L’amico americano e l’Anticristo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 settembre 2022

Enrico Letta è stato il primo a evocare le elezioni dell’aprile 1948, prendendo la parola in direzione Pd subito dopo la caduta di Draghi, e a paragonarle con il voto del 25 settembre prossimo. Paragone osceno, perché il ’48 fu l’elezione più isterica, più falsa, più manipolata nella storia postbellica italiana.

Iniziò allora l’uso dei cartelloni elettorali, e il fronte composto da comunisti e socialisti venne ritratto con immagini agghiaccianti: per esempio, un enorme scheletro in uniforme dell’Armata Rossa. Stalin era alle porte: finanziava i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni, avrebbe calpestato anche da noi ogni libertà. Padre Lombardi tuonava, in nome di Pio XII: “Nell’ora grave che volge, e dinanzi ai prossimi eventi ancora più gravi, il Papa ha lanciato una formula: ‘Con Cristo o contro Cristo’; non c’è che una scelta da fare ed è una scelta religiosa […]. Guai a chi non si pronunzia con Cristo, egli è contro Cristo, e Cristo lo atterrerà”.

Ma fu soprattutto l’amministrazione Usa a manipolare e sovvertire quella campagna elettorale. L’ingerenza fu vistosa: la Nato non aveva ancora visto la luce e le elezioni italiane furono un esercizio ante litteram in diplomazia egemonico-coloniale. Furono promesse forniture di alimentari e medicinali per 300 milioni di dollari se la DC avesse prevalso, mentre in caso di vittoria social-comunista i nostri emigranti non sarebbero più stati accolti negli Stati Uniti e l’Italia sarebbe stata esclusa dal Piano Marshall (l’equivalente del PNRR). L’indecenza di quell’intromissione sta ripetendosi.

Poco prima del ’48 ci fu la strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947 (11 morti). Responsabile ufficiale: Salvatore Giuliano, il bandito. Responsabili non ufficiali, rivelati quando la CIA desecretò gli atti relativi all’eccidio: i servizi dell’Office of Strategic Services (OSS), il servizio segreto Usa comandato in Italia dal capitano Angleton, che agì in combutta con la Decima Mas, sbirri fascisti e Giuliano. Le ingerenze Usa son continuate per anni. Per la loro posizione strategicamente scabrosa nel Mediterraneo, Italia e Grecia sono stati i due Paesi che più ne hanno patito (o approfittato, a seconda dei partiti o di settori dell’esercito).

Che Letta non abbia rispolverato a caso il ’48 è confermato da quel che accade in questi giorni: l’allarme emergenziale lanciato nei grandi giornali, nei partiti di centro, nel Pd, sulle ingerenze russe nella campagna; le accuse di finanziamenti di Putin a destre ed estreme destre; e per l’ennesima volta, i rapporti dei servizi Usa sui politici di vari Paesi che dal 2014 riceverebbero soldi dal Cremlino. Nell’ultimo decennio, quasi tutte le elezioni e i referendum occidentali sarebbero stati oggetto delle brame di Putin: la vittoria di Trump, il referendum sul Brexit del 2016, le presidenziali e legislative francesi del 2017 e 2022. I partiti perdenti non avevano mai nulla da rimproverarsi, visto che a orchestrare la disfatta era stato, da Mosca, il Destabilizzatore per eccellenza.

Tutto questo era moneta corrente nella guerra fredda, e in Italia sin dai giorni della Liberazione, quando l’esercito Usa sbarcato in Sicilia cominciò a congiurare con le mafie. Citato da magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo, Sciascia descrisse così una Liberazione che aveva prodotto la Costituzione ma anche inoculato veleni duraturi: “La prima cosa che fecero gli americani sbarcati in Sicilia fu nominare uomini di mafia nei comuni più grossi del palermitano, dell’agrigentino e del trapanese”. Seguirono poi le pressioni Usa su De Gasperi perché cacciasse dal governo l’alleato comunista, nel ’47.

