Odysseus Academic Network: buone prassi nell’integrazione dei rifugiati

di martedì, Luglio 12, 2016 0 , Permalink

Intervento di Barbara Spinelli in apertura della Conferenza Refugee voices from the beneficiaries of the “Scholarhip for refugees” programme by the Odysseus Network, da lei organizzata, presso il Parlamento europeo. Bruxelles, 11 luglio 2016.

Introduzione

  • Barbara Spinelli, Eurodeputata gruppo GUE/NGL
  • Philippe De Bruycker, coordinatore dell’Odysseus Academic Network
  • Yazan Rajab, Autore di Nooit meer bang Zijin (Never be Afraid)

Presentazioni degli studenti rifugiati e scambio di opinioni

Tout d’abord, je souhaite remercier le Professeur De Bruycker, notre invité Monsieur Yazan Rajabe et tous les étudiants qui nombreux participent à cette conférence. Cette année, l’Odysseus Academic Network a organisé un appel de fonds pour consentir à 10 étudiants refugiés de prendre part à sa propre Summer School.

Il s’agit d’une expression de solidarité de la part du monde académique que je salue, parce qu’elle va à contre-courant du Zeitgeist qui règne actuellement dans les États de l’Union. Grâce à de pareilles initiatives, les étudiants refugiés pourront apprendre les notions essentielles du droit européen, étudieront le droit l’asile, la protection juridique et l’intégration des refugiés, et pourront se confronter en première personne avec les manquements, les occasions perdues mais aussi les opportunités de la politique européenne d’asile.

Mon jugement sur ces politiques est sévère : par peur de ses propres électeurs, les classes dirigeantes des État membres et des Institutions font un choix non seulement contraire la plupart des fois au droit international, mais aussi perdant en ce qui concerne la cohésion sociale et l’économie car dominé par le court terme, incapable donc de penser et de s’organiser pour le long terme.

On a décidé d’externaliser la politique d’asile, en refoulant en masse les réfugiés qui arrivent en Europe vers des Pays rebaptisés comme sûrs, alors qu’ils sont tout le contraire de cela. Je pense à la Turquie qui arrive jusqu’à refouler les Syriens en zone de guerre ou même à tirer sur eux quand ils essayent d’entrer en territoire turc. Je pense à une série de Pays africains dictatoriaux ou extrêmement instables comme l’Érythrée, le Soudan et la Libye, avec lesquels on veut conclure – et financer – des accords de rapatriement des réfugiés. Il y a pire encore : un rapport publié dans les derniers jours par le Leiden Asia Center démontre qu’il y a des pratiques qui violent d’une manière éclatante le droit européen. Je pense à l’esclavage des travailleurs nord-coréens, géré par des réseaux mafieux, en Pologne mais non seulement : des formes d’esclavage mafieux existent aussi en Italie du Sud.

J’ai mentionné au début les électeurs que les autorités nationales et européennes prétendent tranquilliser avec cette politique de fermeture des frontières. C’est la raison pour laquelle je pense que l’apprentissage de l’État de droit et de nos Constitutions démocratiques est chose précieuse pour les étudiants refugiés, mais que nous aussi, citoyens européens, devrons réapprendre la loi et le droit, si nous ne voulons pas d’un retour de l’Europe à la barbarie du siècle dernier. Rappelons que l’Union a été reconstruite contre le nationalisme ethnique qui par deux fois a précipité le continent dans des guerres mondiales et dans génocides multiples : des juifs et des peuples Rom.

Chaque bonne pratique allant en ce sens sera utile et les initiatives de l’Odysseus Academic Network pourront se transformer en source d’inspiration pour d’autres centres d’étude. Mais l’essentiel demeure le « retour sur soi » et l’autocritique des élites européennes et des populations de l’Union. L’histoire nous enseigne qu’il suffit parfois d’une petite étincelle – l’Odysseus Academic Network en est une – pour mettre fin à ce que Roosevelt considérait le plus grand danger pour la démocratie, en temps de crise économique et de récession : la peur de la peur.

 

Parere sul bilancio previsionale 2017

Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL del parere “Bilancio generale dell’Unione europea per l’esercizio 2017 – Tutte le sezioni” (Relatore per parere: Monica Macovei – ECR), nel corso della riunione straordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE). Strasburgo, 7 luglio 2016.

Punto in agenda:

  • Esame del progetto di parere

Ringrazio la relatrice per la bozza di parere e per la presentazione. Penso, per parte mia, che possa essere in più punti migliorata.

Facendo tesoro del lavoro svolto dai colleghi LIBE negli scorsi anni, ho lavorato su emendamenti che abbiano come obiettivo quello di mettere in risalto alcuni punti precisi:

– la separazione, in tutti i futuri progetti di bilancio, delle spese per il rafforzamento di strategie di rimpatrio dalle spese per la migrazione legale, e la promozione – per me essenziale – di un’effettiva integrazione nel mondo del lavoro;

– la creazione di un fondo Europeo per le operazioni di ricerca e salvataggio, al fine di potenziare e sostenere il search and rescue nei vari Stati membri, specie in quelli più esposti ai flussi migratori;

– lo stanziamento di fondi specifici destinati a iniziative di contrasto della crescita dell’antisemitismo, dell’islamofobia, dell’afrofobia e dell’antiziganismo negli Stati membri.

