Il muro contro Mélenchon

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 aprile 2022

In apparenza si è ripetuto il copione delle penultime Presidenziali, domenica sera: Emmanuel Macron e Marine Le Pen arrivano in testa al primo turno (27,84% e 23,15), sicché la sfida per la conquista dell’Eliseo sarà fra loro due.

Subito dopo, terzo nella lista, si è imposto il leader di sinistra Jean-Luc Mélenchon (21,95%). Lo scarto che lo separa da Le Pen è esiguo, bastava poco più di un punto e Macron avrebbe battagliato con lui. Senza crederci un granché, non pochi speravano in questo risultato, che avrebbe messo fuori gioco Le Pen producendo uno scontro ben più fecondo e meno lacerante, fra il centrodestra di Macron e la sinistra di Mélenchon.

Quel che lacera gli elettori che ora temono un trionfo di Le Pen (e l’influenza che eserciterebbe su di lei Éric Zemmour, il candidato che la voleva sorpassare) è dover ancora una volta – la terza dal 2002 – votare un candidato aspramente combattuto. Una scelta terribile, come ha ricordato domenica Mélenchon, che pure ha esortato a “non dare neanche un voto” a Le Pen. L’indicazione era obbligata ma non semplicissima: se in politica estera e sull’Ucraina le posizioni di Macron e Mélenchon sono abbastanza simili, se il reiterato tentativo presidenziale di negoziare con Putin e distanziarsi dalla bellicosità Usa riscuote vasti consensi, compresi quelli lepenisti, il giudizio complessivo sul Presidente resta più che negativo. Sono sotto accusa la solitudine del comando; i favori fiscali ai più abbienti tanto contestati dai Gilet gialli, il ricorso massiccio ai consulenti di McKinsey e Accenture (1 miliardo di euro versati nel 2021 da Parigi), spesso l’arroganza, infine il rifiuto di ogni dibattito prima del primo turno.

A differenza di quanto accadde al primo turno del 2017, Macron appare oggi preoccupato, perché gli esiti del duello sono meno sicuri. In questi anni Le Pen si è mostrata più moderata: grazie anche a Zemmour, più xenofobo e agitato di lei. Con astuzia si è concentrata sulle ingiustizie sociali, anziché sull’immigrazione che pure resta un suo punto forte. In piena guerra ucraina la vicinanza a Putin la svantaggia, ma Marine ha condannato l’aggressione russa in nome del sovranismo e dell’intangibilità delle frontiere. Al secondo turno può contare sugli elettori di Zemmour, sull’ala destra di parte dei Repubblicani (corrente di Éric Ciotti, presenza influente a Sud) e anche su un numero consistente di elettori di Mélenchon, esasperati dal tragico “ricatto” del secondo turno.

Quanto a Macron, potrà contare sul voto dei socialisti, dei verdi, dei comunisti. Ma son briciole, e neanche sicure in blocco. Le astensioni e le schede bianche sono un suo incubo. Come nel 2017, Macron ha fatto di tutto perché attorno a lui s’estendesse il deserto e perché Le Pen fosse la rivale unica. È morto il partito socialista (1,7%), si sfracellano i Repubblicani a destra (4,7), i Verdi (4,6) e i comunisti (2,2). I voti di cui Macron ha prioritariamente bisogno sono dunque quelli di Mélenchon, cui si è rivolto domenica sera alla Porte de Versailles. È lui l’arbitro del secondo turno, assieme al suo partito (France Insoumise-Francia Insubordinata).

Gli Insubordinati sono imprevedibili: in gran parte si asterranno, in parte voteranno Macron ma con la disperazione nell’animo, in parte eleggeranno Le Pen mescolando disperazione e rabbia.

France Insoumise è la sinistra che rimane. Potrebbe riesumare una dialettica politica meno tormentosa e più costruttiva, se non esistesse un pensiero quasi unico, in Francia come in Europa, che in Mélenchon vede lo specchio di Marine Le Pen, l’altra faccia del populismo sovranista e antieuropeo, il pericolo di riforme istituzionali che renderebbero meno monarchica la Quinta Repubblica. Non è quello che pensano gli elettori, evidentemente: se Mélenchon si rafforza mentre scompaiono socialisti, comunisti e verdi vuol dire che molti di loro hanno votato “utile” fin da domenica, scegliendo Mélenchon. È quello che consigliavano tra l’altro Ségolène Royal, candidata socialista alle presidenziali del 2007, e Christiane Taubira, popolare ministro della Giustizia sotto la presidenza Hollande.

La teoria dei doppi estremismi, di destra e sinistra, ritrova la forza che ebbe negli anni 70. È la vulgata conformista che domina nelle élite e nei giornali francesi. Oltrepassa i confini lambendo anche l’Italia, dove Le Pen e Mélenchon sono quasi sempre messi sullo stesso piano (alcuni giungono sino a dire: “Quasi meglio Marine di lui”).

C’è qualcosa di misterioso e impenetrabile nel muro innalzato contro Mélenchon. Il quale ha certo numerosi difetti e ha fatto parecchie giravolte in passato (a suo tempo fu socialista). Inoltre ha sistematicamente respinto alleanze con altre sinistre, anche se bisogna dire che il rifiuto veniva piuttosto da queste ultime: socialisti e verdi sono polverizzati da Macron, che è un animale politico anfibio, ma la colpa del deserto cui sono ora ridotti è soprattutto merito loro.

Quello che andrebbe analizzato con maggiore precisione e senza cadere nei luoghi comuni sugli “opposti estremismi” è come mai esista un astio così profondo, infrangibile, viscerale, contro Mélenchon. Non sono comprensibili sino in fondo le lamentazioni urlanti, la stizza che scatta come fosse un misirizzi se solo ci si azzarda a fare il suo nome, la collera e gli occhi che roteano verso il cielo se solo fai un piccolo striminzito accenno alla sua campagna, ai suoi argomenti, alla sua oratoria (la migliore nelle due ultime campagne presidenziali). Di certo non sono mancati suoi sbagli e scemenze, così come non mancavano sbagli, scemenze e imbrogli per attirare l’attenzione nella pluriennale campagna elettorale di Mitterrand sfociata nella conquista finale dell’Eliseo. Ma questa sorta di esclusione a priori della Francia Insubordinata, al limite e non di rado più inacidita ancora che nei confronti di Le Pen, rappresenta un intralcio che già due volte ha creato il caos elettorale in Francia.

Mélenchon arriva in testa in alcune grandi città: a Parigi e Lione è primo o secondo, a Marsiglia è primo. È piuttosto insensato considerarlo un estremista da demonizzare. Troppo comodo, comunque, per i partiti in Europa che si richiamano al socialismo, alla socialdemocrazia o al postcomunismo – Pd in Italia – e sono oggi sensibili solo ai richiami della Nato (le marchette di cui parla Cacciari) e non alla propria storia. Ovvio che Marine Le Pen trovi spazio nelle periferie e nei territori socialmente disastrati dove loro non mettono più piede.