Uno spiraglio di autonomia si aprì negli anni della distensione – con Nenni, Moro, Andreotti – presto chiuso dall’assassinio di Moro, nel quale i servizi Usa svolsero ruoli non secondari. La guerra fredda si riaccese in coincidenza con i primi allargamenti della Nato a Est e le intromissioni Usa nei movimenti colorati a Tbilisi in Georgia e a Kiev, per culminare nella scomposta aggressione di Putin contro l’Ucraina. Da allora europeismo e atlantismo hanno smesso di essere distinti, com’erano ai tempi di Brandt, Genscher o Kohl.

Alla vigilia del 25 settembre, il linguaggio stesso è scivolato verso l’allarmismo, a proposito dei prezzi del gas e delle ingerenze russe nelle elezioni. Col passare dei mesi si è passati dal “Siamo accanto all’Ucraina” a un più istintivo, truce: “Siamo in guerra”. Inutile ricordare insieme le intrusioni Usa e quelle russe: se siamo in guerra, quella statunitense non è intrusione ma legittima intercessione alleata.

Per la verità non lo sapevamo che eravamo “in guerra”, non l’ha dichiarata nessuno, eppure tutti lì a dire – nei giornali, in Tv – che l’ingerenza russa è la tappa di una guerra anche nostra. E lo si dice con orgoglio, da quando Kiev ha riconquistato città e territori. Ancora non ci si rende conto che la riconquista è magari un’ottima notizia per gli ucraini (non forse per quei cittadini russofoni che dal 2014 lottano contro l’ucrainizzazione linguistica delle zone orientali), ma potrebbe essere fugace, preludio di catastrofi. Il giorno che Putin dovesse passare dall’Operazione Militare Speciale alla mobilitazione generale e dunque alla guerra vera a propria – su spinta dei falchi che ne criticano la mollezza, dell’Unione europea in gran parte appiattita su Washington, di Biden che vuole una resa dei conti che sganci definitivamente l’Europa dalla Russia (70 miliardi di dollari in armi consegnate a Kiev in 6 mesi: e c’è chi nega la guerra per procura), capiremo che quest’ingranaggio è infernale più per gli europei che per gli Usa. Capiremo anche, forse, che gli italiani non credono nella dicotomia dualistica – il Rosso con l’Europa, il Nero con Putin e Orbán, con Cristo o contro Cristo – che ignora le assicurazioni del sottosegretario Gabrielli: l’Italia non è nella lista dei sospetti.

Il Partito Democratico, così aggressivo quando denuncia il M5S per la volontaria caduta di Draghi, dimentica che i finanziamenti esteri dei partiti furono vietati dal primo governo Conte grazie alla legge spazzacorrotti, nonostante gli emendamenti, respinti, dell’alleato leghista. Di Maio, che reclama commissioni d’inchiesta sui soldi russi, potrebbe occuparsi di diplomazia invece di agitare spauracchi.

“Preferiamo la pace o i condizionatori d’aria accesi?” ci chiese Draghi il 7 aprile. La risposta l’abbiamo. Spegneremo climatizzatori e termosifoni, e di pace e diplomazia non si parla più.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Chi sono i veri traditori di Gorbachev

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 2 settembre 2022

Sulla stampa italiana e occidentale si piange in questi giorni la morte di Mikhail Sergeevich Gorbachev, indicando in Vladimir Putin colui che lo ha tradito, distruggendo la sua visione pacifica di una “casa comune europea” e riportando la guerra nel cuore del Vecchio continente, in Ucraina.

Molti di questi rimpianti sono intrisi di ipocrisia, oltre che storicamente zoppicanti.

È probabilmente vero che Gorbachev disapprovava la natura avventata e brutale dell’intervento militare in Ucraina. Anche se durante il suo governo non mancarono repressioni mortifere nelle repubbliche secessioniste (ad esempio in Lituania) Gorbachev ritirò pur sempre le truppe dall’Afghanistan, non usò la forza nei Paesi d’Europa centrale che volevano liberarsi del giogo sovietico, scommise con tutte le sue forze sui negoziati di disarmo convenzionale e nucleare fra Est e Ovest.