Evidenzierò inoltre come i fondi per lo sviluppo e gli aiuti umanitari a Stati Terzi non debbano essere condizionati alla capacità o volontà dei Paesi partner di collaborare al controllo della migrazione, ad esempio attraverso accordi di riammissione di migranti e rifugiati.

Allo stesso modo, ritengo che i progetti che potrebbero violare i diritti fondamentali dei migranti in Europa, o legittimare regimi dittatoriali, non dovrebbero essere sostenuti.

Evidenzierò anche la necessità, a livello nazionale ed europeo, di garantire meccanismi per la trasparenza, il controllo e la responsabilità dell’uso dei fondi. E’ a mio parere necessario introdurre meccanismi di monitoraggio e valutazione in itinere e non solo ex post, che possano valutare obbiettivamente se l’Unione europea stia raggiungendo i suoi obiettivi. Infine, dovrebbero essere definiti indicatori qualitativi e quantitativi, per misurare l’efficacia dei fondi UE e il raggiungimento dei loro obiettivi. Le relazioni e i documenti relativi a tali fondi dovrebbero essere resi pubblici.

Le devastazioni del Brexit

Strasburgo, 5 luglio 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo. 

Punto in agenda: Discussione Prioritaria – Conclusioni del Consiglio europeo del 28 e 29 giungo 2016

Dichiarazioni del Consiglio europeo e della Commissione.

Presenti al dibattito:

Donald Tusk – Presidente del Consiglio Europeo

Jean-Claude Juncker – Presidente della Commissione Europea

 

Il Brexit potrebbe essere più devastante per noi che per il Regno Unito. C’è xenofobia nel voto inglese, ma c’è dell’altro: e se fingiamo di ignorarlo, la xenofobia si impadronirà dell’Europa. La nemesi del Brexit non cade dal cielo: prima venne il disprezzo con cui l’Unione seppellì il referendum greco anti-austerità. Avevamo un anno per riconoscere che era una vittoria di Pirro. Un anno sprecato. Ora che ci inventeremo? Delegare più sovranità? I Paesi restanti non l’accetteranno. Colpevolizzare il suffragio universale? Ci punirà ancora di più. La guerra di classe non è finita. Le vecchie classi impoverite, e le nuove che abbiamo privato di un nome, ci dicono, come il Commendatore nel Don Giovanni: “Ah, tempo più non v’è”. Delegare poteri crescenti a un’oligarchia sempre più sorda al suffragio universale non serve. Solo cambiare radicalmente le politiche, e democratizzarle, può servire a qualcosa.

Intervento sullo stato di diritto in Polonia

Strasburgo, 4 luglio 2016. Intervento di Barbara Spinelli, per conto del Gruppo GUE/NGL, in apertura dei lavori della Sessione Plenaria.

Punto in agenda: Ordine dei lavori – Richiesta del Gruppo GUE/NGL di reintrodurre nell’agenda dei lavori di martedì 5 luglio 2016 il seguente dibattito: Recent developments in Poland and their impact on fundamental rights as laid down in the Charter of Fundamental Rights of the European Union (Council and Commission statements)“.

La richiesta del Gruppo GUE/NGL è stata respinta dall’aula con 116 voti a favore, 169 contrari e 70 astensioni.

L’aula ha invece accolto la proposta avanzata del Gruppo ALDE di sottoporre una richiesta alla Conferenza dei Presidenti affinché decida sulla possibilità di fissare tale dibattito nel corso della Sessione Plenaria di settembre (276 voti a favore, 52 contrari, 18 astensioni). 

Cari colleghi, come già deciso nella Conferenza dei presidenti, chiedo in nome del mio gruppo di discutere martedì una seconda risoluzione sullo stato di diritto in Polonia: perché nel frattempo la Commissione ha espresso un’opinione preoccupata sul rispetto del rule of law, così come, di nuovo, la Commissione di Venezia; perché il Tribunale costituzionale continua a essere paralizzato; perché nuove leggi sono in via di adozione – su antiterrorismo, sorveglianza Internet, media, aborto. Era stato deciso di verificare la loro coerenza con le leggi europee in una seconda risoluzione, dopo quella dello scorso aprile.

Credo che questo Parlamento riconoscerà che, proprio nel dopo-Brexit, la democrazia sia il primo bene da difendere e promuovere, dentro l’Unione, e intendo tutti e tre i pilastri della democrazia costituzionale: il suffragio universale, e anche la rule of law e la separazione dei poteri.

Non è un’ingerenza negli affari interni di uno Stato membro, ma il richiamo a principi e leggi comuni che ciascuno ha sottoscritto firmando i trattati, specie gli articoli 2 e 6.

Se il governo polacco o altri governi presenti o futuri – penso all’Ungheria o alle nuove presidenziali in Austria – ritengono che questi principi infrangano la propria sovranità, è l’intero impianto costituzionale dell’Unione che andrebbe ridiscusso.


