Due popoli, due Stati: è già troppo tardi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 novembre 2023

Man mano che procede l’invasione di Gaza, si moltiplicano gli appelli delle destre estreme israeliane a ri-colonizzare la Striscia che Israele aveva formalmente restituito ai palestinesi nel 2005.

La demolizione del complesso coloniale di Gush Kativ (8.600 residenti), a sud della Striscia, per ordine del premier Ariel Sharon è ricordata con ribrezzo dagli attuali governanti, e definita alto tradimento dai ministri di estrema destra. Riconquistare e ripopolare le terre perdute è il loro proposito.

Al tempo stesso, continua l’esodo degli abitanti cacciati dalle bombe da nord a sud della Striscia, in fuga attraverso il valico di Rafah verso l’Egitto. È un’espulsione di massa, che i palestinesi chiamano seconda Nakba (“Catastrofe”) perché ricorda loro la prima Nakba sofferta a seguito della guerra del 1948 (più di 700.000 profughi). Un ministro del partito di Netanyahu, Avi Dichter, ha ammesso l’11 novembre che la guerra in corso è effettivamente la Nakba. Altri, come l’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, indicano lo scopo delle operazioni: “Distruggere Gaza”. Si paragona la distruzione di Gaza a Dresda rasa al suolo per volontà di Churchill, come se Dresda o Amburgo annientate non fossero un capitolo nero della Seconda guerra mondiale.

Israele risponde così al pogrom del 7 ottobre, che ha ucciso 1.400 israeliani e ne ha presi in ostaggio 200, in una serie di villaggi e kibbutz, e nel Nova Music Festival ai confini con Gaza. La violenza scatenata da Hamas supera perfino i pogrom classici, ha visto mescolarsi non solo collera e vendetta ma una dose impressionante di sadismo. Le mutilazioni, gli stupri di ragazze del rave party prima del loro assassinio: la mattanza si avvicina ai delitti di sette sanguinarie tipo “famiglia Manson”. Difficile mettere sullo stesso piano le intifade del passato e la voragine del 7 ottobre.

Le voragini hanno una storia, come l’ebbero le intifada. All’origine c’è sempre la tragedia di un popolo (quello palestinese) a cui ancora non è stato dato lo Stato reclamato, e che non ha mai avuto una rappresentanza efficace. A cui si propone la pace contro la pace, quando l’unica via resta quella di chiedere pace in cambio di territori. Lo capì Yitzhak Rabin con gli accordi di Oslo, e più ancora il premier Ehud Olmert nel 2008. Il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas respinse l’offerta del 2008 con la scusa che Olmert si era rifiutato di mostrargli la mappa delle colonie da smantellare. Qualche anno dopo, Olmert disse che la mappa era disponibile se Abbas avesse accettato l’offerta. Negli ultimi anni, poi, ha affermato che Abbas non oppose mai un vero no, e comunque si pentì della firma negata (“le voci su un suo rifiuto categorico sono false”, «Times of Israel», 25.06.’21).

Da allora è passato poco più di un decennio, ma per le nuove destre israeliane è passato un secolo. Secondo Olmert l’offerta può ripetersi, e anche gli Stati occidentali – USA in testa – rispolverano la soluzione “due popoli due Stati”. Ma non è detto che la formula funzioni ancora, che in Israele esista una maggioranza politica a favore, e che lo stesso possa dirsi delle rappresentanze palestinesi. Guerra e colonizzazione hanno radicalizzato i due campi, dando loro un colore sempre più religioso.

La Carta di Hamas del 1989 chiama al jihad armato contro Israele, e nell’articolo 7 ordina di uccidere gli ebrei in quanto tali (in assenza dell’uccisione, il Giorno del Giudizio e l’avvento del Messia non verranno). Nel 2017 la Carta è stata emendata: lo Stato palestinese “sarà edificato entro i confini del 1967”, e secondo i leader di Hamas si tratta di combattere “il progetto sionista che occupa la Palestina, non gli ebrei a causa della loro religione”. Ma lo Stato di Israele ancora non è riconosciuto.

Il fatto è che ogni soluzione è diventata impervia dopo il 7 ottobre. Quasi impraticabile è oggi la soluzione due popoli-due Stati: la colonizzazione della Cisgiordania è talmente avanzata che in Israele scoppierebbe una guerra civile. Ma non meno catastrofica rischia di essere l’alternativa più razionale e logica: la creazione di uno Stato bi-nazionale, sotto forma di confederazione o federazione. Lo proposero nel 1947 filosofi e israeliani influenti come Hannah Arendt e il rabbino Judah Magnes, presidente dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Invano. In assenza di autocritiche delle due parti, sarebbe oggi un incubo demografico per gli ebrei. La guerra civile sarebbe assicurata anche in questo caso.

Le destre estreme israeliane puntano a un unico Stato con annessione di Cisgiordania e Gaza, ma presuppongono la cacciata dei palestinesi. L’espulsione è in corso non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania: 200 morti palestinesi, dal 7 ottobre, e decine di villaggi svuotati con la violenza grazie a massicce distribuzioni di fucili ai coloni, su iniziativa dei ministri Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

La soluzione “un solo Stato” è sostenuta da molti pacifisti di Israele, ma anche da estremisti sia israeliani sia palestinesi. I primi propagandano una Palestina “dal fiume (Giordano) al mare” (from the river to the sea); i secondi un Israele “dal fiume al fiume”, from the river to the river (“i confini di Israele sono l’Eufrate a Est e il Nilo a Sud Ovest”, secondo l’esponente del movimento dei coloni Daniella Weiss intervistata dal «New Yorker» l’11 novembre). In ambedue i casi, lo Stato antagonista scompare. Nella logica dell’annessione verrebbe realizzato l’apartheid istituzionalizzato, che molti israeliani vedono già in fieri a seguito della contestatissima “legge dello Stato ebraico” del 2018, secondo cui Israele concede piena cittadinanza solo agli ebrei. Questo nonostante Israele sia composto per il 20% da arabi-palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3,5-4%), i cristiani (2,1%), i drusi (2%), i circassi (4-5.000 membri, in gran parte musulmani).

Torniamo a Daniella Weiss: “Il mondo, e specialmente gli Stati Uniti, pensa che esista l’opzione di uno Stato palestinese. Noi vogliamo metter fine a simile opzione”. La Weiss si batte per l’aumento dei coloni in Cisgiordania (“dagli 800.000 di oggi a 2 milioni, e poi 3”), per la ricolonizzazione di Gaza dopo l’errore del 2005, infine per la cacciata dei palestinesi dalla Striscia. E dove devono andare questi ultimi? “Nel Sinai, in Egitto, in Turchia”.

Quanto alla religione, Daniella Weiss non ha dubbi: a fissare le regole è “la prima nazione che ricevette la parola di Dio e la sua promessa. Gli altri che seguono – Cristianesimo e Islam […] – non fanno che imitare quel che esiste già. Sono venuti dopo di noi”.

La colonizzazione ha cambiato l’ebraismo in Israele. Lo sostiene Menahem Klein, professore di Scienze politiche all’Università Bar-Ilan («Haaretz», 8.04.2023). L’ebraismo sviluppatosi durante la colonizzazione (essenzialmente in Cisgiordania, vista la decolonizzazione di Gaza nel 2005) non è quello del passato. La percezione di una supremazia dell’ebraismo e del “popolo eletto” esisteva già, ma non legata al possesso di uno Stato e al controllo armato di terre e popoli non ebraici.

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Contro l’ira, fare la pace con l’Iran

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 13 ottobre 2023

È rovinoso nascondersi i pericoli mortali che s’annidano per Israele come per Gaza, e continuare a dividersi, in Italia e Occidente, fra buoni amici di Israele e cattivi fiancheggiatori dei palestinesi.