Non meno probabile è che il suo legame anche affettivo con l’Europa, e con la Germania in particolare, fosse più forte e tenace di quello manifestato oggi dal Cremlino. Ma parlare di un Gorbachev tradito dall’“imperialismo” di Putin è storicamente infondato e fuorviante: non tiene conto della “storia lunga” delle relazioni tra Russia, Europa e Stati Uniti, né dell’origine della nuova guerra fredda che Gorbachev aveva voluto eliminare, senza riuscirci, grazie al duplice scioglimento del Patto di Varsavia e della Nato.

Se si considera la storia lunga, e si include nei ragionamenti l’ultimo trentennio, si arriva infatti a conclusioni diverse, ben più sfumate. A tradire il progetto di “casa comune europea” senza più Nato e Patto di Varsavia, che Gorbachev propose al Consiglio d’Europa il 7 luglio 1989, poco prima che venisse abbattuto il Muro di Berlino, fu di certo Eltsin che lo spodestò sciogliendo l’Urss e il Partito comunista sovietico, ma fu in prima linea l’Occidente, con cui l’ultimo leader sovietico aveva negoziato l’unificazione pacifica delle due Germanie.

La promessa che gli Occidentali fecero al Cremlino tra il ’90 e il ’91, in varie riunioni bilaterali e nel Gruppo 2+4 (i 2 Stati tedeschi e i 4 vincitori della seconda guerra mondiale: Usa, URSS, Francia, Regno Unito), era che la Nato sarebbe rimasta in piedi, contrariamente al Patto di Varsavia, ma avrebbe tenuto debito conto degli interessi di sicurezza russi e non si sarebbe dunque allargata a Est: “neanche di un pollice”, assicurò il segretario di Stato James Baker. Stessa promessa fu unanimemente fatta da Mitterrand, Helmut Kohl, Margaret Thatcher e John Major, Manfred Wörner segretario generale della Nato.

Purtroppo l’inavvertenza di Gorbachev fece sì che l’impegno non venisse scritto nero su bianco. “Fu un’idiozia”, ha dichiarato di recente Roland Dumas, ministro degli Esteri francese che partecipò ai negoziati, “ma tutte le delegazioni tornarono dagli incontri con Gorbachev trascrivendo resoconti in cui la promessa è esplicitamente registrata”.

La promessa fu infranta a partire dal 1993-94 da Bill Clinton, che negò l’impegno preso, suscitò le prime irritazioni russe e impose nel 1999 il primo allargamento a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, in piena guerra in Jugoslavia. Pochi anni dopo mise in atto un’ulteriore provocazione, riconoscendo la secessione del Kosovo. Jack Matlock, ex ambasciatore Usa a Mosca, condannò gli allargamenti Nato e gli interventi militari nei Balcani: “Gli effetti sulla fiducia russa negli Usa sono stati devastanti. Nel 1991 l’80% dei russi avevano un’opinione favorevole degli Stati Uniti. Nel 1999, la stessa percentuale ci è ostile”. Nel 2004 l’Alleanza Atlantica aprì ai Baltici, e a Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, sotto l’amministrazione Bush jr. Durante la presidenza Obama entrarono nella Nato Albania, Croazia, Montenegro.

Nel frattempo la mortificazione del Cremlino era diventata risentimento. Nel febbraio 2007, alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco, Putin denunciò l’arroganza occidentale e disse che la pazienza russa era giunta al limite. La sordità delle amministrazioni Usa fu totale e si cominciò a promettere l’allargamento Nato a Georgia e Ucraina (Berlino e Parigi si opposero, dunque non fu fissata una data per l’adesione). I progressivi allargamenti Nato agli Stati dell’Est e il loro riarmo costituiscono il vero tradimento della fiducia che Gorbachev aveva risposto nell’Europa e negli Stati Uniti.