 

Si veda anche:

EPP alliance with far-right stops Parliament from addressing deterioration of human rights in Poland

I vantaggi dell’integrazione dei migranti

di venerdì, Luglio 1, 2016 0 , , Permalink

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Conferenza “Migrants Inclusion – Best Practices from Southern Italy” organizzata dal deputato Andrea Cozzolino (S&D – Italia) presso il Parlamento europeo. Bruxelles, 22 giugno 2016.

Benvenuto

  • Gianni Pittella – Presidente Gruppo S&D
  • Giuseppe Aieta – Consiglio Regionale Calabria
  • Proiezione del film “Radici e Speranze” della Scuola Raffaele Piria
  • Giuseppe Falcomatà – Sindaco di Reggio Calabria

Presentazione di migliori pratiche sull’inclusione dei migranti

  • Giovanni Manoccio – Coordinatore regionale per il Sistema di Protezione dei richiedenti asilo e rifugiati
  • Mimmo Lucano – Sindaco di Riace
  • Mario Talarico – Sindaco di Carlopoli
  • Agnese Papadia – Commissione europea
  • Federica Roccisano – Assessore alle politiche sociali della Regione Calabria

Ringrazio l´onorevole Cozzolino per l’occasione che ci ha offerto: l’ascolto delle straordinarie esperienze di sindaci e amministratori italiani alle prese con l’arrivo e l’integrazione sociale di rifugiati e migranti.

Penso che le testimonianze di questi ultimi rappresentino l´avanguardia di quello che dovrebbe accadere negli Stati Membri dell´Unione e nell´Unione stessa. Sono esperienze che confermano quanto sia necessaria, in Italia come in Europa, una presa di coscienza dei poteri pubblici che si ponga come obiettivo un vero e proprio patto nazionale ed europeo per l´integrazione e l´inclusione di migranti e rifugiati nel mondo del lavoro.

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Il sindaco di Riace, Domenico Lucano

Infatti, solo un autentico new deal – con investimenti pubblici sostanziosi – potrà far fronte alle paure che si diffondono inevitabilmente, in mancanza di risposte adeguate. Paure spesso legittime, perché legate al timore di subire, con l’ingresso di rifugiati e migranti, una competizione al ribasso nel mercato del lavoro e quindi di veder acuita la crisi sociale che stiamo attraversando da anni.

Quello che non è più sufficiente, secondo me, è l’ammucchiarsi di risposte emergenziali, basate nella migliore delle ipotesi sul concetto di “carità” (la carità per definizione risponde a uno stato di eccezione). Abbiamo bisogno di programmi precisi, cifrati, di medio-lungo periodo, che diano ai cittadini italiani ed europei la possibilità di una percezione diversa, e il senso che non c’è da avere paura, che non si devono solo riparare rovine: c´è piuttosto da ricreare una società vivibile con i nuovi arrivati, basata su diritti e doveri cui tutti –migranti e cittadini italiani – possano appellarsi.

Veramente inaccettabile e indecente è continuare ad affidare una questione così grave, che riguarda la convivenza civile in Italia e al tempo stesso la sua economia e il suo mercato del lavoro, esclusivamente al Ministero dell’Interno. Una scelta simile non fa che ribadire il messaggio secondo cui tutto si ridurrebbe a una questione di sicurezza interna, quindi ancora una volta di emergenza. Il new deal ci fa uscire dall’emergenza, ci fa riconoscere i limiti del mero discorso caritativo – non dimentichiamo che le prime forme di Welfare nacquero per andare oltre una carità spesso gestita dalle chiese – e apre la mente a ragionamenti sul futuro delle nostre società.

unnamedNaturalmente il new deal è un imperativo ineludibile, nell’attuale situazione di crisi umanitaria: è un indispensabile strumento di rispetto dei diritti. Ma il suo raggio di azione va oltre tale imperativo. Vorrei riferirmi, tanto per fare un esempio, ai lavori che sono stati fatti da economisti esperti dei benefici che possono nascere dall´inclusione dei migranti: cito in particolare gli studi di Philippe Legrain – ex Consigliere economico della Commissione europea e Professore presso la London School of Economics. Secondo Legrain, “un investimento pubblico anticipato nell´inclusione lavorativa dei migranti può produrre veri e propri guadagni economici che lungo gli anni possono crescere, man mano che i rifugiati, e specialmente i loro figli, progrediscono economicamente nelle nuove patrie”.[1]

Un altro passaggio dello studio di Legrain va qui menzionato: «I rifugiati creeranno nuovi posti di lavoro, aumenteranno la richiesta di servizi e prodotti, riempiranno i vuoti nella forza lavoro europea, mentre i contributi da loro versati alimenteranno i fondi pensione e le casse delle finanze pubbliche». Legrain ritiene improbabile che l´arrivo dei rifugiati generi un gap salariale nel lungo periodo. Stando ai suoi calcoli, mentre il debito pubblico nell’Unione europea aumenterà di 69 miliardi di euro tra il 2015 e il 2020 a causa dell´arrivo dei rifugiati, nello stesso periodo gli stessi faranno crescere il PIL di 126,6 miliardi di euro. Cioè nella misura di due a uno. Ogni euro investito nell´accoglienza dei rifugiati produrrà circa due euro di crescita economica nel giro di cinque anni.