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Perché Biden vuole una guerra lunga

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 aprile 2022

Ci sono delle grandi trasformazioni che si fanno a caldo, nel mezzo di guerre e di propagande feroci e prolungate.

Solo dopo molto tempo le trasformazioni o rivoluzioni vengono considerate inevitabili, e in alcuni casi necessarie. Parliamo della fine della dominazione geopolitica degli Stati Uniti, del possibile tramonto dell’egemonia globale del dollaro, infine di un conflitto tra produttori di gas e petrolio che scalzando gli abituali protagonisti sembra avvantaggiare in primis gli Stati Uniti, potenziale esportatore numero uno che profittando dei torbidi ucraini promette di rifornire l’Europa di gas naturale liquefatto in caso di blocco delle forniture russe (il Gnl è a tutt’oggi il più costoso e il più inquinante che esista).

Tutto questo sarà possibile se la guerra in Ucraina continua a lungo, come ha ufficialmente auspicato Biden quando non si è limitato a chiamare Putin un macellaio, ma ha anche indicato le aspettative della sua amministrazione (non degli europei e dei civili ucraini, che in un conflitto protratto hanno tutto da perdere): “Per vincere questa guerra – così Biden a Varsavia – non ci vorranno giorni o mesi. Sarà una lunga lotta”, per come somiglia alla “battaglia per la libertà contro l’Urss, che durò non giorni o mesi ma anni e decenni”.

Chi vorrebbe d’altronde trattare col Macellaio, anche se un giorno dovrà? In Europa nessun governo, se si escludono Ungheria e Serbia. Fuori dall’Europa invece quasi tutti: in Asia, Africa, Paesi arabi, Israele, America Latina. Nell’Unione europea i popoli sono contrari a sanzioni e invio di armi, ma i governanti se ne infischiano, comportandosi come fossero personalmente in guerra. Draghi per esempio avviluppa l’obiettivo di pace in una delle sue frasi più sibilline e malriuscite: “Non siamo in guerra per seguire un destino bellico”, il che vuol dire che prescindendo dal destino, di cui nessuno di noi sa un granché, l’Italia è in guerra.

Non che i suoi colleghi europei siano meno sibillini, ma pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c’è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai. Giustamente Calenda lo invita a ragionamenti meno sgangherati sulla dipendenza italiana dal gas e petrolio russi).

Verrà forse il giorno in cui sapremo qualcosa di meno impreciso su quel che è successo a Bucha presso Kiev: chi ha ucciso in quel modo? I russi hanno voluto lasciare questo ricordo nel ritirarsi dalla città il 30 marzo, cioè 4 giorni prima della scoperta del macello? Perché? Come mai il sindaco di Bucha ha annunciato il 31 marzo che in città non c’erano più truppe russe e non ha accennato ai civili uccisi in strada con le mani legate dietro la schiena? In attesa di prove genuine, ci concentreremo dunque sulle grandi trasformazioni indicate all’inizio.

Abbiamo detto del gas liquefatto nordamericano. Resta da interpretare in questo quadro la richiesta russa di pagare le esportazioni energetiche in rubli e non più in euro o dollari. È una replica alle sanzioni sempre più pesanti subite da Mosca e anche all’intenzione Usa di sostituirsi in Europa ai fornitori russi. Gli europei hanno reagito denunciando giustamente una violazione degli accordi di forniture, ma senza badare a due elementi cruciali. Primo: le vie d’uscita esistono (si paga in due tappe: inizialmente in euro, convertiti poi in rubli). Secondo elemento: è una contromossa che non cade dal cielo, era nell’aria da anni. La posta in gioco è l’egemonia del dollaro come moneta di riserva globale: il suo tramonto potrebbe essere accelerato dalla guerra in Ucraina.

L’inevitabilità di questo declino ha le sue ragioni d’essere. Non si può escludere la Russia da tutte le transazioni finanziarie (sistema Swift), bloccare le riserve della sua Banca centrale (643 miliardi di dollari), comminare sanzioni ad infinitum, puntare a un cambio di regime al Cremlino, senza prevedere che prima o poi questa politica danneggerà il fronte occidentale, Europa in primis, ma anche Washington, che sta infiammando il conflitto sperando che Putin e tutti i filistei cadano d’un sol colpo come colonne spezzate d’un tempio.

Non esiste più da tempo l’ordine creato nel secondo dopoguerra a Bretton Woods, non c’è più fiducia nella stabilità del dollaro come riserva monetaria internazionale, visto che la moneta Usa riflette le volontà e gli interessi statunitensi da quando si è sganciata dall’oro. L’alternativa ancora non c’è. L’unica moneta che oggi ha elementi di stabilità, e che sia pure marginalmente tende a divenire rifugio, è quella cinese: lo yuan.

Si capisce lo sgomento ma non la sorpresa degli europei: l’egemonia del dollaro è messa in questione da almeno 13 anni, e l’euro è troppo schiacciato sulla geopolitica Usa per rappresentare un’alternativa allettante come moneta di riserva internazionale. Già nel 2008 Mosca e Pechino reclamarono la “de-dollarizzazione” del sistema monetario internazionale e cioè una diversa unità di conto, che riflettesse l’interesse di altre potenze commerciali e non fosse al servizio dei soli interessi Usa. Era una rivolta contro la militarizzazione del dollaro e la domanda di un’unità di conto multipolare: un “paniere” di varie monete, in parte agganciato all’oro.

Ne parlò nel marzo 2009 l’allora governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, che elogiò l’unità di conto (chiamata Bancor) immaginata negli anni 40 da Keynes e affossata poi dagli Usa a Bretton Woods. Il governatore della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, definì il dollaro uno “strumento inaffidabile” nel maggio 2019. Anche Brasile e India auspicano la de-dollarizzazione. In Italia ci fu chi appoggiò questa rivoluzione dei rapporti di forza monetari: nel febbraio 2010, Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi, riesumò Bancor e disse che “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Riserva federale Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”.

Dopo le rovine del Covid, la guerra in Ucraina sta cambiando i rapporti tra Stati, con effetti sconquassanti nella Russia che l’ha scatenata e in gran parte del pianeta che ne soffrirà le conseguenze (blocco delle forniture di energia, cibo, concimi, metalli). Ma con effetti tutt’altro che promettenti a Washington, che pretende di dominare il pianeta con quest’ennesima guerra per procura.

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Ucraina, l’Ue ignora i nostri interessi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 marzo 2022

Circola un numero talmente spropositato di menzogne, sulla guerra in Ucraina, che pare di assistere a un contagio virale. I ragionamenti freddi (o realisti) vengono sistematicamente inondati da passioni bellicose e molto calde.

L’onda travolge le ricostruzioni del conflitto, e anche i fatti elencati dagli esperti militari. Perché ripercorrere la storia dei rapporti russo-ucraini, o ricordare le tante guerre Nato, quando il dualismo teologico-politico è così favolosamente chiaro: lì il Male, qui il Bene – lì Satana, qui arcangeli in tute mimetiche – lì il “dittatore sanguinario” e “criminale guerra” (epiteti escogitati da Biden), qui i combattenti della civiltà.