La verità è che l’invasione di Gaza potrebbe culminare in strage, perché come potrà l’invasore distinguere tra civili e terroristi di Hamas in zone così popolose, e come potranno fuggire gli abitanti se i valichi son chiusi? E la verità è che lo Stato d’Israele è oggi minacciato esistenzialmente, per aver vissuto con gli occhi bendati sin da quando nacque, adottando la mortifera menzogna sulla “Terra senza popolo per un popolo senza terra”. Se li bendò definitivamente dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando ebbe la sconsideratezza di non restituire i territori che aveva occupato: doveva farlo “sin dal settimo giorno”, disse oltre vent’anni fa l’ex procuratore generale Michael Ben-Yair, consulente legale di Rabin.Israele è minacciato esistenzialmente non per una sua congenita debolezza o fragilità – è osceno impersonarlo nella figura dell’ebreo perennemente vulnerabile – ma perché dagli anni 60 è una potenza atomica che continua indefessamente a negarsi come tale (la chiamano “ambiguità nucleare”, l’artefice fu il laburista Shimon Peres), che non aderisce a trattati di disarmo o proliferazione e che non possiede quindi flessibilità negoziale – tranne brevi intervalli, chiusi dall’assassinio di Rabin nel 1995.Questa condizione gli ha permesso di frenare attacchi su larga scala, ma ha trasformato Israele in potenza regionale troppo forte ma immobile, incapace non solo di perizia negoziale, ma anche di chiaroveggenza sulle proprie storiche responsabilità, sul proprio futuro destino, sui pericoli che gli si accampano davanti, oggi sotto forma della autentica polveriera che i governi d’Israele hanno fabbricato con le proprie mani ai confini con Gaza, foraggiando Hamas in funzione anti-Arafat.È uno dei motivi per cui il regime iraniano si va convincendo che l’unico modo per controbilanciare Israele, in prospettiva, è dotarsi anch’esso dell’atomica, in modo da dissuadere Israele o Stati Uniti da attacchi e guerre di regime change. Basta una piccolissima bomba per polverizzare Israele, il suo territorio è minuscolo. L’ambiguità nucleare si basava sull’illusione che non sarebbero apparse nella regione ambizioni nucleari concorrenti. È pensiero magico: anche se Teheran non possiede ancora la bomba, le ambizioni ci sono.Qui non si tratta di aprire negoziati Israele-Hamas: le atrocità terroriste non consentono compromessi di sostanza, e Hamas non ha riconosciuto Israele come fece Arafat alla vigilia degli accordi di Oslo nel ’93. I paragoni con l’Ucraina sono zoppicanti: Putin non è Hamas, ma un uomo di Stato che per decenni ha tentato pacificamente di scongiurare eccessive estensioni Nato, senza riuscirci. In Medio Oriente si tratta di avviare negoziati non finti tra Usa, Israele e rappresentanti palestinesi, coinvolgendo non tanto l’Arabia Saudita quanto l’Iran, in primissima linea e con la massima urgenza. L’Iran pesa su Hamas (e sul libanese Hezbollah): se non trattato come Stato canaglia, potrebbe facilitare trattative puntuali e forse durature.

Ogni ricerca di soluzione dovrà quindi avere come oggetto principale il futuro palestinese e la promessa di una tangibile, graduale restituzione di territori occupati, in modo da consentire che su di essi possa nascere uno Stato palestinese sovrano e minimamente funzionante. Nascita sempre più perigliosa: anche questo non andrebbe nascosto. La Cisgiordania è occupata da circa 670.000 coloni israeliani – inclusi 220.000 coloni a Gerusalemme Est, legalmente parte della Cisgiordania – e non solo è occupata: le milizie dei coloni stanno attuando massicci pogrom antipalestinesi, col consenso più o meno tacito delle destre religiose al governo.

Sono distrutti i pozzi dei residenti palestinesi, uccisi civili, espropriate terre, case, strade. Amira Hass testimonia su Haaretz che in questi giorni pogrom e uccisioni sono aumentati in Cisgiordania. I palestinesi parlano di seconda Nakba (“catastrofe”), la prima essendo quella del ’48, quando milioni di loro furono banditi, per imporre la favola della terra senza popolo. Come stupirsi che i banditi e i loro discendenti non diventino banditi armati.

Fino a quando non finirà questa Nakba, che sminuzza le terre attribuite ai Palestinesi, è vano ripetere il mantra “due popoli in due Stati”. All’origine delle atrocità terroristiche c’è la politica di apartheid attuata dai governi israeliani. Non è Hamas a dirlo. Dal 2002 lo dice l’ex procuratore generale israeliano Michael Ben-Yair e tanti israeliani.

In questo contesto varrebbe la pena fare un po’ di ordine nel nostro linguaggio, per aggirare qualche errore. Soprattutto in Italia ed Europa, poco influenti in Medio Oriente ma importanti per quel che dicono.

Come prima cosa, sarebbe consigliabile disgiungere Israele e popolo ebraico (oltre che Israele e diaspora ebraica). Non farlo danneggia gli ebrei e significa far propria la “legge sullo Stato Nazione” proposta da Netanyahu e adottata nel luglio 2018, secondo la quale “Israele è la patria nazionale del popolo ebraico”, il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei, e l’arabico è declassato da lingua ufficiale a lingua con “statuto speciale”. La legge è assai controversa in patria ed è in contrasto con la Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Il 21 per cento degli israeliani sono arabi palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3%), i drusi (2%), i cristiani (2%). Tutti israeliani, ma non ebrei. Alcuni illustri ebrei israeliani sono giunti fino a ripudiare dimostrativamente l’ebraismo, per protesta contro la legge.

Il secondo errore è definire Israele come la più grande democrazia in Medio Oriente. È solo in parte vero, se si considerano la libertà di stampa, di dimostrazione, di voto. Ma la democrazia non è compatibile con l’occupazione di territori, l’aumento delle colonie e i diritti negati o declassati dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza.

Terzo malinteso: Gaza non è un territorio che Israele nel 2005 ha smesso di occupare. Israele ha ritirato le colonie ma esercita su di esso un controllo aereo, terrestre, marittimo; fornisce acqua, energia, cibo, medicine. Non si può né entrare né uscire da Gaza a causa del blocco/assedio israelo-egiziano. Ci sarà qualche motivo per cui si parla di prigione a cielo aperto, o secondo Giorgio Agamben di campo di concentramento. Secondo la legge internazionale, chi esercita un “controllo” su un determinato territorio è giuridicamente responsabile della sussistenza di chi lo abita.

Infine l’argomento del generale Mini, decisivo («Il Fatto Quotidiano» del 12 ottobre): “È militare e antico il detto ‘in guerra non si prendono le decisioni in preda all’ira’”. L’ira è appena sopportabile nei talk show. Sul terreno mina la sopravvivenza sia di Israele sia della Palestina.

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L’invenzione di Borrell

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 ottobre 2023

Più chiaro e apodittico di così non poteva essere, L’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza europea Josep Borrell: “L’Unione europea resta unita nel suo sostegno all’Ucraina”, si è felicitato il 2 ottobre al Consiglio dei ministri degli Esteri Ue riuniti sfrontatamente a Kiev, aggiungendo il memorabile detto: “Non vedo alcuno Stato membro vacillare”.

La realtà smentisce simili farneticazioni, in particolare dopo la vittoria alle urne dello slovacco Robert Fico, contrario all’invio di armi all’Ucraina e favorevole a tempestive trattative di tregua o di pace.

L’opposizione di Fico si aggiunge a quella dell’ungherese Orbán, e alle titubanze di Stati neutrali come Malta, Irlanda, Austria, che nel marzo 2021 hanno dato il proprio consenso alla creazione di un fondo europeo degli armamenti (detto incongruamente “Strumento di Pace”: European Peace Facility) ma a condizione che i loro contributi non servano all’acquisto e invio di armi letali, vietati dalle rispettive Costituzioni.

Infine sta titubando il governo polacco, il più strenuo difensore – per oltre un anno – di una prolungata guerra per procura in Ucraina. Il 20 settembre il premier Morawiecki ha annunciato: “Abbiamo deciso di sospendere le forniture militari all’Ucraina per concentrarci sull’ammodernamento delle nostre forze armate”. La decisione, se attuata, fa seguito all’embargo sulle importazioni di grano ucraino, deliberato per proteggere gli agricoltori polacchi: “Abbiamo fatto molto per l’Ucraina [circa un milione di profughi accolti in Polonia, ndr] e ci aspettiamo che comprendano i nostri interessi. Siamo consapevoli delle difficoltà di Kiev, ma gli interessi dei nostri agricoltori sono la cosa più importante”, così Morawiecki a Polsat News. Anche le imminenti elezioni in Polonia (15 ottobre) sono la cosa più importante, e il Partito di governo non intende perderle.