Vorrei concludere sottolineando la necessità di seguire con attenzione le best practice, come sempre dovrebbe avvenire in un’unione di più Stati: le “prassi migliori” sono punti di riferimento importanti, sia quando vengono attuate nei comuni sia a livello dei Paesi europei. L’Europa è in forte declino demografico, e particolarmente in due Paesi: Italia e Germania. La Germania ha capito, in modo certo confuso ma certamente più chiaro di quanto avvenga in Italia, che sui rifugiati si può e si deve scommettere. Per questo sta promuovendo investimenti ingenti in materia di formazione linguistica, di educazione sulle norme costituzionali del Paese d’arrivo, di formazione lavorativa. Per questa via vengono impiegati anche cittadini tedeschi, in precedenza privi di lavoro, per formare i rifugiati e i migranti che vivono nel Paese. Tra il 2015 e la prima metà del 2016, la Repubblica federale ha accolto circa 1 milione e mezzo di profughi, e il suo governo – come raccontato da Andrea d’Addio in un reportage su Panorama – ha subito stanziato 16 miliardi per il 2016, che saliranno a 93,6 nel 2020, per accoglierli e integrarli: sviluppando scuole, sanità, sussidi, case, ostelli, trasporti, assicurazioni. Prospettive di questo genere sono assenti in Italia, se non a livello di singoli comuni ormai mondialmente conosciuti come quello di Riace, qui rappresentato dal sindaco Mimmo Lucano.

Personalmente ritengo, infine, che un grande contributo all’integrazione potrà avvenire attraverso l’abolizione dello ius sanguinis e l’adozione della legge sul riconoscimento del diritto di cittadinanza, che ancora aspetta di essere approvata dal Parlamento italiano.

[1] Refugees Work: A Humanitarian Investment That Yields Economic Dividends, Open Political Economy Network e Tent Foundation, maggio 2016, http://static1.squarespace.com/static/55462dd8e4b0a65de4f3a087/t/573cb9e8ab48de57372771e6/1463597545986/Tent-Open-Refugees+Work_VFINAL-singlepages.pdf

Brexit, le occasioni mancate dal GUE-NGL

di venerdì, Luglio 1, 2016 0 , Permalink

Bruxelles, 30 giugno 2016. Dibattito sul Referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea Riunione straordinaria del gruppo GUE/NGL

Intervento di Barbara Spinelli in qualità di co-relatore ombra con Martina Anderson (Sinn Fein).

Sarò molto breve, perché l’essenziale l’ho già espresso nella riunione di lunedì, e la mia posizione non cambia dopo le conclusioni del Consiglio europeo di ieri: conclusioni così deludenti che produrranno sempre più disaffezione nei cittadini dell’Unione. Nella nostra precedente riunione non avevo avuto il tempo di sottolineare due punti. Vorrei qui ricordarli, perché sono ulteriori elementi del fallimento delle istituzioni europee che ha precipitato il Brexit.

Il primo concerne la questione della sovranità, che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare: una scelta che certamente dobbiamo rispettare, ma senza dimenticare che gran parte dei fautori del “leave” difende la sovranità inglese per avere un mercato ancora più libero da ogni controllo pubblico, uno smantellamento del Welfare ancora più acuto di quanto già lo sia ora, per dissociarsi più nettamente da chi si oppone agli accordi commerciali con gli Stati Uniti (TTIP, TISA), infine per confermare quel che Cameron ha annunciato sin dall’inizio del suo mandato, cioè l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il Brexit ha dimostrato come la sovranità popolare non sia sinonimo di sovranità nazionale assoluta. La prima può entrare addirittura in contraddizione con l’idea di sovranità nazionale. Il Regno Unito potrebbe ridursi alla sua parte britannica. Scozia e Irlanda del Nord avendo votato remain non si riconoscono, almeno per ora, nella sovranità nazionale riconquistata.

Nel secondo punto invitavo a uscire da una visione binaria dell’Europa: da un lato chi ne vuole uscire, dall’altra chi intende conservarla com’è, rendendola più «efficiente» come riproposto ieri dal Consiglio europeo. A me sembra chiaro che le cose non stanno così: c’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue politiche divisive, dalla ricerca di un’alternativa, che dia risposte serie a chi – giustamente – pone il problema di un’erosione crescente della sovranità popolare iscritta nelle nostre costituzioni democratiche. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata del tutto premiata, sempre che Unidos Podemos volesse davvero guidare il dopo-Rajoy e governare.