Anche Gorbachev, come Putin, considerava tragica la fine dell’Urss, che non aveva saputo gestire né sventare. L’impero multietnico era preferibile, a suo parere, ai nazionalismi etnici che esplosero in Urss e che fecero di lui uno statista grandioso ma perdente. Di per sé, l’impero non è una forma politica negativa: se l’impero austro-ungarico fosse sopravvissuto non ci sarebbe forse stato l’annientamento degli ebrei d’Europa. Quel che Gorbachev avversò fu inoltre lo scioglimento del Partito comunista, che negli ultimi tempi voleva riformare ma sicuramente non abolire (importanti erano stati negli anni 70 gli impulsi degli eurocomunisti italiani o spagnoli, che avevano elaborato alternative al comunismo sovietico).

Prima di essere defenestrato da Eltsin – e da chi a Washington e in Europa sostenne l’usurpatore e impose una “terapia choc” che privatizzò l’economia russa, permise l’insorgere e l’arricchimento degli oligarchi e spinse la Russia sull’orlo della bancarotta – Gorbachev aveva in mente la trasformazione dell’Urss in una confederazione, con ampie autonomie riconosciute alle Repubbliche, specie alle più indipendentiste come i Baltici, la Georgia, l’Ucraina. Al pari di Solženicyn, fu sconcertato dall’indipendentismo ucraino e lo disapprovò apertamente. Approvò di conseguenza l’annessione della Crimea nel 2014.

Nel magnifico documentario-intervista di Werner Herzog (“Meeting Gorbachev”, 2018), l’ultimo presidente dell’Urss risponde con un sorriso come sempre mite ma leggermente sarcastico a una domanda del regista: “Gli Americani pensavano di aver vinto la guerra fredda e questo gli ha dato alla testa. Quale vittoria? Fu una nostra vittoria comune, e tutti abbiamo vinto!”. Una verità che le amministrazioni Usa s’ostinano a rifiutare, convinte come sono che la fine dell’Urss abbia legittimato l’unipolare predominio statunitense nel vecchio continente e nel pianeta, e sconfitto l’idea di una “casa comune europea”.

Sulla propria pietra tombale, Gorbachev confessa a Herzog il desiderio di veder scolpite le parole che Willy Brandt – altro gigante perdente – aveva immaginato per la propria lapide: “Ci abbiamo provato”.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Letta, tutti i silenzi del centrismo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2022

Prendendo la parola ieri nella direzione del Partito democratico, Enrico Letta ha evitato di menzionare l’Agenda Draghi, intuendo forse che il termine non raccoglie i consensi inizialmente immaginati: non significa nulla, per la contraddizione che nol consente.

L’Agenda Draghi è sostanzialmente vuota perché l’ex presidente del Consiglio guidava una coalizione tra posizioni a tal punto contraddittorie che ogni riforma progressista era impossibile, a cominciare dalla giustizia fiscale. Le uniche “riforme” sono state quelle della giustizia: un regalo a chi piange in pubblico Falcone e Borsellino e dietro le quinte si adopera per distruggerne l’eredità. Secondo l’Unione europea le due riforme mettono a rischio “l’efficacia del sistema giudiziario”, specie “in relazione alla lotta alla corruzione”, e rischiano di “compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”.