Sullo sfondo, poi, si moltiplicano i dubbi della potenza che egemonizza la politica estera degli Stati europei: “Se le forniture americane all’Ucraina continueranno alla velocità attuale, il Pentagono ha sei mesi prima di esaurire le scorte”, ha scritto il Wall Street Journal. Biden ha riconfortato Kiev nonostante i tentennamenti del Congresso. La vita di milioni di soldati ucraini dipende dalla sua campagna elettorale.

Dunque non si sa bene in quale pianeta viva Borrell e che cosa percepisca il suo sguardo perennemente appannato, quando assicura di non vedere “alcuno Stato membro vacillare” sulla guerra. Le ipotesi sono tre. O l’Alto rappresentante ha le traveggole, e quel che vede è un filmato che scambia per realtà. Sulla falsariga del romanzo di Bioy Casares (L’Invenzione di Morel), saremmo al cospetto, nel caso dell’Alto Rappresentante, dell’“Invenzione di Borrell”. Il quale vede quel che s’accampa sul suo schermo ma non in natura, e s’inventa un mondo alternativo in cui tutti sono “buoni”, cioè atlantisti. Grosso modo è quanto scrive Marco Travaglio nell’editoriale di martedì: “I Buoni non sbagliano mai, e se il resto del mondo li odia è perché è cattivo, dunque non esiste”.

Oppure – seconda ipotesi – c’è del metodo nella follia di Borrell. Quel che decidono gli elettori non ha peso, e siccome lo scrutinio universale è un impedimento per le decisioni dei Buoni, meglio ignorarne i verdetti, sganciare i governi (opportunamente ribattezzati governance) dalle preferenze elettorali e fare il possibile perché Fico non trovi una maggioranza. Il fenomeno non è nuovo. Nel 2012 il presidente del Consiglio Mario Monti disse: “Se i governi si facessero vincolare dalle decisioni dei loro Parlamenti, senza mantenere un proprio spazio di manovra, allora una disintegrazione dell’Europa sarebbe più probabile di un’integrazione”. E di recente, durante il Covid: “Bisogna trovare modalità meno democratiche nella somministrazione (sic) dell’informazione. (…) In una situazione di guerra si devono accettare delle limitazioni alle libertà”. Oppure, terza ipotesi, l’Ue si esercita a divenire un’Unione ristretta, propaggine degli Stati Uniti.

Borrell è un socialista neo-con, legato al Gruppo degli eurodeputati socialisti e democratici. Al pari di Borrell, il gruppo è in buona parte fedele alla Terza Via di Tony Blair e mal digerisce i voti popolari, se propensi a smettere gli aiuti militari all’Ucraina e le guerre di regime change. La decisione di espellere Fico, auspicata specialmente dai socialisti francesi e dall’italiana Pina Picierno, è per ora solo rinviata.

Fico non è un modello di democrazia né è socialista, sempre che si sappia cosa sia un socialista oggi. È pronto ad allearsi con l’estrema destra, pur di ottenere una maggioranza. E nel 2018 il suo governo cadde non solo perché accusato di corruzione, ma anche perché il suo partito apparve coinvolto nell’assassinio del giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová, nel febbraio 2018. Kuciak indagava sui legami corruttivi tra pezzi dello Stato, mafie locali e ’ndrangheta. In quei mesi feci parte di una commissione del Parlamento europeo sull’assassinio di Kuciak, e il comportamento del partito di Fico destò parecchi sospetti.

Nessuna di queste vicende tuttavia – né il caso Kuciak, né la vicinanza di Fico all’estrema destra, né le sue ripetute dichiarazioni islamofobe – indussero il gruppo socialista a espellere il partito slovacco, nella penultima legislatura. Non passò neanche la proposta di sospenderlo, avanzata dal capogruppo Gianni Pittella. L’accusa di putinismo è una lettera scarlatta, surclassa ogni infamia. Perché opporsi alla prolungata guerra per procura infrange, nel magnifico e progressivo universo dei socialisti, i “valori europei”. E i valori europei si sa cosa sono: non le leggi europee, non l’ordine Onu, non le Costituzioni nazionali, non la Carta europea dei diritti dell’uomo, non i trattati climatici, ma il cosiddetto comune sentire che Nato e Usa prescrivono, dall’alto e indipendentemente dagli interessi europei, agli Occidentali. Se citiamo i trattati climatici, non per ultimi, è perché nell’Invenzione di Borrell non c’è neanche spazio per i disastri del pianeta. Disastri che solo un accordo fra potenze (Usa, Russia, Cina, Europa, India) potrebbe forse ancora salvare.

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Ucraina, il cinismo dei falchi Nato&Usa

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 agosto 2023

In apparenza sembra davvero un’estate di sconfitte, quella subita dai falchi occidentali che pretendono di stabilizzare il pianeta scatenando guerre distruttive a ripetizione o inasprendo guerre iniziate da altri.

Lo constata Seymour Hersh, che in un articolo del 17 agosto parla di Africa oltre che di Ucraina, e conferma quanto vanno dicendo da giorni i servizi Usa: la controffensiva ucraina sta fallendo, e c’è chi nella Nato comincia a prospettare cessioni di territori a Mosca, per metter fine a una guerra che Kiev combatte e prolunga per procura.

Biden ancora non si espone, ma si espongono gli uomini della sua intelligence, che smettono di incensare Zelensky: il «Washington Post» riporta la loro opinione, secondo cui Kiev, non potendo riprendersi la porta d’accesso alla Crimea che è Melitopol, sta mancando la riconquista che si era promessa.

Negli stessi giorni, ricorda Hersh, la Francia di Macron è espulsa quasi completamente dalla sua sfera d’interesse nelle nazioni del Sahel. Dopo aver perso il Mali a seguito del golpe del 2022, dopo aver perso alleati stabili in Ciad, ora perde il Niger, ricco di uranio e crocevia delle migrazioni dal Sahel. Il golpe militare del 26 luglio ha spodestato il presidente Mohamed Bazoum, amico obbediente di Parigi e Washington. Le popolazioni hanno festeggiato la liberazione dal neocolonialismo francese in Africa centro-occidentale.

A ciò si aggiunga che il cosiddetto Sud Globale si riconosce sempre più nel gruppo non allineato dei Brics (Russia, Cina, Brasile, India, Sudafrica: il 40% della popolazione mondiale) riunito da martedì a Johannesburg. Sono circa 23 gli Stati che chiedono di entrare nel gruppo, ritenendolo l’unica alternativa al disordine prodotto dalla bellicosità Usa contro Russia e Cina, e dal dominio globale del dollaro. Aggressività e dominio che sottendono quella che Washington considera la missione sua e della Nato: il rules-based international order. La regola base può essere riassunta così: se gli Stati Uniti vogliono dominare il mondo, come nel 1945 quando abbatterono Hitler e sganciarono l’atomica su Hiroshima e Nagasaki, devono ripetere senza sosta, spalleggiati da Europa e alcuni Paesi asiatici, le guerre “di civiltà” contro il Male Assoluto che da allora incessantemente si reincarna. Male che assume di volta in volta il volto di Milošević, di Saddam Hussein, dei Talebani, di Gheddafi, e oggi di Putin e Xi Jinping.

Sembrerebbe dunque l’estate dello scontento, per i neoconservatori occidentali, se non fosse che questi ultimi già stanno cercando il modo di uscire immacolati dalla prova ucraina, pronti per nuovi disordini e guerre. Come potranno riuscirvi? Come già hanno fatto in Vietnam o Afghanistan: scaricando le colpe sul Paese belligerante a cui è stata affidata la delega di combattere a oltranza, non solo per proteggere le sue terre dall’invasore ma per difendere addirittura la civiltà occidentale fino a piegare la potenza russa. Zelensky si è infilato volontariamente nella micidiale trappola e per questo punta ancora sulla guerra lunga: se non fosse così, Danimarca e Olanda non gli darebbero i caccia F-16 utilizzabili solo nel 2024.

Vale la pena leggere attentamente il «Washington Post» del 17 agosto sulla controffensiva ucraina. Scrivono gli articolisti che se Kiev non vince, è perché non ha seguito le direttive Usa, che prescrivevano un assalto ben più massiccio lungo la linea del fronte minata dai russi a difesa delle zone conquistate a sud-est: “Le simulazioni congiunte di guerra (joint war games) condotte da militari statunitensi, britannici e ucraini avevano anticipato perdite massicce di uomini, e calcolato che Kiev le avrebbe accettate se questo era il prezzo per rompere la linea di difesa russa. Ma l’Ucraina ha voluto limitare i morti nel campo di battaglia, preferendo puntare su unità di combattimento più piccole”. In altre parole: se Kiev perde è perché al momento decisivo non ha avuto l’ardire di far morire in massa i propri soldati.