Ma la cosa fondamentale che vorrei dire è un’altra, e riguarda la linea che è stata seguita dal gruppo nella preparazione della plenaria di lunedì scorso. Avevo insistito sull’opportunità politica di votare contro la mozione congiunta, ma presentando emendamenti forti che caratterizzassero quel che siamo, dove vogliamo andare: la nostra identità insomma, il nostro progetto europeo, caso mai volessimo averlo. Ce n’erano di ottimi, a mio parere, e suscettibili di raccogliere il consenso del gruppo nel suo insieme. Di non dividerci, come sta avvenendo sul Brexit. Erano emendamenti presentati da me come “co-shadow” con Martina Anderson, da Martina stessa, e anche da Helmut Scholz, Malin Björk e Jiri Mastalka.

Nella sostanza si trattava, attraverso emendamenti molto circostanziati, di mettere in risalto alcuni punti che sono simultaneamente cruciali: la richiesta di una forte autocritica da parte delle istituzioni europee (Parlamento compreso), sia riguardo all’austerity e al Fiscal Compact, sia riguardo alle politiche su migranti e rifugiati. In questi emendamenti si chiedeva dunque un’altra Europa, capace di offrire ai cittadini una prospettiva fondata sulla preservazione del welfare e dei diritti sociali, e al tempo stesso su una politica verso i rifugiati che tenesse conto del fatto che essi rappresentano solo lo 0,2 per cento della popolazione dell’Unione, e devono essere non solo accolti rispettando gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Ginevra e dalla Carta europea dei diritti, ma anche – una volta accolti – integrati degnamente nel mercato del lavoro. Essenziale era anche a mio parere un emendamento di Helmut Scholz sul rilancio dell’Unione europea basato su una vasta partecipazione cittadina all’elaborazione di un processo costituzionale nuovo, con l’eventuale convocazione di una nuova Convenzione. Una proposta in questo senso è partita dai Verdi ed è fallita: non so quanti di noi (immagino pochi) l’abbiano votata.

Tutti questi emendamenti non sono stati accolti dal gruppo, in particolare non quelli sui rifugiati e nemmeno sulle responsabilità delle istituzioni europee, e alla fine ci siamo presentati con un unico emendamento su Nord Irlanda e Scozia, più qualche cambiamento minore di aggettivi.

Perché ero favorevole a un numero consistente di emendamenti? Per evitare quel che alla fine purtroppo è successo: i giornali di tutta Europa scrivono che abbiamo votato con le estreme destre del gruppo Enf. Nella migliore delle ipotesi – ma non è gradevole per noi – si occupano di un presunto patto fra 5 Stelle e Ukip, e ci ignorano del tutto.

Con i nostri emendamenti l’equivoco non sarebbe stato possibile, perché evidentemente la destra estrema non vota mai emendamenti favorevoli ai rifugiati e contrari ai refoulement collettivi, neanche se formulati in maniera rassicurante per i cittadini. Né vota per una Convenzione con partecipazione dei popoli, del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali.

Quel che è accaduto è difficile da difendere e giustificare davanti ai cittadini, e non mi sembra un successo del Gue-Ngl. Indica un rischio reale per il nostro gruppo: il rischio di perdere il contatto con la realtà dei Paesi in cui ci troviamo a operare, e dell’Europa che si ricostruirà in modi ancora oscuri, se si ricostruirà.

Cinque Presidenti sul Titanic dopo il Brexit

Bruxelles, 30 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel dibattito “The Five Presidents’ Report: Reforming the Euro or deepening Austerity?”, nel corso della Conferenza “A critical response to the 5 Presidents’ Report. One year after publication” organizzata da GUE/NGL.

Relatori:

  • Dimitris Papadimoulis, Vice Presidente del Parlamento europeo e membro di ECON, GUE/NGL, Grecia
  • Engelbert Stockhammer, Kingston University, Inghilterra
  • José Castro Caldas, Coimbra University, Portogallo
  • Fabio De Masi, membro di ECON, GUE/NGL, Germania
  • Barbara Spinelli, Vice Presidente AFCO, GUE/NGL, Italia

Vorrei ringraziare gli organizzatori di questa conferenza, che ha luogo in un momento di massima crisi costituzionale dell’Unione. Nel gruppo GUE-NGL, stamattina, Cornelia Ernst (Linke) ha detto che il Brexit è un cataclisma per il Regno Unito, per l’Unione se non saprà rispondere con una reinvenzione del progetto europeo, ma anche per noi della sinistra se perderemo il contatto con la realtà provando un segreto piacere per la falsa sovranità riconquistata dagli inglesi. Condivido l’analisi. È come quando sul Titanic si intese il famoso stridio della prima fessura apertasi sulla costata de transatlantico: tutti fecero come nulla fosse – questo è “business as usual” – continuando le attività in cui erano immersi: bevendo champagne, ballando, chiudendosi in piccole identità nazionali, stendendo rapporti tecnocratici dai toni ottimisti o anche magari manifesti ideologici sulle “radici di classe” del Titanic. La fine della storia la conosciamo. È simile alla fine della Repubblica di Weimar o anche dell’impero multietnico austro-ungarico, quando bastò un colpo di pistola perché tutti i soldati della Doppia Monarchia ricominciassero trionfalmente a parlare la propria lingua e a disprezzarsi l’un l’altro, come raccontato nella Marcia di Radetzky di Joseph Roth.