In genere si replica che in guerra è sempre così: propaganda e controverità imperversano in tutti i campi –si ripete – e già è una prima menzogna perché gli italiani e l’UE non sono in guerra, non vogliono andarci e potrebbero dunque concedersi il lusso di analisi più vicine alla realtà, meno interessate al proselitismo bellico, tendenti più all’asciutto che all’umido. Gli Stati Uniti invece vogliono che la guerra continui, anche se per procura. D’altronde è questo lo scopo di Biden: “Far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo” (4-2-21).

Ne consegue che gli interessi europei e americani divergono, coincidendo solo nella retorica. Per l’Europa e l’Italia il proseguimento bellico è una sciagura, sia che Putin perda sia che vinca. Avranno un caos che durerà decenni ai confini orientali. E se l’Ucraina entra nell’Unione gli equilibri si sbilanceranno a Est ancor più di quanto già lo siano, da quando l’UE ha incorporato Paesi più interessati alla Nato che all’Europa (soprattutto Polonia e Baltici). L’egemonia nell’Unione sarà esercitata dall’Est, con Berlino che fungerà da arbitro avendo deciso di ergersi a potenza militare di primissimo piano. Parigi per ora si limita a commentare. Il Sud è muto. Solo i produttori di armi guadagneranno.

Di qui la menzogna più vistosa: ovunque vengono aumentate a dismisura le spese militari, si intensifica il riarmo dell’Ucraina (Biden promette 1 miliardo di dollari), e l’Unione europea si trasforma in patto bellico, proclamando però che mai invierà soldati e mai chiuderà i cieli agli aerei (no-fly zone), affinché non scoppi l’Armageddon nucleare. Dai nostri paesi non partono soldati ma mercenari e contractor sì, molti: almeno 20.000 occidentali di cui 4.000 nordamericani, secondo fonti ucraine. Un guazzabuglio di guerra-non guerra insomma, che resuscita la Nato e abbassa l’Europa potenza pacifica.

Il contagio genera altre controverità, come fossero varianti virali. Tra le più fuorvianti: la supposta condanna del Cremlino espressa “quasi all’unanimità” dall’assemblea Onu, il 2 marzo, e l’esistenza di una “comunità internazionale compatta” nel penalizzare Putin. Più che una menzogna è un’impostura. Dalla “quasi unanimità” vengono esclusi Cina, India, Iran, Pakistan, parte dell’America Latina, parecchi paesi arabi, che si sono astenuti. Si tratta di più di 3 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione terrestre. Segno che la “comunità internazionale” e l’“ordine mondiale” minacciato da Mosca sono pure invenzioni.

Quel che esiste è un disordine globale che il potere unipolare statunitense ha propagato aprendo più scenari di guerra (Afghanistan, Libia, Siria, Somalia, ecc.) e spostando la Nato fino alle porte della Russia, per volontà dei Presidenti Usa a partire da Clinton. Quel che esiste è la volontà statunitense di perpetuare l’ordine unipolare creatosi dopo la fine della guerra fredda, fallito miseramente in Iraq e Afghanistan. Un ordine che Biden vorrebbe resuscitare usando l’Ucraina, per meglio sfidare Russia e poi Cina.

All’Europa converrebbe aprire con la Russia una trattativa che preveda la fine delle guerre in Ucraina e la costruzione nel medio termine di un sistema comune di sicurezza, indipendente dalla Nato e dalle strategie Usa. Dire che “Putin non vuole la pace”, come annunciato da Draghi, senza offrire la fine delle sanzioni in cambio della cessazione delle ostilità, rispecchia la teologia politica della Nato, non i nostri interessi. Ormai dovrebbe essere chiaro che l’identificazione dell’UE con l’Alleanza atlantica e con le aspirazioni unipolari statunitensi produce guerre e caos ovunque. La terra è abitata da una moltitudine di potenze e paesi con aspirazioni e visioni contrastanti, che devono imparare a coesistere senza scannarsi e concentrandosi sul punto essenziale che è la sopravvivenza del pianeta. L’ordine futuro non potrà che essere multipolare: qualcosa di ben più complesso del multilateralismo praticato da Stati che già possiedono comuni obiettivi.

La genealogia della guerra ucraina non è ignota. Comincia quando la Nato promette di accogliere Kiev, nel 2008 a Bucarest; continua con la destituzione nel 2014 del Presidente Janukovyc, colpevole di aver ribadito la neutralità scelta dopo la fine dell’Urss; prosegue nel 2019 con l’adesione alla Nato iscritta nella Costituzione. Sempre nel 2014 scoppia la guerra nel Donbass, e il neonazista battaglione Azov viene inserito nell’esercito regolare ucraino. Gli accordi di Minsk-2 chiedevano che venissero concesse vere autonomie al Donbass, anche linguistiche, ma Kiev si opponeva.

A questi eventi si aggiungano le manovre Nato sul territorio ucraino. Nel centro di addestramento di Yavoriv, ai confini della Polonia presso Leopoli, la Nato addestra da anni l’esercito ucraino, fornisce armi e know how. È partita da qui l’ultima esercitazione – la più intensa – nel settembre 2021 (“Rapid Trident”). Hanno partecipato 15 paesi tra cui l’Italia. Nel giugno-luglio 2021 si era svolta un’esercitazione nel Mar Nero guidata da USA e Ucraina, di fronte alla Crimea (nome in codice ”Brezza di Mare”).

Con questo non neghiamo che Mosca sia l’aggressore. Non supponiamo nemmeno che Putin faccia i propri interessi. Per ora è riuscito a resuscitare la Nato, a incollare UE e amministrazione Usa, a spostare a Est il baricentro dell’Unione, a creare nel centro Europa una potenza tedesca super-armata, più legata di prima al fronte Est. E come potrà nascere un’Ucraina pacifica, dopo simile guerra? Come finanziare la ricostruzione delle sue città, della sua economia, dello stesso Donbass, dopo tanta devastazione? Come evitare una dipendenza da Pechino che rischia di seppellire l’idea russa di un’alleanza tra pari? Sono domande cui Putin e i suoi successori faticheranno a rispondere, quali che siano le genealogie della guerra in corso.

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L’inconsulto bisogno di un nemico a Est

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 marzo 2022

Visto che nessun Paese della Nato o dell’Unione europea vuol entrare in guerra con la Russia, e rischiare uno scontro che implichi il ricorso – intenzionale o accidentale – all’Armageddon nucleare, logica vorrebbe che si tentassero tutte le vie per metter fine alla guerra scatenata dal Cremlino in Ucraina, e al massacro delle città ucraine. “Tutte le vie” vuol dire instaurare al più presto un cessate il fuoco, aprire corridoi umanitari, avviare subito un negoziato che salvi la faccia non solo a Kiev, ma anche al Cremlino, e che eviti umiliazioni irreparabili dell’aggredito come dell’aggressore, tali da avvelenare il futuro degli ucraini e dei russi quando i loro governi cambieranno.