L’accusa è ripresa il 18 agosto dal «New York Times», che enumera i morti (500.000 uccisi o feriti tra ucraini e russi, secondo l’intelligence) e indica i “difetti” della controffensiva. I funzionari Usa interrogati avrebbero oggi un grande timore: che “l’Ucraina sia diventata casualty averse”, ostile alle perdite di vite umane, e che “per questo stia mostrando prudenza nella controffensiva”. Il giornale non sembra colpito dall’indecenza delle condizioni dettate a Kiev in una guerra dove vinci se non sei casualty averse.

È così che l’Amministrazione Biden e la Nato escono dalle guerre per procura: addossando i fallimenti all’agente belligerante. Senza batter ciglio si apprestano a dar ragione con ritardo a Mark Milley, capo dello Stato Maggiore congiunto, e a quel che disse nello scorso novembre quando suggerì l’avvio di negoziati, visto che “la vittoria ucraina non era ottenibile”. Il ritardo ha comportato e comporta migliaia di morti, ma gli occidentali che aizzano senza combattere ne vorrebbero di più.

Da icona del Bene che è stato per un anno e mezzo, Zelensky potrebbe divenire, d’un tratto, l’uomo che pagherà gli errori e misfatti di chi, nella Nato, ha voluto che questa guerra durasse e s’impelagasse. Di chi ha avversato ogni accordo di tregua o di pace, a cominciare da quello negoziato tra Kiev e Mosca poche settimane dopo l’invasione, e pronto per la firma nell’aprile 2022. L’accordo fu affossato per volontà britannica e statunitense, e prevedeva vantaggi per Kiev non più ottenibili. Da allora Zelensky è incastrato nella strategia Usa e Nato, con un Paese ridotto a moncone senza più industrie vitali. Oggi rischia d’esser scaricato come lo fu Thieu a Saigon, quando Washington si stancò di seminare morte in Vietnam.

Nel frattempo, in solo un anno e mezzo i morti ucraini hanno superato i morti statunitensi in due decenni di guerra in Vietnam (58.000 circa). Il loro numero è simile a quello dei soldati di Kabul morti nella guerra di Afghanistan fra il 2001 e 2021 (circa 69.000). Colpa di Kiev, se rischia di perdere la guerra perché agisce di testa sua e non manda ancora più i soldati a saltar per aria sulle mine. Stati Uniti ed europei possono da un giorno all’altro scrollarsi di dosso i perdenti e senza tema di contraddirsi vantare vittorie inesistenti.

È quello che fa Josep Borrell, responsabile/irresponsabile della politica estera europea, quando dice che una trattativa potrebbe iniziare a settembre, ma proclama al contempo che “in ogni caso chi ha davvero perso è Putin, che voleva una guerra lampo ed è oggi sulla difensiva”. Infatti cos’è la Russia ai suoi occhi? “Nient’altro che un nano economico, un distributore di benzina il cui proprietario ha la bomba atomica” (intervista a «El País», 20 agosto). La guerra di Ucraina non è finita, ma l’ebetudine illimitata del socialista Borrell conferma che l’Europa unita, avendo perso ogni aspirazione all’autonomia e alla sovranità, e dimenticando d’esser nata come artefice di pace, non impara più nulla dai propri fallimenti.

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Kissinger regola i conti coi Neocon

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2023

S’intensifica l’attivismo di Henry Kissinger, da quando Mosca ha invaso l’Ucraina.

Ha appena compiuto 100 anni ed eccolo a Pechino, giovedì 20 luglio, per discutere col presidente Xi Jinping di ordine multipolare e del caposaldo della diplomazia cinese: il riconoscimento statunitense del principio di “una sola Cina”, di cui Taiwan è parte integrante. Xi ha chiamato l’interlocutore “nostro vecchio amico”. L’orizzonte a cui ambedue hanno fatto accenno è stato il “comunicato di Shanghai”, che Richard Nixon firmò nel 1972, quando Washington aprì spettacolarmente alla Cina dopo decenni di tensioni.

Kissinger accorre per riportare qualche ordine nel caos creato da Washington nel dopo Guerra fredda. Si oppone di fatto alle guerre di esportazione della democrazia, lanciate sconsideratamente da una serie di presidenti, soprattutto democratici: Clinton, Bush junior, Obama, Biden. L’ordine mondiale basato su regole fissate unilateralmente dagli Stati Uniti (rules-based international order), detto anche Liberal International Order, viene sostituito nei discorsi e nelle iniziative dell’ex Segretario di Stato dall’ottocentesco Concerto delle Nazioni, che pacificò l’Europa dopo le guerre napoleoniche ed ebbe come architetto il principe Metternich. Fanno ritorno con lui gli imperativi della geopolitica e dell’equilibrio delle potenze (balance of power): incompatibili entrambi con l’egemonia unilaterale Usa che chiude la Storia quando lo squilibrio è massimo.

Kissinger si è attivato fin dal 2022, esprimendosi più volte sull’invasione russa dell’Ucraina in seguito a una non meno sanguinosa guerra civile iniziata da Kiev otto anni prima nelle regioni russofone del Donbass (13-14.000 morti). Da tempo aveva messo in guardia la Nato contro un allargamento a Est che inevitabilmente avrebbe riacceso ataviche paure di accerchiamento nella Russia post-sovietica. Non era l’unico ad ammonire: erano con lui Jack Matlock, ambasciatore Usa in Russia, e diplomatici e politici di primo piano come George Kennan (l’architetto della politica di contenimento pacifico dell’Urss) o Helmut Schmidt. Oggi sono rari i leader europei pronti ad ammettere che la linea Kissinger restituirebbe peso e potere all’Europa. Ancora nel settembre 2022, Kissinger riteneva “poco saggia” l’adesione alla Nato chiesta da Zelensky. Poco dopo, il 17 gennaio 2023, cambiò posizione e disse che la neutralità ucraina non era più contemplabile. Ma non smise di sostenere che Kiev dovrà rinunciare alla Crimea e trattare sul destino delle aree russofone del Donbass.

Kissinger resta uno dei massimi fautori del realismo politico nei rapporti occidentali con Russia, Cina, India, accanto a osservatori come Stephen Walt, John Mearsheimer, Jeffrey Sachs (e in Italia la rivista geopolitica «Limes» di Lucio Caracciolo). È l’antagonista più temuto dai neoconservatori che hanno avuto la meglio nell’Amministrazione Biden, e che solo nell’ultimo miglio sembrano in difficoltà.

Emblematico il rapporto del presidente democratico con il sottosegretario di Stato Victoria Nuland, già consigliere di Cheney nell’Amministrazione Bush jr e artefice disastrosa del colpo di Stato che nel 2014 favorì e finanziò il defenestramento del poco atlantista presidente ucraino Yanukovich: un atto sgradito da alcuni governi europei, che Nuland mise in riga con parole sguaiate, in una telefonata con l’ambasciatore Usa in Ucraina (“Fuck Europe!”). Kissinger regola così i conti con i neocon: “L’esito preferito da alcuni è una Russia resa impotente dalla guerra. Non sono d’accordo. Nonostante la sua propensione alla violenza, la Russia ha dato contributi decisivi, per oltre mezzo millennio, all’equilibrio globale e al bilanciamento delle forze. Il suo ruolo storico non va degradato” («The Spectator», 17.12.2022).

Il messaggio è chiaro: non degradare la Russia ed evitare che l’Amministrazione, mal consigliata da chi vuol piegare la Russia e infeudare l’Europa, si mostri incapace di riordinare i rapporti con la Cina. Andando a Pechino dal vecchio amico Xi, Kissinger è consapevole che Cina e Russia sono oggi il punto di riferimento di un’ampia maggioranza di Paesi del “Sud globale”. Al tempo stesso zittisce i vaneggiamenti di Edward Luttwak, l’esponente neocon che suggerisce a Washington di accettare la spartizione dell’Ucraina per meglio dedicarsi alla liquidazione violenta del “dittatore mussoliniano” Xi Jinping. Assistiamo allo scontro fra realpolitici e neoconservatori, in vista delle Presidenziali americane, con l’Unione europea e i suoi Stati che stanno a guardare. Ursula von der Leyen è l’equivalente europeo di Victoria Nuland; Josep Borrell, rappresentante per la politica estera Ue, riceve gli elogi di Luttwak per i suoi accenni sciagurati al bel giardino europeo assediato da giungle ostili.