Ma l’omaggio alle virtù di Draghi è ricorrente e accanito, nel discorso di Letta: quando accusa il “trio dell’irresponsabilità” di “tradimento dell’Italia” (il M5S accomunato a Lega e Forza Italia); quando dice che per colpa del trio i lavoratori italiani non riceveranno la mensilità in più che Draghi prometteva (ma che può ancora garantire), non otterranno misure contro la precarietà né i diritti civili (di cui peraltro il governo non si occupava, come ha rivendicato lo stesso Draghi in Parlamento). Non otterranno nemmeno il piano Orlando sul salario minimo, che però non fissa cifre ed è un mezzo imbroglio. Precariato e povertà non figurano nell’Agenda Draghi. Se ne era occupato in passato il governo Conte – col decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, che ha salvato un milione di persone dalla povertà e ne ha aiutate in tutto oltre 4,5 milioni – ma le misure sono state deturpate. Finito Draghi, per il Pd è la caduta nell’abisso: fa impressione l’adesione di chi pretende di rappresentare le classi popolari a un governo che per 17 mesi ha gestito compromessi al ribasso tra Pd, 5 Stelle, sinistra bersaniana e destra (anche sull’ultima ondata del Covid: un funesto fallimento di Draghi).

La compromissione con le destre è il programma dell’ex-sinistra rappresentata da Letta, che non casualmente invita i militanti a guardare al futuro anziché “salvaguardare il patrimonio del passato”. Anche perché lui, venendo da Dc e Margherita, quel patrimonio l’ignora. Come potrebbe d’altronde condividerlo, visto che annuncia la fine del campo largo (ha sempre schivato l’aggettivo progressista, preferito da Conte e Bersani) e promette un nuovo campo, contrassegnato da “liste aperte ed espansive”. Ogni alleanza è preclusa con i tre Traditori: Conte in primis, Salvini e Berlusconi. Braccia apertissime invece a ogni sorta di centristi – soprattutto Calenda, forse Renzi che però rischia di fargli perdere voti, e gruppetti in bilico fra destra e centro tra cui i disillusi di Berlusconi come Brunetta e Gelmini, da sempre neoliberisti in economia. Braccia aperte inoltre a Bersani o Fratoianni, che non osano prendere le distanze da quella che era sinistra ed è ora palesemente ex-sinistra (ma Fratoianni, rispetto al governo Draghi, era all’opposizione: altra bella contraddizione…).

La parola d’ordine di Letta sembra netta: “Noi contro Loro” (cioè contro Meloni). “Come nel 1948”, aggiunge, facendo propria la demonizzazione isterica dell’avversario comunista che caratterizzò quelle elezioni. Ma l’occhio di tigre e i colori netti di Van Gogh che prefigura, anche facendo grandi sforzi non si riesce a percepirli. L’esclusione tassativa di Conte dal campo progressista gli costerà parecchi voti, in collegi uninominali dove vince chi arriva primo. Forse meglio così (entrambi perderebbero voti), ma il No di Letta toglie comunque nerbo alla sua campagna. D’altronde come scorgere il nerbo – l’occhio di tigre – in un discorso programmatico che evita di indicare nel dettaglio i pericoli di una vittoria di Meloni-Salvini-Berlusconi, eludendo l’essenziale: le questioni sociali, l’astensionismo delle classi più povere, infine la politica di distensione e di pace che costituiscono il patrimonio delle sinistre di cui Letta vuol sbarazzarsi. L’abbandonato campo di sinistra potrebbe trovare oggi una rappresentanza in Conte, smuovere astensionisti e delusi del Pd, e fare quello che preannuncia Letta: “Risvegliare la politica”. È un cammino difficilissimo e tardivo per il M5S, ma tentare la risalita vale la pena.

Il pericolo di una destra vittoriosa – per ora a guida Meloni– è in primissimo luogo la riscrittura della Costituzione, come giustamente osservato da Antonio Floridia sul «manifesto», che suggerisce non già il campo progressista definitivamente affossato, ma almeno un accordo tecnico Pd-5 Stelle. Una volta al governo con una forte maggioranza, la destra riuscirebbe a ottenere il consenso di due terzi dei parlamentari (compresa una consistente porzione del centrismo raccolto attorno a Letta) e cambiare a sua guisa la Carta costituzionale senza nemmeno dover ricorrere al referendum. A questo rischio – il più grave – Letta non ha fatto minimamente accenno, non nominando mai la Costituzione per non urtare Renzi, Calenda e i tanti Pd che votarono sì alla “riforma” Renzi-Boschi.