“Tutte le vie” vuol dire anche incaricare possibili mediatori, che non giustifichino l’aggressione di Mosca, ma che abbiano l’intelligenza di mettersi nei panni di chi, pur responsabile della guerra, ha da far valere alcune ragioni, inascoltate da decenni nella Nato e nell’Ue. Le proposte non mancano, ma purtroppo un incarico formale manca. Si parla di Angela Merkel, che con Putin parla in russo e tedesco, e che per anni ha difeso gli accordi di Minsk (comprensivi di una revisione costituzionale ucraina che conceda ampie autonomie al Donbass: punto cruciale per Mosca). Oppure si parla di una mediazione israeliana o turca o cinese, anche se Pechino resta neutrale e aborre ogni sorta di separatismo. Non per ultimo potrebbe muoversi il Vaticano, usando come leva l’inedita comunanza creatasi in questa guerra tra Chiesa ortodossa ucraina e russa.

Il guaio è che non ci sono logica né metodo nel pensiero della Nato, dell’Unione europea e di gran parte dei commentatori, ma un bisogno ormai patologico del nemico esistenziale, a Est, che legittimi il sopravvivere di blocchi super-armati a Ovest anche se non esiste più nelle forme di ieri. Di qui l’immagine ricorrente di Putin come Hitler, o Stalin. O come animale, e anzi “peggio di un animale” a sentire le scempiaggini del ministro degli Esteri Di Maio (messo a tacere solo da Georgia Meloni, non dal governo né dal suo partito). Profetico in questo quadro quel che disse Georgy Arbatov, consigliere politico di cinque segretari generali del Partito comunista russo, quando l’Urss si disintegrò: “Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”.

Provare ad ascoltare le ragioni e le esigenze segnalate da Mosca non vuol dire giustificare una guerra che resta criminosa, e oltremodo opaca per quanto riguarda gli obiettivi veritieri di Putin. Vuol dire ascoltare e prender sul serio le condizioni elencate proprio ieri da Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino: immediato cessate il fuoco, in cambio del riconoscimento della Crimea annessa nel 2014, del riconoscimento delle Repubbliche del Donbass e della neutralità dello Stato ucraino (i modelli potrebbero essere il trattato Russia-Finlandia del 1948 e quello sull’Austria del 1954).

La guerra è certo opaca e non sappiamo se davvero Putin si accontenterà della neutralità ucraina e del riconoscimento di Crimea e Donbass russi. Ma provare a mettersi attorno a un tavolo si può, e rinunciare ufficialmente a nuovi allargamenti Nato si deve. Non lo dicono solo i pacifisti. Lo hanno detto protagonisti della Guerra fredda e delle teorie del “contenimento” come George Kennan nel 1997 (“l’allargamento Nato è l’errore più fatale del dopo Guerra fredda”), e poi Henry Kissinger ed Helmut Schmidt nel 2014 dopo l’annessione della Crimea.

Confrontate con gli argomenti di questi ultimi, le condotte odierne dei leader europei sono di una mediocrità senza pari. C’è chi, senza sapere cosa dice, si felicita della fermezza con cui l’Ue si arma ai propri confini e invia sempre più armi in Ucraina, perché lo scannamento continui sui nostri schermi. Secondo alcuni, non solo in Italia, questa guerra avrebbe addirittura “spinto l’Unione europea a reinventarsi”.

In realtà l’Europa non sta inventando alcunché, se per invenzione s’intende ideare qualcosa di nuovo, di non ancora tentato. Se esistesse l’autonomia strategica dalla Nato di cui Macron parla senza mai specificarne le modalità. Se cominciasse un’autocritica non solo sull’estensione della Nato, ma anche sulle politiche di allargamento Ue a Paesi dell’Est che sono entrati nell’Unione solo per meglio accedere alla Nato, l’istituzione da loro preferita.

Sono giorni che Macron, presidente di turno del Consiglio Ue, parla con Putin per poi annunciare, quasi fosse un giornalista qualunque, che i russi “andranno fino in fondo”. A che serve saperlo se non viene indicata la via d’uscita che l’Europa potrebbe escogitare? L’Europa scarta la guerra frontale con la Russia e per questo è giustamente contraria alla chiusura dello spazio aereo sopra l’Ucraina chiesta da Zelensky e avversata dal Cremlino, che l’interpreterebbe come guerra dichiarata della Nato. L’Ue auspica sanzioni sempre più severe, ma molti Stati non vogliono perdere l’accesso al gas russo, necessario alle proprie società. Quanto ai profughi, ben venga l’apertura doverosa, se non fosse per la selettività che la contraddistingue. “Grande emozione perché vedo europei con occhi azzurri e capelli biondi!” (viceprocuratore generale ucraino). “Non stiamo parlando di fuggitivi siriani, ma di europei!” (BFM TV, Francia). “Stavolta non sono profughi siriani ma ucraini… Si tratta di cristiani, di bianchi! Sono nostri simili” (Nbc News).

Né è inventivo riesumare di continuo parallelismi storici strampalati. Quello ricorrente menziona il cedimento (appeasement) delle democrazie che nel 1938 a Monaco permisero a Hitler di smembrare la Cecoslovacchia. Non manca giorno in cui il ’38 non venga evocato, senza mai fare accenno alla vittoria ottenuta nel ’45 grazie a oltre 20 milioni di morti russi (il “patto col Diavolo” ci ha salvati). Il contributo russo alla Resistenza è sempre più obnubilato (fino a cancellarlo, nella risoluzione del Parlamento europeo del 2019). Questo revisionismo storico è un altro elemento che offende la Russia, Paese europeo per eccellenza.

Gli storici futuri narreranno questa guerra come un attacco sproporzionato, come punitivo regime change, ma ricorderanno le umiliazioni inflitte per trent’anni alla Russia, a cominciare dalla Nato allargata. Può darsi che la strategia del Cremlino sia imperiale, ancora non sappiamo. Ma di certo conosciamo le parole di Putin: “Chiunque non senta la mancanza dell’Unione sovietica è senza cuore. Ma chiunque voglia il suo ritorno è senza cervello”.

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Una guerra nata dalle troppe bugie

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 26 febbraio 2022

Paragonando l’invasione russa dell’Ucraina all’assalto dell’11 settembre a New York, Enrico Letta ha confermato ieri in Parlamento che le parole gridate con rabbia non denotano per forza giudizio equilibrato sulle motivazioni e la genealogia dei conflitti nel mondo.

Perfino l’11 settembre aveva una sua genealogia, sia pure confusa, ma lo stesso non si può certo dire dell’aggressione russa e dell’assedio di Kiev. Qui le motivazioni dell’aggressore, anche se smisurate, sono non solo ben ricostruibili ma da tempo potevano esser previste e anche sventate. Le ha comunque previste Pechino, che ieri sembra aver caldeggiato una trattativa Putin-Zelensky, ben sapendo che l’esito sarà la neutralità ucraina chiesta per decenni da Mosca. Il disastro poteva forse essere evitato, se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato costantemente prova di cecità, sordità, e di una immensa incapacità di autocritica e di memoria.