Il tracollo della Realpolitik nelle relazioni internazionali è avvenuto dopo la fine del Patto di Varsavia e dell’Urss. A partire dagli anni Novanta, gli occidentali si presentano come vincitori della Guerra fredda, legittimati a dominare il pianeta con quella che Clinton chiama “democrazia di mercato”. Comincia allora l’era delle guerre di regime change: in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. Si accodarono anche le sinistre “liberal”, in Europa e Usa: sono state le più bellicose, e hanno screditato durevolmente i “valori” e i “diritti umani” che pretendevano di difendere con missili e bombe a grappolo.

La geopolitica rianimata da Kissinger è fondata sulla teoria delle sfere di interesse, che vanno rispettate se si vuol mantenere l’equilibrio globale dei poteri. Se durante la Guerra fredda fu possibile avviare la distensione fra Est e Ovest, e fra Ovest e Cina, è perché le tre potenze riconoscevano le rispettive sfere d’influenza. Dalla crisi di Cuba si uscì grazie a tale riconoscimento reciproco.

Detto questo, va ribadito che Kissinger ha anche prodotto disastri nella propria sfera geopolitica, cioè in America Latina. È il suo lato criminoso. Fra il 1969 e il 1977 favorì l’avvento di regimi sanguinari in Cile e Argentina. Lanciò su ordine di Nixon l’Operazione Condor, provocando colpi di Stato in Bolivia, Brasile, Paraguay, Uruguay. In Argentina e Cile si avvalse del sostegno dell’estrema destra italiana e della P2 (Stefano Delle Chiaie, Licio Gelli). Prima di morire ucciso dalle BR, Aldo Moro fu avvertito da Kissinger: se apri ai comunisti la pagherai, gli fece capire. Kissinger intimorì indirettamente Berlinguer, spingendolo a dichiarare nel giugno 1976, dopo l’assassinio di Allende e l’avvento di Videla in Argentina, che si sentiva “più sicuro sotto l’ombrello Nato”. La frase sembra nata più da paura che da convinzione.

La collocazione nel campo della pace con Mosca e Pechino è l’ultimo travestimento di Kissinger. Il lato oscuro è dismesso, i cambi violenti di regimi non sono più nelle sue corde. Invece di sproloquiare su valori e giardini europei da opporre alle giungle incivili, l’Europa farebbe i propri interessi se lo ascoltasse meglio, e smettesse di sposare e scusare i peggiori misfatti statunitensi.

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Con Purgatori scompare pure il vero giornalismo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2023

Fanno piuttosto impressione i messaggi di cordoglio di tanti giornalisti per la morte di Andrea Purgatori. Si va dal semplice “Ciao” alla giusta ammirazione per le sue inchieste: su Ustica, su Emanuela Orlandi e il Vaticano, su molte indagini continuate per decenni a dispetto di depistaggi, intralci, minacce. Commuove specialmente il cordoglio dei reporter che gli erano amici. Ma non ce n’è uno, tra i giornalisti d’inchiesta, che alzi il dito e dica: continuerò le indagini che Purgatori cominciò toccando appena un lembo di verità – non mi lascerò intimidire da minacce di censura e a mia volta non peccherò di autocensura –, nessun potente potrà farmi dormire nel suo letto come accade ai reporter di guerra embedded, per l’appunto, negli eserciti graditi alla Nato.

Non che manchi il coraggio, nei cronisti e reporter delle generazioni successive a quella di Purgatori. Soprattutto non manca il desiderio di fare come lui, di insistere nello scavare per dieci-venti-trenta-quarant’anni, quando tutto congiura contro il tuo incaponimento. Quel che manca tragicamente, nel giornalismo d’inchiesta, è il committente. Contrariamente al criminale che ha alle spalle il mandante, il cronista non ha alle spalle nessuno che commissioni l’indagine, ti preservi dalle autocensure, ti permetta per decenni di non mollare l’osso neanche quando il riflettore Tv si spegne.

Perfino Sigfrido Ranucci di Report dice le cose a metà, anche se un bel po’ ne dice: “Da oggi mi sento più solo… Senza il suo coraggio, senza le sue qualità molte nefandezze sarebbero rimaste oscure. Ci ritroveremo da qualche parte, sono sicuro. E saranno cazzi loro!”. Quel che Ranucci omette di aggiungere è: caro Purgatori, indagherò anch’io sulle nefandezze che volevi veder punite e che restano tuttora oscure.

Privi di proprietari all’altezza, i giornali scritti sono morti viventi, guidati da direttori che amministrano bancarotte e funerali neanche troppo pomposi della professione. Questo il compito che assegna loro il falso committente, che si fa chiamare editore ed è in realtà un industriale o finanziere che paga per avere un giornale-lobby anziché cronisti e reporter davvero indipendenti. Son pochi i giornali decisi a smontare frase dopo frase il grumo di menzogne e accuse ai media non asserviti che persone come Marina Berlusconi presentano come verità. I giornali più venduti e meno poveri, chiamati “giornaloni”, sono spesso i più venduti anche nel senso brutto dell’aggettivo. Né è diverso in Tv. Anche le reti private fiere di non essere lottizzate sono stracolme di talk perché complici senza quattrini di poteri ostili a inchieste anticonformiste.

Non succede solo in Italia. Seymour Hersh svelò la strage di My Lai perpetrata dagli Usa in Vietnam, scoperchiò le torture di prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, ma quando scrisse cose non grate sull’uccisione di Bin Laden ordinata da Obama, il «New Yorker» gli chiuse la porta. Oggi continua le sue inchieste sulla piattaforma Substack.

Un giovane che aspiri a incaponirsi come Purgatori deve saperlo: il venir meno di un committente che punti su giornalisti indipendenti ha come conseguenza la mancanza di remunerazioni che permettano di resistere alle minacce, di rispondere No alle pressioni esterne. Purgatori fa parte di una generazione che non conosceva ancora i cronisti pagati due lire o addirittura non pagati, disposti a fare il gratuito lavoretto pur di inserirlo nel curriculum.

Mi piacerebbe leggere i messaggi di costernato cordoglio di questi ultimi (ultimi in tutti i sensi). Mi piacerebbe anche che qualcuno cogliesse l’occasione per esigere la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa, e di ogni legge bavaglio. Non avrei la sensazione, strana e iperreale come gli incubi, di salutare un elefante del giornalismo freddato d’un sol colpo.

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Francia, banlieue in fiamme: Le Pen ringrazia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 luglio 2023

Le sommosse in Francia hanno fatto tremare il Paese e la sua classe politica per vari giorni dopo l’uccisione, il 27 giugno a Nanterre, del giovane algerino Nahel M., 17 anni, freddato dalla polizia per via del “rifiuto di ottemperare” agli ordini dopo una fuga in automobile.

Si indaga anche sulla morte di Mohamed, un giovane colpito da un proiettile flashball sparato dalla polizia, fra il 30 giugno e il 1° luglio: filmava i tumulti a Marsiglia. L’arma, molto usata contro i Gilet gialli, fu allora criticata dall’Onu.

La sommossa al momento si sta spegnendo, ma scombussola tuttora la Presidenza della Repubblica e i partiti di destra, di estrema destra, delle sinistre. Ciascuno cerca di definire la propria identità usando politicamente i disastri delle banlieue, che diventano non un problema annoso da affrontare ma un pretesto. Obiettivo: decidere chi guiderà la Francia quando nel 2027 la presidenza Macron si concluderà (anche se alcuni fanno balenare la bizzarra possibilità di una modifica costituzionale che ponga fine al limite di due mandati consecutivi).

Parlano molto, i politici, ma pochi vogliono conoscere e capire quel che accade nelle banlieue, quel che spiega la straordinaria violenza in tante città e comuni: non da oggi ma da almeno quarant’anni. Ci sono state sommosse negli anni 80 e poi soprattutto nel 2005, quando il presidente era Jacques Chirac e il ministro dell’interno Nicolas Sarkozy, primo attore della risposta governativa. La convinzione del ministro poi eletto presidente era che bisognava farla finita con l’era del permissivismo, e regolare i conti, infine, con le ideologie giudicate sovversive del ’68: dunque si rivolse ai giovani rivoltosi chiamandoli “feccia” (racaille) e promise di ripulire le periferie “col Kärcher”, cioè con prodotti usati per pulire strade, automobili o muri.