Stesso silenzio sulle riforme della giustizia criticate dall’Unione europea e un accenno del tutto sommario alla guerra in Ucraina, dopo aver accusato tutti i “traditori” di Draghi –nei giorni scorsi– di essere putiniani. Letta resta profondamente atlantista, da mesi usa toni decisamente neo-con e non ha mai visto l’Unione europea come un soggetto autonomo i cui interessi non coincidono con quelli statunitensi e atlantici. Culturalmente non è legato alle battaglie socialdemocratiche per la distensione con la Russia: una tradizione che ancora sopravvive in alcuni esponenti tedeschi (tra cui il presidente della Repubblica Steinmeier). Nella campagna elettorale, il Pd tornerà a chiedere più aiuti militari all’Ucraina, in contrasto con quello che vuole la stragrande maggioranza degli italiani nei sondaggi.

Infine la questione sociale, su cui Letta si è opportunamente soffermato, ma senza specificare quel che pensa sul Reddito di cittadinanza, sull’aumento della povertà assoluta e relativa ripetutamente evocata da Domenico De Masi, sul precariato che non cessa di crescere, sulla giustizia fiscale mai attuata. Senza criticare, infine, le nebulose proposte di Draghi sul salario minimo.

Letta prospetta una vittoria del suo campo espansivo e incita a “scrivere una pagina dove nessun destino è già scritto”. È vero, nessun destino lo è. Ma una campagna che demonizza Giorgia Meloni senza spiegare in cosa precisamente consista il pericolo per la Costituzione e per la società rischia di ingessare il destino senza poterlo scuotere.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Cappuccetto rosso e il lupo russo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 17 giugno 2022

Sempre più si riduce e scompare lo spazio dedicato dai media alla guerra in Ucraina, che a sua volta cancella le guerre in Siria, Yemen o Libia. “La terza guerra mondiale è stata dichiarata”, constata il Papa nel colloquio pubblicato da «La Civiltà Cattolica»: procede “a pezzi e bocconi” ma è ormai trama dei nostri tempi.

Il pezzo ucraino di guerra è specialmente vistoso, perché ha scatenato in Occidente una corsa al riarmo e alle sanzioni che affamerà il pianeta, e perché sono implicate le due superpotenze atomiche: Mosca che in febbraio ha spietatamente attaccato e Washington che da anni arma e addestra gli ucraini. Ma anche questo conflitto, se dura molto, scomparirà dagli schermi pur restando trama dei nostri tempi.

Angela Merkel parla di tragedia, nell’intervista del 6 giugno allo «Spiegel», perché lei si sforzò di evitare il peggio: fin dal 2015 si oppose all’invio di armi a Kiev, e con Parigi tentò di conciliare le esigenze russe e ucraine tramite gli accordi di Minsk. Fu boicottata dagli Usa, e Kiev rifiutò l’autonomia, specie linguistica, che gli accordi prescrivevano per le province russofone del Donbass. Oggi la Merkel riconosce che l’ordine di sicurezza europea cui ambiva è fallito, che Putin ha reagito con violenza ingiustificata, ma non si pente: “Se la diplomazia fallisce non è detto che diventi inutile”.

Anche nelle nostre menti la terza guerra mondiale c’è e non c’è; non siamo belligeranti ma combattiamo inviando armi in grado di colpire la Russia; formalmente non c’è stato di eccezione ma i grandi giornali pubblicano liste di cosiddetti “putiniani” perché contrari alla linea degli alti comandi. Cos’altro è questo, se non stato di eccezione e maccartismo. Quanto all’alto comando, non ne conosciamo il volto, l’ubicazione. A seconda delle convenienze si addita Palazzo Chigi, i Servizi, il Copasir, i giornali mainstream, in un immondo scarico di responsabilità.