È dall’11 febbraio 2007 che oltre i confini sempre più agguerriti dell’Est Europa l’incendio era annunciato. Quel giorno Putin intervenne alla conferenza sulla sicurezza di Monaco e invitò gli occidentali a costruire un ordine mondiale più equo, sostituendo quello vigente ai tempi dell’Urss, del Patto di Varsavia e della Guerra fredda. L’allargamento a Est della Nato era divenuto il punto dolente per il Cremlino e lo era tanto più dopo la guerra in Jugoslavia: “Penso sia chiaro – così Putin – che l’espansione della Nato non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza o con la garanzia di sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello della reciproca fiducia. E noi abbiamo diritto di chiedere: contro chi è intesa quest’espansione? E cos’è successo alle assicurazioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda. Ma io voglio permettermi di ricordare a questo pubblico quello che fu detto. Gradirei citare il discorso del Segretario generale Nato, signor Wörner, a Bruxelles il 17 maggio 1990. Allora lui diceva: ‘Il fatto che noi siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco offre all’Urss una stabile garanzia di sicurezza’. Dove sono queste garanzie?”.

Per capire meglio la sciagura ucraina, proviamo dunque a elencare alcuni punti difficilmente oppugnabili.

Primo: né Washington né la Nato né l’Europa sono minimamente intenzionate a rispondere alla guerra di Mosca con una guerra simmetrica.

Biden lo ha detto sin da dicembre, poche settimane dopo lo schieramento di truppe russe ai confini ucraini. Ora minaccia solo sanzioni, che già sono state impiegate e sono state un falso deterrente (“Quasi mai le sanzioni sono sufficienti”, secondo Prodi). D’altronde su di esse ci sono dissensi nella Nato.

Alcuni Paesi dipendenti dal gas russo (fra il 40 e il 45%), come Germania e Italia, celano a malapena dubbi e paure. Non c’è accordo sul blocco delle transazioni finanziarie tramite Swift. Chi auspica sanzioni “più dure” non sa bene quel che dice. Chi ripete un po’ disperatamente che l’invasione è “inaccettabile” di fatto l’ha già accettata.

Secondo punto: l’Occidente aveva i mezzi per capire in tempo che le promesse fatte dopo la riunificazione tedesca – nessun allargamento Nato a Est – erano vitali per Mosca. Nel ’91 Bush sr. era addirittura contrario all’indipendenza ucraina. L’impegno occidentale non fu scritto, ma i documenti desecretati nel 2017 (sito del National Security Archive) confermano che i leader occidentali– da Bush padre a Kohl, da Mitterrand alla Thatcher a Manfred Wörner Segretario generale Nato – furono espliciti con Gorbaciov, nel 1990: l’Alleanza non si sarebbe estesa a Est “nemmeno di un pollice” (assicurò il Segretario di Stato Baker). Nel ’93 Clinton promise a Eltsin una “Partnership per la Pace” al posto dell’espansione Nato: altra parola data e non mantenuta.

Terzo punto: la promessa finì in un cassetto, e senza batter ciglio Clinton e Obama avviarono gli allargamenti. In pochi anni, tra il 2004 e il 2020, la Nato passò da 16 a 30 Paesi membri, schierando armamenti offensivi in Polonia, Romania e nei Paesi Baltici ai confini con la Russia (a quel tempo la Russia era in ginocchio economicamente e militarmente, ma possedeva pur sempre l’atomica). Nel vertice Nato del 2008 a Bucarest, gli Alleati dichiararono che Georgia e Ucraina sarebbero in futuro entrate nella Nato. Non stupiamoci troppo se Putin, mescolando aggressività, risentimento e calcolo dei rischi, parla di “impero della menzogna”. Se ricorda che le amministrazioni Usa non hanno mai accettato missili di Paesi potenzialmente avversi nel proprio vicinato (Cuba).

Quarto punto: sia gli Usa che gli europei sono stati del tutto incapaci di costruire un ordine internazionale diverso dal precedente, specie da quando alle superpotenze s’è aggiunta la Cina e si è acutizzata la questione Taiwan. Preconizzavano politiche multilaterali, ma disdegnavano l’essenziale, cioè un nuovo ordine multipolare. Il dopo Guerra fredda fu vissuto come una vittoria Usa e non come una comune vittoria dell’Ovest e dell’Est. La Storia era finita, il mondo era diventato capitalista, l’ordine era unipolare e gli Usa l’egemone unico. La hybris occidentale, la sua smoderatezza, è qui.

Il quinto punto concerne l’obbligo di rispetto dei confini internazionali, fondamentale nel secondo dopoguerra. Ma Putin non è stato il primo a violarlo.

L’intervento Nato in favore degli albanesi del Kosovo lo violò per primo nel ’99 (chi scrive approvò con poca lungimiranza l’intervento).

Il ritiro dall’Afghanistan ha messo fine alla hybris e la nemesi era presagibile. Eravamo noi a dover neutralizzare l’Ucraina, e ancora potremmo farlo. Noi a dover mettere in guardia contro la presenza di neonazisti nella rivoluzione arancione del 2014 (l’Ucraina è l’unico Paese europeo a includere una formazione neonazista nel proprio esercito regolare). Noi a dover vietare alla Lettonia – Paese membro dell’Ue – il maltrattamento delle minoranze russe.

Non abbiamo difeso e non difendiamo i diritti, come pretendiamo. Nel 2014, facilitando un putsch anti-russo e pro-Usa a Kiev, abbiamo fantasticato una rivoluzione solo per metà democratica. Riarmando il fronte Est dell’Ue foraggiamo le industrie degli armamenti ed evitiamo alla Nato la morte cerebrale che alcuni hanno giustamente diagnosticato. Ammettere i nostri errori sarebbe un contributo non irrilevante alla pace che diciamo di volere.

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Quirinale, menzogne e Amarcord

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 febbraio 2022

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola locuzione “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i gilets jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

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Se non sei atlantista al Colle non ci vai

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 gennaio 2022

È bastato che Franco Frattini dicesse alcune cose sensate sulla crisi ucraina e sulla russofobia regnante in Occidente, perché il suo nome – suggerito fugacemente da Conte e Salvini nei giorni scorsi – scomparisse come per magia da tutte le rose dei candidati alla Presidenza della Repubblica.

Un grido di sdegno si è subito levato, proclamando che il futuro capo dello Stato o sarà geneticamente atlantista, o non sarà. Dovrà sostenere Kiev contro l’aggressore russo, incondizionatamente. Non dovrà muover dito perché l’inane riarmo dell’Ucraina e la seconda guerra fredda con la Russia – una messinscena geopolitica per Washington, una catastrofe per l’Europa – finalmente cessino. Dovrà agire e reagire come se l’Ucraina già fosse parte dell’Alleanza atlantica o dell’Unione europea.

