio significa finanziare un piano di opere diffuse, partendo dai Piani di gestione del Rischio di Alluvione – prescritti tra l’altro dalla Direttiva EU 2007/60, così da uscire dalla logica della perenne emergenza, dei piani straordinari, dei commissari speciali, delle procedure “in deroga” e del regolare malaffare. Significa dotare il nostro Paese, come da tempo chiedono autorevoli ambientalisti e studiosi, di Piani di bacino idrogeografici, capaci di prevenire e mitigare gli effetti meteorologici del mutamento climatico.

Lo scempio edilizio e la cementificazione delle nostre regioni è una questione che riguarda l’Italia – quel “partito del cemento” reso ancora più forte dal decreto legge detto Sblocca Italia,divenuto operativo l’11 novembre– ma anche l’Europa, visto che con i finanziamenti comunitari si edificano storture come il ponte Meier di Alessandria [1] e con i fondi strutturali europei è stato finanziato il collegamento Fegino-Tortona del Terzo Valico: 6,2 miliardi di euro per un’opera non solo inutile, dal momento che i due luoghi erano già collegati, ma pericolosa, come hanno mostrato i crolli avvenuti in ottobre sulla ferrovia.

La parola “emergenza” è stata sequestrata, piegata a pratiche politiche e giuridiche di uno Stato d’eccezione che preferisce le scorciatoie, che non si presenta ai cittadini nei luoghi istituzionali deputati all’esercizio della democrazia. Non parliamo di emergenza – questo malefico diversivo usato per spaventare i cittadini e i loro rappresentanti, e render sempre più flebili la loro voce e il loro giudizio critico.Parliamo invece di provvedimenti ordinari, di buon governo delle città e dei territori, a cominciare da una seria opera di manutenzione di strade, ferrovie, scuole e ospedali – oggi in condizioni allarmanti in tutta Italia. [2]

Tutto questo costituirebbe non solo una cospicua fonte di lavoro, ma la premessa di un rinnovato legame tra istituzioni e cittadini. Uno Stato che abdica ai propri compiti (il “sacro debito” verso il proprio popolo) per consentire a privati di fare sempre nuovi ed enormi profitti, incurante delle stesse vite dei cittadini, rischia di aprire falle e smottamenti non solo nel tessuto urbano, ma nel tessuto sociale e nella democrazia del paese.

NOTE

[1] Il ponte Meier ha impegnato, con altre opere collaterali, la somma di circa 12 milioni di euro messa a disposizione dall’Unione Europea. Tale importo dovrà essere utilizzato entro il 31 dicembre 2014, ma non basta a coprire i costi complessivi, e la città dovrà impegnarsi in mutui di altri (?) milioni di euro per il completamento dell’opera.

[2] Secondo il XV Rapporto Ecosistema Scuola di Legambiente pubblicato il 12 novembre 2014, il 9,8 per cento degli edifici scolastici si trova in area a rischio idrogeologico e il 32,5 per cento necessita di interventi urgenti. Tuttavia le risorse destinate alla manutenzione straordinaria sono state ridotte, nell’ultimo anno, di circa 22mila euro in media per ogni singolo edificio, mentre le risorse per la manutenzione ordinaria sono state ridotte di quasi 2mila euro, andando a intaccare la cifra già esigua di 8808 euro.

Incontro con una delegazione della società civile irachena

Martedì 4 novembre al Parlamento europeo si è svolto un incontro pubblico con una delegazione della società civile irachena promosso dall’europarlamentare Barbara Spinelli (L’Altra Europa con Tsipras), il GUE/NGL e l’ONG italiana “Un ponte per…”.

Barbara Spinelli ha aperto l’incontro sottolineando il grave pericolo che l’Iraq si trova ora ad affrontare con una guerra nel Nord del Paese condotta dallo Stato islamico. Ha inoltre osservato come il popolo iracheno stia pagando le conseguenze di deliberate strategie adottate dall’amministrazione americana e dai governi fantoccio instaurati nella cosiddetta fase di pacificazione: l’imposizione in Iraq di quote su base settaria e di partito nell’assegnazione delle carichepubbliche, e l’erosione dello Stato iracheno.

I rappresentanti della delegazione hanno confermato che esiste in Iraq una società civile che si oppone fermamente sia all’ISIS, sia al governo settario di Baghdad. Le associazioni coinvolte sono impegnate da anni in campagne per promuovere la riconciliazione nazionale, i diritti dei lavoratori, la libertà di stampa e la lotta alla violenza di genere.