Tanto per fare un esempio, il «Corriere della Sera» ripete che la pagina del 5 giugno con la lista di proscritti stilata dai Servizi è uscita perché i giornali seri “danno le notizie”. Ma sono state le firmatarie dell’articolo – una di esse vicedirettore – a decidere l’impaginazione piuttosto indecente della notizia in questione e a corredarla di foto segnaletiche che denunciano, per intimidire chiunque scriva sulla guerra, nove “putiniani”. Non tutti i nomi escono dal Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. L’affare non è pulito: per il «Corriere» questa guerra ha da farsi anche in casa, senza troppi riguardi.

Dice il Papa che dobbiamo abbandonare lo “schema di Cappuccetto Rosso, con Cappuccetto che è buono e il lupo che è cattivo”. Che “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto”. Che le idee prive di esperienza sono “eresie”, perché “scollegate dalla realtà umana”: le idee possono essere discusse, ma “quel che conta è il discernimento che porta all’azione”.

Discernere gli eventi era possibile già nel 2014, quando in Donbass insorsero i separatisti russofoni e l’esercito di Kiev contrattaccò assieme alle milizie neonaziste (i neonazisti ucraini dispongono di una trentina di battaglioni, tra cui Azov e Aidar, integrati nell’esercito regolare dopo il colpo di Stato di piazza Maidan). Il 24 febbraio Mosca è intervenuta con innegabile brutalità e ferocia, dice Bergoglio, ma discernere implica che lo sguardo non si appunti solo sul pericolo russo: “Il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi”. Il dramma comprende l’espansione della Nato, come confidato al Papa da un capo di Stato poco prima dell’invasione russa: “Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro”.

Fino a quando i co-belligeranti occidentali non riconosceranno le proprie responsabilità, e resteranno impigliati nello schema di Cappuccetto Rosso e dell’offensiva antihitleriana, la guerra d’attrito in Ucraina continuerà sempre più mortifera: con le forze russe che devasteranno una città dopo l’altra fino a prendersi la riva destra e sinistra del Dniepr e a ridurre l’Ucraina a un torso di Stato, deprivato delle sue industrie, dello sbocco al mare, degli abitanti (l’Onu prevede 10 milioni di profughi). Non è vero che alla fine entrambi i belligeranti saranno perdenti. La Russia avrà perso moltissimo, ma potrà dire di aver conquistato le parti essenziali, industrializzate, dell’Ucraina. L’Ucraina invece sarà uno Stato fallito, grazie alle armi occidentali che hanno rovinosamente prolungato la guerra. Chi in un’Unione europea già flagellata dalla crisi saprà ricostruire città, fabbriche, campi agricoli? E il Donbass: con quali risorse sarà ricostruito da Mosca?

Nonostante le perdite e qualche resipiscenza, Zelensky chiede armi sempre più pesanti ed è in preda al pensiero magico della vittoria. Ma gran parte degli occidentali sa che non sarà così, pur non osando dirlo: in particolare Macron, Scholz e Draghi che ieri erano a Kiev per appoggiare Zelensky ma anche per sondare e propiziare i suoi intenti negoziali. Kiev ha l’appoggio di Polonia, dei Baltici, del Regno Unito, degli Usa, ma anche Washington mostra alcune insofferenze. Alti funzionari Usa si lamentano delle poche informazioni che hanno da Zelensky, sulle perdite e sulle armi disponibili.

Poi c’è la “guerra mondiale a pezzi e bocconi” descritta dal Papa. La Turchia si presenta come mediatrice, ma Erdogan profitta del caos ucraino per annunciare nuovi attacchi sterminatori contro le enclave curde nel nord siriano. Per non disturbarlo e scongiurare il veto turco all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, gli Occidentali tacciono. Intanto Biden s’appresta a riconciliarsi con gli assassini di Khashoggi a Ryad, in cambio di più petrolio.