Il primo grido di sdegno è venuto da Enrico Letta, forte dell’appoggio zelante di Matteo Renzi: “Sono preoccupato per la situazione tra Ucraina e Russia e dobbiamo difendere l’Ucraina. Abbiamo bisogno di un profilo ‘atlantico’”, ha scritto in un tweet, virgolettando per ignoti motivi l’aggettivo atlantico. Ha ripetuto poi il dolente monito in un’intervista alla Cnbc, come se la candidatura dell’intruso russofilo fosse realmente esistente. È a quel punto che la già pallida figura di Frattini è del tutto svanita, come in certe fotografie ritoccate dei tempi di Stalin. Per meglio puntualizzare è scesa in campo anche Lia Quartapelle, responsabile Pd per gli affari internazionali ed europei: “I venti di guerra che soffiano dall’Ucraina ci ricordano che all’Italia serve un o una Presidente della Repubblica chiaramente europeista, atlantista, senza ombre di ambiguità nel rapporto con la Russia”.

Si ripete così dopo poco più di tre anni il gran rifiuto opposto dal Colle a Paolo Savona, designato ministro dell’Economia dal Conte-1. Il no di Mattarella fu netto: il Quirinale non poteva digerire un esponente che fosse “visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro”. Anche in questo caso Savona scomparve in un baleno dalle foto dei ministrabili. Savona non auspicava l’uscita dall’euro, limitandosi a prospettare una profonda revisione dell’architettura economica europea, ma che importa la verità, quel che conta è mostrarsi muscolosi gridando al lupo.

Fin da quando entrò a Palazzo Chigi – e già aspirando al Quirinale – Mario Draghi mise dunque le mani avanti: si disse “convintamente europeista e atlantista”, visto che le alte e altissime cariche si conquistano con questa carta d’identità. È segno che l’Italia non può permettersi critiche, all’Unione europea e ancor meno alle ormai confuse e convulse decisioni della Nato. Non abbiamo sovranità d’alcun tipo, e quale che sia il presidente della Repubblica, quale che sia il governo, restiamo quello che siamo: non uno Stato ma un Dispositivo della Nato.

Della Russia e dell’Ucraina gli atlantisti italiani sanno poco, anzi nulla. Si attengono al copione distribuito dai vertici degli Stati Uniti e della Nato, secondo cui Putin vuol ingoiare l’Ucraina, e l’Ucraina non è nella sfera di interesse russa, ma nostra. Fingono di dimenticare che l’unificazione della Germania e lo scioglimento del Patto di Varsavia furono ottenuti grazie a una promessa che Bush padre e i leader europei (Kohl, Genscher, Mitterrand, Thatcher) fecero a Gorbaciov nel 1990: la Nato non si sarebbe estesa “nemmeno di un pollice” a Est, garantì il Segretario di Stato, James Baker. Avrebbe rispettato l’antico bisogno russo di non avere vicini armati ai propri confini. Un bisogno speculare a quello statunitense, come si vide nella crisi di Cuba del 1962.

È l’assicurazione che Putin chiede da anni, invano. Washington e Londra hanno imposto il riarmo dell’Est europeo, si sono immischiate nelle rivoluzioni colorate in Georgia e poi Ucraina, e ora inviano ulteriori massicci aiuti militari a Kiev. Molti governi europei sono contrari, soprattutto in Francia e Germania (la prudenza di Scholz prevale al momento sull’atlantismo dei Verdi). L’Italia invece tace, perché non si sa mai: la Casa Bianca potrebbe innervosirsi, come accadde al vicesegretario di Stato Victoria Nuland nel 2014. L’Europa esitava durante la rivoluzione arancione? “Fuck the EU!” (che vada a farsi fottere), commentò Nuland in un’elegante telefonata con l’ambasciatore Usa a Kiev.

Nei mesi scorsi Frattini ha sottolineato l’evidenza dei fatti, e suggerito vie d’uscita. In primo luogo, occorre dire un no esplicito all’ingresso di Kiev (o della Georgia) nella Nato: “Un Paese come l’Ucraina, che al suo interno conta tre province indipendentiste, non può aderire all’Alleanza. La Nato dovrebbe essere la prima a dirlo. Purtroppo ha perso il ruolo di attore politico di primo piano che aveva in passato”. (L’ingresso nell’Ue è escluso, considerata l’accidentata integrazione dell’Est Europa.)

In secondo luogo bisogna rilanciare gli accordi di Minsk, nel “Formato Normandia” che include Russia, Ucraina, Francia, Germania e si è tornato a riunire ieri. Dice ancora Frattini che dopo l’occupazione della Crimea il governo Renzi poteva e doveva fare di più: “Allora l’Italia era ancora nelle condizioni di partecipare al Formato Normandia o di esercitare una forte azione su Putin che forse avrebbe ascoltato. Ha scelto invece di acquietarsi su un’acritica politica delle sanzioni di Obama. In diplomazia quando vuoi convincere chi la pensa all’opposto non lo cacci dal tavolo, aggiungi una sedia”.

Terza condizione per smorzare la crisi: spingere perché vengano ascoltate le popolazioni russe in Ucraina, e perché siano conferite vere autonomie a regioni come il Donbass, che nel 2014 si dichiarò unilateralmente indipendente dall’Ucraina (assieme alla Repubblica di Luhans’k) e dove si combatte da otto anni. I cittadini di origine russa in Ucraina sono circa 11 milioni e il loro status linguistico è calpestato: anche questo allarma Mosca.

Di fronte a tali complessità non si può far finta che le manovre Nato nell’ex Repubblica sovietica non esistano (l’ultima risale al settembre scorso) e che solo i russi si esercitino ai confini con l’Ucraina, non oltrepassando peraltro le proprie frontiere.

Forse sarebbe l’ora di dire che la Nato perde senso, essendosi sciolto il Patto di Varsavia. Che l’ascesa della Cina a potenza globale richiede politiche nuove, multipolari. Discuterne è impossibile in Italia. C’è il copione e se te ne discosti sei un appestato sovranista.

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L’iceberg è vicino e la sinistra sul Titanic non ha alternative

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 16 gennaio 2022

La tentazione è grande, nei dirigenti Pd-M5S-LeU, di dire a sé stessi che trovandosi sulla tolda del Titanic qualsiasi candidato alternativo è meglio dell’ex Cavaliere pluri-indagato che rischia di andare al Colle, presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura, e gironzolare nel Massimo Palazzo ripetendo quanto dice da settimane: “Dopo tutto quello che ho subìto in questo Paese, il minimo è che io diventi presidente!” (Il centrodestra assicura che Berlusconi ha “l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita”, non sospettando che la frase possa significare il peggio: un Paese putrido non merita altro che il putrido).

Insomma il Pd è così suonato e i 5 Stelle così divisi che son pronti a candidare chiunque, anche Topolino, per “far fronte”. Anche figure dell’ancien régime craxiano come Giuliano Amato. Tutti ottuagenari insomma, questo è un Paese per vecchi. Un nome sensato – e ce ne sono, anche fuori dai partiti, anche di bandiera– non sanno proprio farlo a pochi giorni dal voto.