Tra i delegati iracheni presenti, Ilham Al-Jasim (confederazione dei lavoratori e dei sindacati), Nadia Al-Baghdadi (Iraqi Social Forum), Yanar Mohammed (attivista per i diritti delle donne), Husam Jejoo (attivista yazidi), Ismael Dawood (“Un ponte per…”). La delegazione si proponeva con questo incontro di sensibilizzare l’opinione pubblica europea sulla questione dei diritti della popolazione irachena e in particolare delle donne, dei giornalisti, dei sindacati e dei funzionari pubblici. La delegazione ha chiesto che vengano esercitate maggiori pressioni sul governo iracheno perché siano applicate le norme internazionali aderendo alla Corte penale internazionale, attuando concreti provvedimenti contro i responsabili di violazioni dei diritti umani, ritirando la Al-Jaafari Personal Status Law, la Al-Jaafari Judiciary Draft Law e il progetto di riforma della Costituzione irachena, nonché attivandosi più decisamente per la protezione dei diritti delle donne (con particolare riferimento alle norme sull’identificazione delle donne prive di documenti). Per quanto concerne i diritti dei giornalisti, la proposta della società civile irachena è di emendare la Journalist Protection Law che contiene “un linguaggio vago e manca di concrete misure a protezione dei giornalisti”.

I partecipanti hanno infine convenuto sulla necessità di contrastare al tempo stesso la politica settaria del governo e   le ampie privatizzazoni in campo economico: due retaggi dell’occupazione americana, che hanno aggravato le tensioni e trasformato gli uffici governativi in feudi di partito, con effetti distruttivi dello Stato di diritto e dell’idea stessa di Stato.

Incontro con la delegazione irachena: comunicato stampa del GUE/NGL

di giovedì, Novembre 6, 2014 0 Permalink

Iraqi civil society calls for political and social reform

06/11/2014

Representatives from Iraqi civil society highlight the need to improve human and constitutional rights

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A public hearing in the European Parliament yesterday jointly organised by GUE/NGL and Italian NGO ‘Un Ponte per…’ brought together representatives from Iraqi civil society organisations to raise awareness of issues such as the protection of rights for all Iraqi people, particularly women, trade unionists, journalists and civil servants.

Opening the meeting, titled ‘Addressing the root Causes of Extremism through Political and Social Reform: Proposal of Iraqi Civil Society’, GUE/NGL MEP Barbara Spinelli said: “Iraq is now in grave danger with a war in the north of the country, waged by the Islamic State. Thanks to the delegation of representatives present at this meeting, we know now that there is in Iraq a civil society that strongly  opposes both ISIS and the sectarian government in Baghdad.”

She continued: “These associations have been organising campaigns for national reconciliation, workers’ rights, press freedom and initiatives against gender-based violence for many years now. The Iraqi people are paying the price for the biggest mistake made by the American administration: the application of sectarian and party quotas for public office in Iraq. This same mistake was made in former Yugoslavia, the so-called balkanisation.”

Among the Iraqi delegates present at the meeting were Ilham Al-Jasim (Iraqi Trade Unions) Nadia Al-Baghdadi (Iraqi Social Forum), Yanar Mohammed (women’s rights activist), Husam Jejoo (Yazidi activist), and Ismael Dawood (Un Ponte Per…).

The delegation called on the group to do everything in its power to increase pressure on the Iraqi government to implement international standards by joining the International Criminal Court, taking concrete measures against perpetrators of human rights violations, withdrawing the Al-Jaafari Personal Status Law and Jaafari Judiciary Draft Law, reforming the Iraqi Constitution and taking more active measures to protect women’s rights in the country, for example rules that protect the identification of undocumented women. Concerning the rights of journalists, the proposal of Iraq Civil Society is to amend the Journalist Protection Law that contains “vague language and lacks substantive protection for journalists”.

Civil society representatives concluded the hearing by saying that the issue of the implementation of sectarian policy in the Iraqi government and ministries “has aggravated tensions and turned government bureaus into party fiefdoms”.

Fonte

Barbara Spinelli a Bologna per lanciare l’Altra Emilia Romagna

di Paola Benedetta Manca, «Europa», 3 novembre 2014

«Il semestre di presidenza dell’Italia si chiude con un nulla totale. In Europa la politica di Matteo Renzi e del Pd è fallimentare. Non hanno spostato di un centimetro gli equilibri interni dell’Ue». L’europarlamentare dell’Altra Europa con Tsipras, Barbara Spinelli, da Bologna attacca frontalmente le politiche europee del governo Renzi. Spinelli ha dato il via ufficialmente alla campagna elettorale dell’Altra Emilia Romagna, la lista che si presenta alle elezioni regionali «in continuità politica e ideale con L’Altra Europa con Tsipras».