La biopolitica prese il sopravvento e pervade ora il discorso dell’estrema destra (Marine Le Pen e ancor di più Eric Zemmour): gli abitanti nelle banlieue vanno trattati come oggetti da raschiare e ripulire, se non vogliono restare feccia. Vengono più che mai emarginati, etichettati in anticipo come sospetti, ghettizzati.

Ci sono alcuni elementi nuovi nelle sommosse. Prima di tutto l’età degli insorti: almeno un terzo dei rivoltosi sono adolescenti, dai dodici anni in su, e questo complica il discorso politico, la repressione e l’amministrazione della giustizia. Poi c’è la comunicazione social tra i rivoltosi, che accende fiamme istantanee. Infine pesa il fatto che la presidenza Macron è alle prese con rivolte sociali successive, diverse tra loro ma suscettibili tutte insieme di inasprire lo scontro politico: Gilet Gialli fra l’ottobre 2018 e il primo lockdown nel 2020; movimento contro la legge sulle pensioni e la politica economica di Macron, fra dicembre 2022 e il maggio scorso. Sono stati cinque anni di altissima turbolenza per Macron, ben più logoranti del maggio ’68 per De Gaulle.

La rivolta delle banlieue è tuttavia diversa dalle due precedenti proteste sociali. Non avanza rivendicazioni, neanche confusamente, non si esprime con parole ma solo con il saccheggio, le fiamme, l’urlo dell’abbandonato. Chiede innanzitutto – come nel 2005 – di essere vista. Infine non gode di appoggio popolare come avvenne con i Gilet Gialli e il movimento sulle pensioni. Dai film di Ken Loach si passa al John Carpenter di 1997: Fuga da New York. I rivoltosi sono rinchiusi in ghetti che a partire dalla rivolta del 2005 sono stati un po’ migliorati con opere pubbliche e nuove abitazioni (soprattutto a Nanterre dove la polizia ha freddato Nahel) ma che restano ghetti: se sei di quei quartieri, se hai un codice postale “sospetto”, non troverai fuori di essi né amici, né rispetto, né lavoro. Le inferriate non ci sono, i trasporti per uscire sono perfino aumentati, ma se hai la sfortuna di abitare lì, bianco o nero che tu sia, sei marchiato.

Come in parte nel 2005, i rivoltosi hanno di fronte un vuoto politico. La maggior parte delle discussioni concerne il comportamento dei poliziotti mobilitati (45.000; nel 2005 ne furono mobilitati 12.000), l’uso di armi letali e l’esistenza di fazioni violente nella polizia, ben tollerate dal ministro dell’Interno Darmanin. La legge sulla sicurezza pubblica voluta nel febbraio 2017 dall’allora premier Cazeneuve rende fluido il confine tra legittima difesa e diritto a sparare in caso di “rifiuto di ottemperare”. La legge è confutata a sinistra, in primis da Mélenchon. Contestate sono in genere le misure sull’ordine pubblico sempre più simili a quelle contro il terrorismo. Ma queste contestazioni non equivalgono a occuparsi delle banlieue.

Che avvenire si può immaginare per la classe politica? L’estrema destra profitta della rivolta più di ogni altro partito e più di Macron. Marine Le Pen si presenta come garante più efficace dell’ordine, e ha accanto a sé, più come rivale che come comprimario, un personaggio ancora più estremista e incendiario di lei: Éric Zemmour, il giornalista-intellettuale che si candidò alle ultime Presidenziali. Per Zemmour la Francia è alle prese con una guerra civile ormai permanente tra francesi e immigrati alieni. Macron che ha visitato Marsiglia è andato, secondo lui, a omaggiare una “città che non è più francese”. La sua solidarietà va ai sindacati di polizia come Alliance, che parla di “guerra”, di “orde selvagge” e di “parassiti”. La vera egemonia sulla destra (compresa quella dei repubblicani di Eric Ciotti) la esercita Zemmour. Queste idee coprono oggi un arco molto più vasto, in Europa, che giunge sino a includere giornalisti-intellettuali con credenziali di sinistra che teorizzano – come Zemmour – il “Suicidio dell’Occidente” bianco (in Italia è il caso di Federico Rampini). La destra è così forte anche perché la sinistra è di nuovo a pezzi. Jean-Luc Mélenchon è criticato dagli alleati socialisti e comunisti per essersi rifiutato di sottoscrivere appelli alla calma, preferendo concentrarsi sugli appelli alla giustizia. È difficile che Mélenchon, attaccato da tutte le parti, resti punto di riferimento e leader delle sinistre unite alle Presidenziali del 2027.

Infine Macron. Fin dai tempi dei Gilet gialli, il presidente è profondamente malvisto a causa delle disuguaglianze sociali fomentate e degli sgravi fiscali concessi ai più abbienti. Nelle sommosse odierne il comportamento è stato all’inizio misurato, quando ha definito l’uccisione di Nahel “ingiustificabile e imperdonabile”. Ma nei giorni successivi il presidente si è rifugiato in banalità anche pericolose, distribuendo le colpe tra genitori, videogiochi e social network da censurare in tempi di crisi. Sembra non sapere quel che vuol fare, e dire. Per governare ha bisogno di una destra che si è estremizzata. Non è l’argine a Le Pen che prometteva di essere. Diceva di cercare un centro; i suoi accenni all’“illegittimità delle folle” e alla “de-civilizzazione” della Francia lo hanno dislocato ancora più a destra, e ora di permanente resta solo l’assenza di gravitas.

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Ucraina: resistenza? No, “regime change”. Il totem Zelensky si sbriciola in tv

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 luglio 2023

Per il momento non è dato sapere quale sarà la strategia statunitense, dopo la breve ma traumatica insurrezione di Prigožin. Se prevarrà un atteggiamento più guardingo, mosso dal timore che il crollo del potere centrale a Mosca generi un caos ingovernabile, mettendo a repentaglio il controllo di oltre 6000 testate nucleari russe (oggi dispiegate anche in Bielorussia, in risposta all’insistente domanda polacca di ospitare atomiche Nato sul modello italiano della “condivisione nucleare”). Oppure se prevarrà la bellicosa soddisfazione che regna nel governo ucraino, convinto che sia proprio questo il momento ideale per non solo battere, ma abbattere Putin.

È il “dilemma israeliano” in cui Biden è intrappolato. In effetti il rapporto Usa-Ucraina somiglia sempre più alla dipendenza reciproca che lega Stati Uniti e Stato d’Israele, e che ha permesso a quest’ultimo di sviluppare un regime di supremazia etnica che soggioga i palestinesi, equivalente all’apartheid.

Kiev vuole a ogni costo una guerra di regime change, e per questo chiede a Washington missili a lungo raggio (tra cui gli Atacms, atti a colpire terre russe, oltre ai caccia F-16). Nell’amministrazione Usa c’è chi comincia a temere, dopo le gesta di Prigožin, gli effetti catastrofici di un bellicoso cambio di regime applicato, per la prima volta, a un’imponente potenza atomica.

Tanto più impressionante, in questo quadro, la puntata di Otto e Mezzo che il 29 giugno ha affrontato proprio questi temi. Il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, era intervistato da Lilli Gruber, Marco Travaglio e Lucio Caracciolo: una vera intervista finalmente, non gli osanna a Zelensky dei salotti di Vespa. Tutti e tre lo hanno incalzato con grande maestria, e Kuleba ha dovuto infine ammetterlo: la resistenza ucraina mira in realtà a smembrare quello che Kiev chiama impero russo; l’ultimo restato anacronisticamente in piedi, secondo il ministro, “dopo il crollo degli imperi austro-ungarico e ottomano”.