Il fatto è che il centrosinistra sta tutto frastornato sulla tolda del Titanic, balbetta che “la candidatura Berlusconi è irricevibile” e neppure per un attimo lo sfiora il dubbio che la catastrofe non sia l’iceberg ma il bastimento super-zavorrato, malfatto, su cui viaggiano. Il guaio è che la sinistra è così intontita e muta perché non esiste più. Perché ha aderito all’accozzaglia dell’unità nazionale osannando ogni gesto di Draghi, mostrando di credere incondizionatamente alla formula sempre più torbida, più equivoca, dei Migliori.

Enrico Letta per esempio auspica “una personalità istituzionale super partes” e un “patto di legislatura che consenta al Paese di completare la legislatura nel tempo naturale”. Ma patto con chi? Con le destre che hanno appena indicato un candidato di parte, frantumando la già molto ammaccata chimera della “maggioranza Ursula” (Pd, LeU, M5S, centro, Forza Italia)?

Berlusconi diventerà il king maker di Draghi se alla quarta chiama non avrà i numeri, confermando che i progressisti sono ormai capaci solo di scodinzolare nelle retrovie, avendo smarrito il verbo.

La grande illusione è che dopo le Presidenziali tutto resti come prima – stessa maggioranza dei Migliori, stesse politiche forti coi deboli e deboli coi forti, stessi autoinganni –pur di evitare il voto anticipato. È sperabile che la disillusione arrivi presto. L’iceberg è vicinissimo.

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Migliori, una sordità irresistibile

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 gennaio 2022

Nella conferenza stampa di fine anno e per meglio giustificare l’aspirazione al Colle, il Presidente del Consiglio disse che la missione affidatagli da Mattarella era giunta felicemente a termine, sia sul fronte economico sia sul Covid.

Ambedue le affermazioni erano profondamente scorrette e tanto più lo sono oggi, con i contagi che minacciano di salire a 300.000, gli ospedali e le terapie intensive sovraccariche, i morti che in una settimana sono stati più di mille, il personale sanitario che diminuisce drasticamente per esaurimenti o quarantene.

Mercoledì il Consiglio dei ministri ha varato misure che la maggior parte degli scienziati giudicano insufficienti, se non improprie. Scatta l’obbligo vaccinale per chi supera i 50 anni, nonostante la doppia onda di Delta e Omicron colpisca anche giovani e bambini. È imposto il superpass ma in differita e, su pressione della Lega, ne sono esclusi uffici pubblici, negozi, banche, parrucchieri, per i quali basta il vecchio certificato, rilasciato anche con il tampone (senza indicare quale sia il test ottimale). Le quarantene sono un groviglio con maglie pericolosamente larghe, specie nelle scuole, riaperte nonostante i dubbi di molte regioni e dei presidi. Sono abolite per chi contatta un positivo ma ha fatto il richiamo, nonostante i vaccini stiano rivelandosi complessivamente insufficienti e molti scienziati auspichino vaccini “riadattati”.

Il Comitato tecnico scientifico aveva espresso pareri più stringenti ma non è stato ascoltato e i più prestigiosi scienziati sono spietati. Nino Cartabellotta presidente della fondazione Gimbe parla di pannicelli caldi, Andrea Crisanti di “follia incostituzionale”, di misure nate “solo dal panico” e di “apprendisti stregoni in fase di improvvisazione”.

Non c’è dunque da stare allegri e sono grotteschi i trionfalismi di Brunetta che mente spudoratamente sull’unanimità della maggioranza o le garanzie date dal ministro Bianchi sulle scuole, le cui aule restano spaventosamente inadatte. Se tanta esultanza fosse motivata Draghi avrebbe annunciato l’obbligo in pubblico. Se non l’ha fatto vuol dire che è debole. Che non sarà il Migliore se salirà al Colle.

Giorgio Parisi ricorda nel suo libro che nella scienza son più le domande che le risposte (In un Volo di Storni) ma in politica le cose stanno diversamente. Son richieste risposte chiare, e subito. La verità è che la missione Draghi a Palazzo Chigi si chiude (se si chiude) nel caos. La supermaggioranza che ha fatto fuori Conte esiste sulla carta, ma è una stoffa completamente sbrindellata. Non può sopravvivere all’elezione presidenziale né con Draghi né senza Draghi.

Alcune domande gravose hanno già risposta: i test che contano, cioè i molecolari (PCR), scarseggiano e costano. Gli antigenici scarseggiano meno ma sono giudicati ormai inopportuni per la variante Omicron (parola di Crisanti, il più lucido e indipendente in questi anni di Covid, e di Guido Rasi, consulente del commissario Figliuolo: Omicron “non solo buca parzialmente i vaccini ma sfugge ai tamponi rapidi che rischiano di diventare inutili. Quasi uno su due è un falso negativo”).

Altre e cruciali questioni restano senza risposta, in attesa di serie conferenze stampa. In genere sono domande poste dagli scienziati che ci hanno aiutato negli anni del Covid.

La domanda di Cartabellotta e dell’epidemiologo Vespignani per esempio: qual è il piano B, nel caso in cui le misure non funzionino? Non sono predisposti nuovi ospedali da campo, per curare infarti, tumori e altro. Non c’è un piano per il Covid Lungo, totalmente trascurato dal governo e dal Cts. Quando molti entreranno in quarantena saremo di fatto in lockdown ma con fatiscenti sostegni, visto che alcuni bonus di Conte scompaiono (bonus baby sitter) e che il bonus salute mentale è stato respinto –chissà perché– dal ministro dell’economia Franco.

Oppure la domanda di Crisanti: il consenso informato diventa una pura beffa in presenza dell’obbligo e va rivisto. Se sei obbligato che significa il foglietto che firmi? È come chiedere al condannato a morte di firmare il consenso all’esecuzione.

Sono giustamente obbligatorie le mascherine FFP2, ma lo sono ovunque? Cominceranno anch’esse a scarseggiare e i prezzi saranno calmierati?

Quanto ai richiami, detti booster: forse consentiranno un’immunità di 8 mesi (Enrico Bucci sul «Foglio») ma Conte ha ricordato che l’immunizzazione è una corsa a ostacoli. Chi vuole la terza dose “incontra difficoltà a ottenerla in tempi brevi”.

E le medicine ci sono dappertutto o no? E come organizzarsi, dal momento che funzionano solo nei primi 5 giorni?

Infine i ritardi. Il 22 luglio Draghi assicurava che le due dosi rappresentavano la “garanzia di trovarsi fra persone non contagiose”. Ma Pfizer aveva segnalato già l’8 luglio che l’immunità durava 5 mesi. Nel Regno Unito e in Israele il richiamo era pronto da agosto.