Così le principali istituzioni europee all’indomani della fessura che è stata procurata dal Brexit: il Rapporto presentato dai Cinque Presidenti viene nella sostanza riproposto, anche se con qualche variante leggermente più allarmata. È quello che si evince dal Consiglio europeo di ieri, e dalla precedente dichiarazione congiunta franco-tedesca. L’idea è di profittare dell’uscita inglese per dar vita a un’Unione più stretta geograficamente, economicamente e politicamente, eventualmente con un gruppo di avanguardia che corre più veloce di altri sottogruppi o di Paesi membri di seconda o terza classe. Cosa di per sé comprensibile, se non fosse che l’Unione ristretta tende a costituirsi sul Rapporto dei Cinque Presidenti senza mutarne la sostanza e senza aver imparato alcunché da quel che è successo.

Quel che mi è stato chiesto è una visione costituzionale dell’Europa cui dobbiamo tendere, dunque anche del Rapporto dei Cinque Presidenti, e vorrei a questo punto elencare alcuni elementi di riflessione su cui, a mio parere, potremmo concentrarci:

Primo: nella lettera comune dei ministri degli Esteri di Germania e Francia si parla di un’Europa che deve darsi una governance politica – il cambiamento rispetto al Rapporto è in quest’aggettivo, “politica”, senza specificare come simile governance debba organizzarsi democraticamente. Governance non è infatti sinonimo di governo politico: è una figura volutamente oscura e “innovativa” dal punto di vista costituzionale, e presuppone l’esistenza di popoli governabili, quindi sempre un po’ sospetti e per questo ridotti a passività. L’obiettivo è una gestione oligarchica del potere che non si fa limitare da contropoteri (parlamenti, elezioni, referendum, iniziative cittadine, Corti). Non si sa quale Parlamento controllerebbe l’Unione ristretta. Allo stesso modo in cui non si sa, nel caso del Brexit, come il Parlamento europeo parteciperà, proattivamente, ai negoziati sul recesso.

Secondo: i compiti della sinistra. Non penso che essa possa oggi auspicare la rottura totale con le istituzioni europee, senza essere identificata con le estreme destre. Il sovranismo assoluto, specie se inteso come sovranità nazionale e non sovranità popolare, è una risposta che non porta lontano la sinistra e ne polverizza in maniera catastrofica il peso. La memoria storica deve divenire un suo punto di forza, in considerazione del duplice fatto che l’unificazione europea nacque nel dopoguerra proprio come lavoro sulla memoria, e che le odierne élite europee ricordano a malapena gli ultimi cinque minuti: intendo memoria di Weimar, e anche memoria dell’elemento scatenante – il peccato capitale di omissione delle istituzioni europee – che è stato il negoziato Unione-Grecia sull’ultimo memorandum di austerità. Fin dall’inizio della legislatura ho pensato che il progetto delle istituzioni comunitarie di mettere in ginocchio il primo esperimento di una sinistra pro-europea al governo – la parola d’ordine nel Consiglio e nella Commissione era “crush Greece”, come rivelò l’ex ministro del Tesoro USA Timothy Geithner, mai smentito – avrebbe precipitato future disgregazioni dell’Unione. Il Brexit è figlio del Grexit e altre disgregazioni seguiranno, a partire secondo me dall’Europa orientale. Non perché la sovranità che gli inglesi pretendono recuperare sia equiparabile dal punto di vista dei contenuti alla sovranità chiesta a suo tempo da Syriza (una buona parte della campagna inglese per il leave vuole un mercato ancora meno controllato e addirittura l’uscita del Regno Unito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo) ma perché il Grexit ha lasciato tracce profonde, e accelerato il desiderio inglese di non subire il “crushing” inflitto ai greci. L’Inghilterra è più forte della Grecia, nel momento in cui si imbarca in simili imprese.

Terzo: lo scopo dei Cinque Presidenti è la creazione di un mercato unificato, non un progetto istituzionale e costituzionale serio. Si parla ora di governance politica, è vero, ma l’obiettivo non è certo una federazione, perché in una federazione gli squilibri tra Stati non sono per definizione insormontabili come lo sono oggi. Il primato assoluto è dato alla competitività, a un respingimento sempre più massiccio dei rifugiati che arrivano in Europa, e a un “completamento dell’Unione monetaria” che non accenna in alcun modo al controllo democratico della BCE e alla sua trasformazione in prestatore di ultima istanza, come avviene appunto nelle federazioni. Draghi dice: meglio le istituzioni che le regole. Ma le istituzioni che reclama servono a sostenere meglio e più efficacemente regole che non mutano.

Quarto: nel documento franco-tedesco si insiste su un nuovo punto: l’integrazione nel campo della sicurezza e della politica militare. È un vecchio desiderio di Kohl, che Mitterrand non accolse quando nacque l’euro, ma il problema è quello di sempre. Si creano unificazioni settoriali, secondo il vecchio metodo funzionalista, nell’illusione che per questa via si andrà verso il migliore dei mondi possibili, cioè verso qualche forma di comune governo democratico. L’euro ha confermato che era non solo e non tanto un’illusione, ma piuttosto un imbroglio. E poi: chi deciderà la politica estera? Come e con quali Paesi dell’Unione diventare autonomi da una potenza americana e da vertici Nato che in Europa puntano oggi a una guerra fredda con la Russia?