Al fianco di Spinelli, Cristina Quintavalla, candidata alla Presidenza dell’Emilia Romagna e Fabrizio Bocchino e Francesco Campanella, i due senatori espulsi dal Movimento 5 Stelle – che ora stanno dando vita all’esperimento del gruppo in Senato “Italia Lavori in corso” – e che sostengono l’Altra Emilia Romagna. «La proposta politica dell’Aer – spiega l’ex M5S Campanella – è quella che, in questo momento, ha maggiore credibilità. Sia dal punto di vista dell’impegno per la ridistribuzione del reddito che delle politiche del lavoro, con l’opposizione ferma al Jobs Act del governo Renzi e le lotte per tutelare la dignità dei lavoratori». «È anche il movimento – sottolinea – che ha elaborato la proposta politica più coerente sulle questioni dell’Unione Europea. In Europa, infatti, dobbiamo avere più voce in capitolo ma non uscendo dall’euro bensì ridiscutendo i trattati». Campanella confida nella nascita della lista “Altra Italia” a livello nazionale.

Presenti al lancio della campagna anche il giuslavorista Piergiovanni Alleva – capolista a Bologna e sentito in questi giorni dal Governo nell’ambito delle audizioni degli esperti sul Jobs Act – e l’economista-ambientalista Guido Viale. L’eurodeputata Spinelli ha bocciato a più riprese le politiche dell’Unione Europea. «Siamo in un’Europa – sottolinea – con un commissario all’Economia che si occupa di austerità e non di crescita e con un presidente della commissione Jean-Claude Juncker, tanto elogiato dal governo, che ha promesso un piano di 300 miliardi di euro in tre anni che non si sa come verrà finanziato, visto che ha previsto che i fondi arrivino dagli Stati e non dalle risorse dell’Unione Europea. Come ha già fatto notare la cancelliera Angela Merkel, però, alcuni stati sono così indebitati che non potranno mai contribuire».

«Renzi – attacca Spinelli – in Europa ha fatto solo “chicchirichì” ma poi ha accettato i diktat dell’Ue». È possibile però – sottolinea – fare resistenza, ma non con un atteggiamento minoritario, piuttosto guardando “oltre la sinistra classica, che va in piazza ma non solo in piazza». Con l’idea, come dice Landini, di governare e, se vinceremo le elezioni, lo faremo. Non staremo fuori dal governo a dire solo dei no ma attueremo un programma di sviluppo economico diverso”.

Insomma, la lista Altra Emilia Romagna, formata da esponenti del Prc, del PdcI, da ex 5 stelle e da una gran parte del mondo dell’associazionismo, sembra voler uscire dallo storico ruolo della sinistra radicale, quello di sola opposizione, e governare. Per questo, guarda con interesse ai voti dei delusi a 5 Stelle di sinistra, sperando che seguano l’esempio di Bocchino e Campanella. La lista di Grillo – afferma Quintavalla – attraversa una crisi molto significativa e credo sia l’occasione buona per un dialogo con la base».

A dividere profondamente i due movimenti, però – spiega la candidata parmense – «è il fatto che nel Movimento manca del tutto la democrazia partecipativa, come è evidente dal modo di governare Parma del sindaco Pizzarotti». Eppure l’Aer potrebbe in realtà conquistare proprio i voti dei “pizzarottiani”, stanchi della disciplina ferrea imposta da Grillo e Casaleggio e fautori di una politica più dialogante con gli avversari.

Il programma dell’Aer – spiega l’aspirante governatrice – si differenzia da quello di Stefano Bonaccini, candidato del Pd, in alcuni punti fondamentali: «gli aiuti promessi alle imprese che non vanno dati a chiunque, come vorrebbe Bonaccini, ma solo a chi dice no alle delocalizzazioni, regolarizza i lavoratori e investe sul territorio»; la «svendita di risorse e beni ai privati – a partire dalla sanità e con Unipol in testa – che noi non accettiamo» e il nodo delle infrastrutture, con il Pd che «dice sì a tutte le opere più disastrose per il territorio e che alimentano il dissesto idrogeologico: Cispadana, people mover, Passante nord. Noi, invece, siamo contro la cementificazione del territorio». Alla presentazione della lista erano presenti anche l’attore Ivano Marescotti (già candidato alle europee di primavera) e l’aspirante presidente in Calabria (dove la soglia per l’elezione è stata fissata dal centrodestra uscente all’8%), Domenico Gattuso.

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