Ma torniamo al governo Draghi. La missione poteva riuscire se frutto di intese durature sui due punti chiave (economia e pandemia) e se il capo-missione mostrava capacità di ascolto degli esperti. Non competente sulla pandemia né sulla questione sociale, Draghi avrebbe potuto ascoltarli più attentamente. Non lo ha fatto quasi su nulla. Si lascia condizionare da Salvini, di cui ha bisogno per il Quirinale. Non ha ascoltato gli scienziati sul Covid, non ha ascoltato le utilissime raccomandazioni della Commissione di esperti sul reddito di cittadinanza, presieduta da Chiara Saraceno. Anche la riforma della giustizia è stata imposta senza ascoltare neppure accidentalmente i magistrati che in gran parte la osteggiavano. A volte è mancata anche qualche eleganza: il piano di aiuti e prestiti basati sul comune indebitamento europeo è stato negoziato e ottenuto da Giuseppe Conte, ma Draghi non lo ricorda mai. Le vaccinazioni dell’era Conte erano ottime fino a quando si interruppero le forniture, ma i ministri e i media dicono che solo con Draghi siamo “i primi in Europa”.

Naturalmente il male è il virus con le sue varianti, non il governo o Draghi. Ma i ritardi restano inconfutabili, e i partiti –chiamati sprezzantemente “bandierine”– sono già in campagna elettorale. L’unità nazionale c’è fra i cittadini (il tasso di vaccinazione è altissimo, inutile ormai sprecare tempo con i no-vax) ma non fra i politici, che pensano praticamente solo a chi conquisterà il Quirinale e chi Palazzo Chigi. Draghi ha “tirato avanti” come se non esistessero esperti, scienziati, sindacalisti, e una società allo stremo. Non è un gran bel bilancio.

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Il patto Draghi-Macron è il trionfo del segreto

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 novembre 2021

Si è parlato più volte, nella scorsa settimana, del Trattato italo-francese di cooperazione – il cosiddetto Trattato del Quirinale – che Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno firmato ieri al Quirinale. Ma se ne è parlato per giorni come se si trattasse di un tesoro nascosto, da custodire in stanze chiuse, impenetrabili. Il testo non era disponibile a chi volesse esaminarlo o magari criticarlo, anche perché nessuno dichiarava di volerlo. Il Trattato veniva ripetutamente definito segreto, come fossimo alla vigilia di qualche terribile guerra e occorresse osservare la consegna del silenzio al massimo grado, per evitare che il nemico ascoltasse. Chissà cosa poteva succedere nelle avanguardie o nelle retroguardie, se qualche bozza fosse trapelata e un giornale l’avesse intempestivamente pubblicata.

Sono in gioco interessi potenti – geopolitici, finanziari, economici, legati ai rispettivi complessi militari-industriali – e questo spiega il recinto oligarchico che fino a ieri ha avvolto l’illustre evento. La cosa stupefacente non è il recinto e non è l’oligarchia: siamo abituati ai recinti, alla non trasparenza e alle democrazie oligarchiche. Stupefacente è la naturalezza con cui giornalisti, diplomatici ed esperti danno per scontate e accettano benevolmente, fino al giorno della firma di un Trattato, la segretezza e la non trasparenza dei negoziati che l’hanno prodotto.

Eppure non erano mancate alcune vigili messe in guardia. Quella di Romano Prodi ad esempio, che confida a «La Stampa» i suoi timori per una Francia sempre più tentata dal sovranismo alla vigilia delle Presidenziali del 2022 (inseguendo Eric Zemmour e Marine Le Pen, tutto il centrodestra imbocca la via polacca e rivendica il primato del diritto francese su quello europeo, specialmente sulle migrazioni: questo è oggi il sovranismo francese). O la messa in guardia dell’economista Carlo Pelanda, che agli inizi di novembre esamina in un’intervista a Sussidiario.net alcuni “leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina” e si domanda: “Che senso ha oggi firmare un trattato bilaterale a 360 gradi con la Francia in un’Europa dove l’Italia e le altre nazioni avrebbero semmai l’interesse opposto, quello di depotenziare il trattato franco-tedesco dell’Eliseo che guida l’Europa dal 1963?”. A cosa serve la frantumazione dell’Unione europea in aree potenzialmente separate, dai Nordici ai Paesi del gruppo Visegrad a Est?

Un Trattato simile, che impegna i contraenti a cicliche pre-consultazioni bilaterali ogniqualvolta vengono prese decisioni dai rispettivi governi e viene convocato un vertice europeo, non dovrebbe essere segreto, almeno in tempi di pace. Le bozze del Trattato dovrebbero essere discusse, eventualmente emendate, nelle Camere e anche sulla stampa, non al momento della ratifica parlamentare, ma prima. Non si dovrebbe fare esclusivamente ricorso ai leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina. Soprattutto se le parti non prendono alcun impegno comune sulle questioni migratorie, dunque sull’accoglienza, la redistribuzione e l’integrazione dei richiedenti asilo che approdano in Italia, ma ci si limita a preconizzare pseudosoluzioni come il “contrasto dello sfruttamento della migrazione irregolare” (articolo 1 del Trattato). Soprattutto se c’è il sospetto di un trattato asimmetrico, e addirittura, come scrive ancora Pelanda sconsigliando la firma, di “un’autoannessione alla Francia, industriale e strategica. Edulcorata ma sostanziale” (“All’occhio attento non sfugge che i tecnici francesi mostrano di sapere benissimo cosa vogliono, mentre quelli italiani sono spaesati, cercano di fare controproposte che sono deboli perché prive di prospettiva. C’è un’asimmetria palpabile e imbarazzante”).

La naturalezza con cui si accetta tale opacità è la stessa con cui, ormai automaticamente e sistematicamente, e ben più che in altri Paesi dell’Unione, si va dicendo che ogni sorta di riforma italiana legata al Pnrr, o di decisione politica, s’impone “perché l’Europa lo chiede, lo vuole”.

Perché l’Europa “ci sottrarrà i soldi del Recovery Plan” in caso di non adempienza. Significativo ci pare quel che Chiara Saraceno afferma nell’intervista rilasciata a Carlo Di Foggia, venerdì, su questo giornale: tutti i suggerimenti sul Reddito di cittadinanza presentati dal Comitato di esperti da lei presieduto “sono stati ignorati dall’esecutivo”, compresa la proposta di ridurre la durata di permanenza in Italia di migranti che desiderano ricorrere al Reddito: per quanto riguarda “la proposta sugli stranieri ci è stato perfino detto che era ‘improponibile’ per motivi politici e che si preferisce aspettare che sia l’Unione europea a risolvere il problema sanzionandoci”.

Ecco come stiamo messi in Europa, nei rapporti con i singoli Paesi alleati, e di certo anche nella Nato: siamo lì in attesa di “annessioni”, di ordini, sperando in sanzioni il giorno in cui si constaterà che abbiamo sbagliato o i conti o le leggi.

Perfino la data delle elezioni viene fatta entrare nelle chiuse stanze dell’opacità che decidono, in segreto e chissà in quale sede, dei nostri destini.

In questi mesi che precedono la scelta del successore di Mattarella non si parla d’altro: delle elezioni, anticipate o no. Se ne parla nei giornali, nei talk show. Ma aggiungendo ogni volta, sotto forma di monito o di leak, che “l’Europa le elezioni proprio non le gradirebbe”. Perché? In vista di quale guerra incombente, che impone di ignorare le procedure costituzionali e di tener cucite le bocche e le urne?

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