Quinto punto: la democrazia. Il Rapporto propone consultazioni strette con il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali, ma non fissa nuove competenze e diritti, e non dice nulla sui necessari cambiamenti dei Trattati né su eventuali nuove Convenzioni, come chiesto ieri in plenaria – invano e senza appoggio del nostro gruppo – dal gruppo dei Verdi. In parallelo si potenziano istituzioni come l’Eurogruppo, che diventa il fulcro della futura governance politica: un eurogruppo che nessun Parlamento oggi controlla, che non è trasparente, che nemmeno tiene i verbali delle proprie riunioni.

In altre parole: niente di nuovo in Occidente. Continua il vecchio inganno, secondo cui a forza di cosiddette “convergenze” settoriali si arriverà a un’unione politica solidale. Non vedo come ripetere lo stesso errore possa fare il miracolo di produrre risultati diversi dal passato.

Corruzione/mafia: la vittoria postuma di Andreotti

di venerdì, Luglio 1, 2016 0 , Permalink

Bruxelles, 29 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Conferenza “Lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata” organizzata da Laura Ferrara (Portavoce EFDD – M5S Europa).

Relatori:

  • Marco Valli, Portavoce EFDD – M5S Europa
  • Ignazio Corrao, Portavoce EFDD – M5S Europa
  • Elly Schlein, Eurodeputata Gruppo S&D
  • Barbara Spinelli, Eurodeputata Gruppo GUE/NGL
  • Caterina Chinnici, Eurodeputata Gruppo S&D
  • Sebastiano Tinè, Commissione europea – DG Migration and Home Affairs
  • Marco Travaglio, Autore e Giornalista “Il Fatto Quotidiano”
  • Sergio Valentini, Transparency International Italia

 

Ringrazio Laura Ferrara, per aver organizzato questa importante conferenza.

Vorrei partire, visto che un po’ di memoria storica può servire, dai negoziati che precedettero la nascita dell’euro. Non certo perché corruzione e mafia siano fenomeni recenti, ma perché in quell’occasione furono percepite come un crimine che riguardava l’Unione intera. Fu la giornalista americana Claire Sterling, nel 1990, a svelare l’allarme del Cancelliere Kohl a proposito dell’ingresso italiano nella moneta unica. Temibile dal suo punto di vista non era quello di cui da anni si parla sui giornali o nelle riunioni europee – il debito pubblico o la condizione delle banche. Era una cosa a suo parere preminente: l’incapacità dei governi italiani di far fronte alla mafia, di combatterla, e di evitare dunque l’espandersi contagioso in Europa di quella che veniva percepita come la principale, e apparentemente inestirpabile, malattia italiana: le varie forme di mafia, viste come un pericolo che rischiava di contaminare non solo l’intera penisola ma l’insieme dell’Unione.

Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio e Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, fecero di tutto perché nei documenti ufficiali non risultasse la parola mafia e al massimo si parlasse di crimine organizzato. Il Cancelliere e altri governanti insisterono invece perché il problema fosse messo in agenda nel vertice del giugno 1990, e perché la parola mafia apparisse expressis verbis nelle discussioni e nei comunicati. Fu così che la mafia divenne, per la prima volta, tema di un summit CEE. Il timore era che la malavita italiana, con il mercato unico, avrebbe realizzato in Europa quello che realizzava in Italia.

Di mafia non si parlò più nell’Unione: in un certo senso vinse Andreotti. E vinse due volte, visto che oggi anche “crimine organizzato” è divenuto parola tabù. Nulla trapelò più dai molto chiusi e molto poco trasparenti summit dell’Unione. Ma di certo il male è ancora lì, e pesa ancora. In questo Parlamento, quando ne parliamo – e ne abbiamo parlato in più occasioni – i colleghi europei appena aggrottano le sopracciglia, se le aggrottano e non s’addormentano. Non sanno o meglio fingono di non sapere quanto paghino tutti, nell’Unione, per le collusioni delle nostre amministrazioni, dei nostri colletti bianchi, di alcuni politici, con le trame mafiose ed eversive.

Fingono di non sapere il peso che ha il crimine organizzato in un settore estremamente lucroso e devastante, delle attività internazionali degli Stati membri dell’Unione: il commercio d’armi – e in primis il riadattamento illegale di armi neutralizzate – che rimpingua e agguerrisce gli eserciti dei Paesi più coinvolti nel terrorismo dell’Isis o di al Qaeda: Arabia saudita, Qatar, e sempre più anche la Libia.