Il ministro non si cura minimamente dei dubbi espressi da Mark Milley, capo di stato maggiore degli Stati Uniti, sulla fattibilità di una vittoria ucraina che comunque non è ottenibile – Kuleba pare dimenticarlo – senza assistenza Usa. Si rallegra all’idea che Putin sia indebolito dalla secessione del gruppo Wagner. Finge inesistenti libertà linguistiche dei russofoni del Donbass, nonostante la legge che vieta l’uso del russo nella sfera pubblica. Finge inesistenti rapporti democratici con gli oppositori e la stampa, accettata in guerra solo se embedded, ligia ai comandi militari ucraini. Vede questa guerra come una partita di calcio: qui non si gioca per fare compromessi, ma per vincere!

Ecco, gli Occidentali stanno sostenendo e super-armando un governo che ha questi progetti, che non spende neanche una parola sul rischio di guerra atomica. Stanno per inserire nella Nato, al vertice di Vilnius l’11 e 12 luglio, quest’impasto di risentimento monoetnico e furia distruttiva.

Forse l’adesione sarà sostituita da garanzie di sicurezza sul modello israeliano, forse no. Resta che per la prima volta è parso sbriciolarsi – grazie alla professionalità degli intervistatori di Otto e Mezzo – l’oggetto di culto occidentale che è il totem Zelensky.

Lilli Gruber ha ricordato a Kuleba che esistono altri modi – non distruttivi – di affrontare la questione delle minoranze etnico-linguistiche: per esempio, il “pacchetto Alto Adige” negoziato da Roma con Vienna fra il 1962 e il 1969.

Travaglio ha insistito sull’accordo di pace che Kiev negoziò con Mosca nel marzo 2022, poco dopo l’invasione, e che fu bloccato in extremis dal veto di Londra e Washington. Il trattato s’intitolava “Permanente Neutralità e garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, e prevedeva l’inserimento nella costituzione ucraina della neutralità permanente. Non era una resa: si tornava alla neutralità perpetua, costituzionalmente garantita al momento dell’indipendenza nel 1990. Messo alle strette, Kuleba ha finto di non sentire.

Infine, quando Kuleba è stato spinto ad ammettere il vero scopo ucraino – frantumazione della Federazione Russa – Caracciolo lo ha messo all’angolo chiedendo se Kiev è dunque favorevole all’incameramento di parti della Siberia da parte cinese. Anche a questa domanda Kuleba non ha risposto. È lecito domandarsi se la non risposta equivalga ad assenso.

La puntata di Otto e Mezzo colpisce perché costituisce un’eccezione nel panorama tv. Forse perché finalmente le domande sostituiscono le asserzioni, come si addice alla professione giornalistica. L’insurrezione di Prigožin suscita infatti reazioni ben diverse da quelle di Gruber, Travaglio e Caracciolo, nei giornali scritti e parlati del pensiero unico. I principali commentatori si sono mostrati euforicamente assertivi, nel diagnosticare l’indebolirsi del potere russo. Come se sapessero quel che davvero succede al Cremlino, e sognassero lo stesso sogno distruttore di Kuleba.

Anche se per ora sedata, l’insurrezione ha mostrato che il pericolo di un collasso del potere russo esiste, a cominciare dall’esercito. Che al collasso potrebbe far seguito – come auspicato esplicitamente da Kiev – lo sfaldarsi della Federazione. Le atomiche russe finirebbero in mano a poteri ben più infidi di Putin; il cosiddetto Armageddon si avvicinerebbe.

Persino quando il pericolo dell’insurrezione di Prigožin è apparso chiaro, ci sono stati giornalisti e politici che con visibile compiacimento, e all’unisono con quanto detto e non detto da Kuleba, hanno concluso che la resistenza ucraina aveva infine ottenuto questo gran risultato: Putin era debole, forse aveva i giorni contati. Vale dunque la pena assistere Kiev con invii di armi sempre più offensive e sanzioni antirusse sempre più pesanti, visto lo sfaldamento del barbarico impero che ne può discendere. Neanche per un minuto i commentatori hanno abbandonato la cecità di cui hanno dato prova da quando la guerra è de facto cominciata: non nel 2022 ma nel febbraio 2014, quando è stato evidente che il potere centrale a Kiev non intendeva in alcun modo integrare pacificamente le popolazioni russofone del Sud-Est: 14.000 circa sono i morti della guerra civile fra il febbraio 2014 e il febbraio 2022. L’annessione della Crimea resta illegale, ma non è avvenuta senza motivi, di punto in bianco.

Washington tergiversa, incerta fra due strade opposte (escalation militare ucraina, o pressione su Kiev perché accetti un negoziato e metta fine alla guerra). Quanto all’Europa, per ora sta a guardare, senza pronunciarsi sulla guerra di regime change caldeggiata da Zelensky. Anche in questo caso, chi tace acconsente di fatto. L’Europa continua a fingere ignoranza, sulle radici della guerra e gli allargamenti Nato temuti a Mosca da vent’anni. Il sì dei suoi governi all’ingresso di Kiev nella Nato conferma lo status servile –e l’egemonia nell’Ue di interessi polacchi e baltici– assegnato all’Unione europea da Stati Uniti e Nato. Borrell dixit: dovrà pur finire l’“assedio della giungla al giardino europeo”.

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Il Berlusconi che non è in noi

di domenica, Giugno 18, 2023 0 Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 giugno 2023

Vale la pena prendere le distanze dal lutto nazionale, quando canuti rappresentanti dell’establishment giornalistico e arcivescovi confusamente riluttanti evocano con frasi piene di caritatevole delicatezza, e di nostalgia, l’epoca della propria bella gioventù all’ombra di Berlusconi. Come se rendessero segreto omaggio a quella gioventù, più che al defunto.
Hanno preso le distanze Rosy Bindi e poi Tomaso Montanari, unico a rifiutare la bandiera a mezz’asta nella propria università. Si è rifiutato di partecipare alle esequie Giuseppe Conte, unico leader a tenersi alla larga da quello che ha chiamato, correttamente, il “parossismo celebrativo” dei giorni scorsi. C’è stato chi, inarcando sdegnoso le sopracciglia, gli ha ricordato che Almirante andò alle esequie di Berlinguer. Come se il paragone avesse senso. Come se tutti dovessimo per forza temere il famoso “Berlusconi che è in noi”.
Di Berlusconi si ricordano le gesta, ma selettivamente. Si trascura l’essenziale, e cioè come si arricchì, da bancarottiere che era, accumulando immani ricchezze. Si tacciono i patti con la mafia, stretti dal 1974 al 1992 da Dell’Utri, in suo nome (sentenza definitiva della Cassazione, 2014). Si parla di come sdoganò l’estrema destra, prima che Fini ripudiasse il fascismo, ma si tace su ben più cruciali e ramificati sdoganamenti, che hanno trasformato antropologicamente l’Italia.
Nel vocabolario Treccani sdoganare significa, per estensione, rendere socialmente accettabile un comportamento precedentemente condannato, censurato. Berlusconi ha reso oggi del tutto accettabili: l’ingresso in politica come arte per far soldi; la corruzione e l’abuso d’ufficio come peccatucci veniali (il disegno di legge annunciato il giorno dei funerali cancella l’abuso); la libertà di voto degradata a elezionismo e arbitrariamente equiparata alla democrazia costituzionale.

È stata poi sdoganata la menzogna continua: l’improponibile caccia agli scafisti in tutto “l’orbe terracqueo” promessa da Meloni, o il “piano Mattei” per l’Africa (espressione non identificata della sua neolingua). E soffriamo ancor oggi lo sdoganamento di parole incompatibili con la democrazia: gli oppositori e giornalisti critici ribattezzati odiatori o invidiosi cultori della gogna; le carriere politiche narrate come epica rivincita dei reietti (underdog). Meloni vede in Berlusconi, all’inizio un underdog come lei, il precursore della propria ascesa.

Berlusconi è il signore che ci ha fatto divenire, e apparire, peggiori. Ha sdoganato il peggio e ce l’ha lasciato.

Dissociarsi da tutto ciò vale la pena, ma sapendo che la dissociazione va usata cum grano salis, non dimenticando come Berlusconi fu spodestato. Non fu scalzato da governi di sinistra, che salvaguardarono l’insieme di leggi escogitate a difesa dei suoi soldi e del suo potere mediatico. Non l’hanno spodestato i giudici: le condanne son rare, le prescrizioni molte. L’hanno spodestato, nel 2011, l’alta finanza e l’establishment europeo.

Quello fu il suo Anno Terribile. Si scatenarono i grandi giornali stranieri: «Spiegel» in testa, che già l’aveva chiamato Il Padrino. Nel luglio 2011 il settimanale titolava in copertina: “Ciao bella!”. Nel sommario si lesse: “I mercati finanziari internazionali hanno perso la fiducia nell’Italia. Dopo 17 anni di Berlusconi il Paese è pesantemente indebitato e maturo per un cambio di governo. Uno dei Paesi fondatori dell’UE appare paralizzato dall’incapacità del suo premier, occupato innanzitutto dai suoi affari personali”. Sotto tiro era anche la sua politica russa. Il 16 novembre il potere passava a Mario Monti. Cominciava l’èra del sempreverde assioma: “È l’Europa che ce lo chiede!”.

Per chi ha investigato crimini e misfatti del leader non è facile identificarsi con l’onda perbenista e atlantista che nel 2011 scippò le battaglie degli investigatori e l’affondò. Non fu forse un golpe – Berlusconi s’è autodistrutto – ma di certo fu un torbido snodo storico che conferma con evidenza brutale la nostra sovranità limitata.

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Anatomia mancata del tracollo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2023

È vero quel che dice Elly Schlein sulla disfatta del centro-sinistra alle elezioni amministrative: “Non si cambia il Pd in due mesi, il cambiamento non passa mai da singole persone. C’è molto da fare a sinistra. È un lavoro di squadra”.

Ma ci sono verità che se le ripeti si trasformano in manovre di escamotage. La squadra del cambiamento non c’è e il giglio magico di Schlein si limita a inveire contro Meloni, offre slogan e non idee proprie. E poi il cambiamento è spesso fatto da singole persone, lo sappiamo.

Quel che drammaticamente manca è l’analisi più che l’ammissione passiva-aggressiva della sconfitta, e lo sguardo autocritico sulla progressiva metamorfosi di un Pd che per 15 anni – sotto la guida di Veltroni, D’Alema, Renzi, Letta – ha rinunciato all’identità e al radicamento dell’ex Pci e dei cattolici di sinistra, nell’ansia di saltare l’era Brandt e apparire forza centrista, ligia all’Europa dell’austerità e alla scelta atlantica di riaccendere la guerra fredda contro l’Asse del Male impersonato da Putin aggressore in Ucraina e in prospettiva da Pechino. Per questo è ex sinistra e non sinistra. Al Parlamento europeo l’ex sinistra sposa le tesi del centro-destra: su Ucraina e sull’aumento degli aiuti militari, anche se finanziati spudoratamente con i soldi del Pnrr. Si dissocia ogni tanto qualche europarlamentare Pd, fin qui mai appoggiato dalla propria direzione. Fuori tempo massimo, ieri Schlein si è detta contraria non all’invio di armi, ma all’uso a scopi militari del Pnrr. Si vedrà oggi se gli europarlamentari Pd seguiranno la troppo tardiva direttiva Schlein, quando si voterà su Ucraina e Pnrr.

Giuseppe Conte queste cose le sa, e giustamente preferisce per ora separare il suo Movimento dal Pd, per meglio affrontare le elezioni europee del 2024 dove si vota con il proporzionale. Nel Parlamento europeo i 5 Stelle hanno idee spesso diverse dai socialisti, votano contro risoluzioni e direttive che rinfocolano una guerra fredda che rischia anche nel Kosovo di sfociare in conflitto per procura. Sono più esigenti dei socialisti anche sull’austerità economica, che l’Ue potrebbe reimporre dopo il Covid.

Ma anche per i 5 Stelle son giorni amari. Ogni volta che c’è un’elezione locale, i commentatori ripetono la stessa litania, peraltro corretta: il Movimento non ha radici, non ha classi dirigenti che curino i territori. Tra i motivi per cui non le ha, spicca il dogma del limite ai due mandati: un tabù. Impossibile in queste condizioni – dettate da Grillo – far nascere classi dirigenti affidabili perché durature. Il limite dei due mandati, l’appoggio al governo Draghi scambiato dal fondatore per un compagno grillino: questa l’eredità da cui Conte pur volendo non riesce ancora a emanciparsi.

Ma il punto cruciale è il disastro mentale che Pd e Conte non sanno sanare. È l’idea, ricorrente nei commenti di Schlein, che tutto quel che accade – disfatta a sinistra, smantellamento del welfare, impotenza sul clima – sia ascrivibile a una legge naturale ineludibile e non sia opera dell’uomo, politico o economico che sia. Ha detto la segretaria del Pd, credendo di spiegare l’esito del voto: “La sconfitta è netta, il vento a favore delle destre è ancora forte. È evidente che da soli non si vince”.

È significativo che pochi giorni prima Achille Occhetto, massimo sostenitore di Schlein, avesse proferito parole inaudite ma non dissimili sull’alluvione in Romagna: “È stato il Signore che ha creato la terra che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto: ‘Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta’. E ha fatto come quando mandò l’invasione delle cavallette: in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi”.

Se è stato il Vento, se è stato Dio, non esistono macchie nelle scelte del Pd che Schlein pretende riportare a sinistra, non ci sono responsabilità da assumere: comprese le sue responsabilità di vicepresidente dell’Emilia-Romagna incaricata del Patto per il Clima e del Welfare (quindi della cura del territorio, del dissesto idrogeologico legato alla cementificazione della Romagna, dei soldi non spesi per la manutenzione dei fiumi).

Nessuna differenza dall’ideologia di Meloni, che esalta patria e famiglia considerandole costitutive di quella che chiama “società naturale”. Analogamente al Pd che evoca i Venti e Dio, Meloni ha evocato la Natura, il 30 maggio in un convegno organizzato da Marcello Pera, noto per esser stato già nel 2005 fiero avversario di un’Italia e un’Europa “meticcia”, vittima – si dice oggi – di sostituzioni etniche: “Ho sempre pensato – così Meloni – che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini […] e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia”. Una società naturale non si cambia.

Insensato lamentare l’assenza di “venti di sinistra”. È l’idea del vento e di Dio che punisce i romagnoli che è perversa, o diabolica visto che la teologia politica ci sommerge. La società naturale che “prescinde da ogni convenzione” – Costituzione, leggi internazionali – accantona la società politica e storica. Esclude la responsabilità dei politici, e a sinistra imbavaglia la ricerca di un’identità miseramente abbandonata da quando il Pd abbracciò la Terza Via, screditata dall’austerità e da rovinose guerre di regime change: la via di Blair, Schröder, Clinton, Obama, che sciaguratamente affonda la socialdemocrazia e la distensione di Willy Brandt. Un triste salto della quaglia, nella storia dell’ex Pci. Due Dèi, quello biblico ed Eolo Dio dei Venti, sono alla guida di un’Italia senz’alcuna sovranità se non quella detta “valoriale”. A patire le giuste punizioni divine sono i cittadini che ora hanno le scarpe nel fango.

I cittadini castigati si aggiungeranno ai milioni che non votano più, e che già sono una maggioranza. A loro converrebbe rivolgersi, non limitandosi a inveire contro Meloni ma osando un’anatomia del tracollo. L’ennesimo appello al “campo largo” di sinistra è inane se Schlein si paralizza davanti al Terzo Polo, questo grumo scomposto che s’ostina a imitare Macron, il distruttore dei socialisti. Macron in Francia naufraga, e sta mimetizzandosi con discorsi sempre più retrogradi sulla “de-civilizzazione” delle proteste sociali.

Pericolosa è l’idea di una società naturale governata da Dèi, che d’un tratto accomuna i nostri partiti. Conferma che l’escamotage e la fuga dalla realtà sono sintomi della sovranità limitata cui l’Italia si sente ed è condannata dal dopoguerra: limitazione bene evocata nel 2019 da Carlo Galli (Mulino) e oggi da Luciano Canfora (Laterza). Sui temi che contano di più – guerra, invio di armi, fisco che favorisce evasori, precariato – il principale partito di opposizione dice poco o niente.

E certo Schlein è appena arrivata, bisogna darle tempo, già così viene considerata un’estremista. Ma se arriva per dire che le “scelte già prese” sono intoccabili (è quanto ha affermato il 19 aprile sul termovalorizzatore a Roma) non si vede per far che sia arrivata. Se il Pd parla di Venti e di Dio aderendo di fatto alla “società naturale” di Meloni e all’austerità da anni presentata dall’establishment come legge naturale, allora decisamente Godot non è arrivato, nonostante tante sempre più fioche attese.

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