Fingono di non sapere che la Turchia, nelle cui casse l’Unione ha deciso di versare 6 miliardi di euro in due tranche perché si riprenda i rifugiati, è tra i principali finanziatori e fornitori d’armi (gas sarin compreso, secondo le indagini del giornalista Seymour Hersch) dell’Isis, usando metodi di trasferimento incontrollati. E certo, tutti si consolano d’un tratto per i buoni rapporti che stanno instaurandosi tra Erdogan e lo Stato di Israele. Ma Israele ha proprio in questi mesi fatto sapere che meglio avere di fronte l’Isis, che Hezbollah e l’Iran. “Se dobbiamo scegliere tra ISIS e Assad, scegliamo l’Isis», ha detto nel marzo scorso Michael Oren, parlamentare ed ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti. Perché parlo di questi commerci occulti con l’Isis? Perché l’Isis è in cerca di carri e mitragliatrici e magari anche un po’ di armi chimiche: proprio il tipo di armi che è oggetto di traffici spesso cogestiti dal crimine mafioso. In altre parole, mafia e corruzione hanno risvolti economici, politici, e anche geostrategici.

Con questo non intendo dire che l’attività delle mafie si concentra tutta sul commercio illegale d’armi e sulla destabilizzazione del Sud Mediterraneo e del Medio Oriente. L’attività comprende anche il traffico degli esseri umani e dunque i milioni di rifugiati e richiedenti asilo che scappano dalle zone di guerra, dove queste armi vengono usate. È un’intera filiera che è in mano al crimine organizzato, fintantoché l’Unione affronterà la questione rifugiati rimpatriandoli in massa e contro i dettami della Convenzione di Ginevra verso le zone di guerra o verso le dittature da cui scappano; e fintantoché non organizzerà vie di accesso all’Europa che siano legali e sicure. Non dimentichiamo mai che nel mondo ci sono 65 milioni di rifugiati, e che quelli che arrivano in Europa rappresentano solo lo 0,2 per cento delle nostre popolazioni. È una cifra accuratamente occultata dalle élite europee e nazionali dell’Unione, oltre che dai principali giornali.

Un’intera filiera dunque è data, di fatto, in appalto al crimine: il commercio d’armi, le guerre, la gestione delle fughe, e infine – se i rifugiati non sono rimpatriati – la loro integrazione nel mondo del lavoro dei Paesi europei. Su quest’ultimo punto mi soffermo molto brevemente, perché la questione sarà trattata da altri oratori in questa conferenza. La parola integrazione infatti è una pura impostura verbale. Non vengono affatto «integrati», i rifugiati adulti e anche di minore età, ma o diventano oggetto di tratta, o vengono gestiti alla stregua di nostri nuovi e molto comodi schiavi. In un rapporto presentato il 23 giugno scorso alla Camera dei deputati dall’associazione Da Sud, Terra onlus e da Terrelibere.org, si racconta di una nuova Italia schiavista che sta nascendo, che per salari equivalenti a 3-5 euro l’ora soggioga e aliena migliaia di braccianti, stranieri e non: dal Sud al Nord Italia, dall’Europa meridionale fino in Cina. Nel rapporto si legge: «Se dopo oltre vent’anni non si è riusciti a sconfiggere il fenomeno in Italia, o non si è voluto farlo o gli strumenti con cui si è intervenuti non sono stati sufficienti». L’associazione Filiera Sporca interroga e fornisce le risposte dei grandi attori della filiera agroalimentare, denuncia la mancata trasparenza della Grande distribuzione organizzata, il ruolo distorto delle organizzazioni dei produttori che agiscono come moderni feudatari, dimostra come il costo delle arance riduca in povertà i piccoli produttori e lasci marcire il made in Italy (articolo su Il Manifesto di Silvio Messinetti).

A mio parere l’Europa deve intervenire per debellare radicalmente queste mafie che si installano al posto dei poteri pubblici. Fondi europei giungono per finanziare hotspot, Cie, o il Cara di Mineo. Bisogna che ogni centesimo venga monitorato, che la cultura del render conto metta infine radice, perché a partire da questi centri non dilaghi un’economia sommersa dominata completamente dal caporalato.

Per concludere, vorrei dire che ho partecipato con emendamenti al Rapporto di Laura Ferrara su corruzione e criminalità organizzata, insistendo in particolare sugli ecoreati, sulla contraffazione, sulla tratta di esseri umani, su una Procura europea indipendente dagli Stati membri e con forti poteri. Ma anche in un altro campo sto cercando di condurre una battaglia, come relatore ombra, e cioè nei negoziati sul Rapporto in corso di discussione che proporrà nuovi meccanismi europei intesi a controllare il rispetto della rule of law e dei diritti fondamentali. Ebbene, di corruzione si parlerà molto, nella Relazione affidata all’eurodeputata liberale Sophie In’t Veld.

Ricordo per l’occasione una delle cifre che sarà inserita in tale Rapporto, e che ci è stata fornita dal Servizio Ricerche del Parlamento europeo: il costo della non-Europa, nell’area del crimine organizzato, ammonta a ben 70 miliardi di euro l’anno. Dal che si può capire quanto potrebbero servire l’Unione e i suoi organi di controllo, se si occupassero meno di chiudere le frontiere o far rispettare il fiscal compact, e più delle questioni discusse nel Rapporto Ferrara e in questa conferenza. La linea Andreotti non deve continuare a essere, anche post mortem, la linea vincente.