Per questo è insensato inviare più armi a Kiev. Tra Russia e Europa si apre un baratro tragico. Di disarmo atomico non si parla più da anni. E la retorica secondo cui Mosca ha il monopolio della brutalità criminale non fa che nascondere gli altri conflitti: in Yemen, Kashmir, Palestina, Siria, ecc. Chi li menziona è sospettato di sminuire l’unica guerra che conta. Chi difende l’innocenza di Julian Assange reo d’aver svelato i delitti Usa in Iraq e Afghanistan è considerato un nemico che svia l’attenzione dai “putiniani” incriminati dal «Corriere».

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

È la fine delle illusioni di Stati Uniti, Nato e Ue. Ma una svolta non c’è

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 giugno 2022

Sentendo forse di camminare sull’orlo di un baratro e intuendo forse che la retorica bellicosa altro non era che fame di vento, visto che non cambiava i rapporti di forza nella guerra in Ucraina, Biden ha deciso il 31 maggio di scrivere una lettera aperta a Putin, sotto forma di un commento sul «New York Times». Lo stesso giornale che qualche giorno prima, il 19 maggio, aveva espresso forti dubbi sulla strategia di Washington e alleati, sulla grande illusione di una vittoria ucraina, sull’appoggio incondizionato offerto al presidente Zelensky, su riconquiste territoriali ritenute non più realistiche. Biden ha reagito a questi dubbi inviando a Putin messaggi che contraddicono gran parte delle tesi sostenute dalla Casa Bianca in questi cento giorni di guerra.

Innanzitutto, il Presidente fa sapere che non ha intenzione di spodestare Putin, contrariamente a quanto sbandierato il 26 marzo a Varsavia. Invia armi sempre più esiziali a Kiev, ma dice di non volere una guerra Nato-Russia e comunica che né Washington né gli alleati parteciperanno direttamente al conflitto. La “lettera” presidenziale è indirizzata a Putin, ma il Presidente Zelensky e anche gli europei più bellicosi (Polonia, Baltici) sono in copia. Biden non fa proprie le parole del «New York Times» (“Occorre chiarire a Zelensky che ci sono dei limiti a quanto Stati Uniti e Nato possono fare nel fronteggiare la Russia, e limiti alle armi, al denaro e al sostegno politico che possono fornire. È imperativo che le decisioni del governo ucraino siano basate su una valutazione realistica dei propri mezzi e di quanta distruzione l’Ucraina può sopportare”) ma qualche confuso passo avanti lo compie, anche se siamo tuttora molto lontani da un’analisi fine della storia lunga della guerra ucraina. Analisi che Kissinger fa da trent’anni, che ha ribadito in questi giorni, e che la Nato è incapace di ascoltare.

Biden non arriva alla lucidità di Kissinger, non dice a chiare lettere che l’Ucraina non può vincere, ma tra le righe sembra ammetterlo. Manda in Ucraina missili ancora più pericolosi (gli Himars), continua a immaginare un’unità atlantica che non c’è, sottovaluta il non allineamento di gran parte del pianeta (in Asia, Africa, America Latina) ma non ripete i trionfalismi dei primi mesi, quando promettendo a Zelensky vittorie sicure s’impelagava in un’ennesima guerra per procura.

Naturalmente c’è ancora chi rimastica il linguaggio atlantista delle prime settimane: la pace è possibile solo se i russi si ritirano dal Donbass e restituiscono la Crimea; non bisogna far doni a Putin dividendosi nell’Unione europea o rinunciando, come ha fatto Biden, a inviare missili a lunga gittata in grado di colpire la Russia. Sono gli irriducibili di una guerra a oltranza. Nella migliore delle ipotesi regalerebbero all’Europa (non agli Stati Uniti) un Afghanistan alle porte di casa.

Riannodare i rapporti con la realtà sul terreno di guerra non è tuttavia sufficiente. Serve a negoziare un’eventuale tregua, questo sì: una specie di 38º parallelo coreano in Ucraina, con i russi che restano padroni della Crimea e mantengono il controllo sul Donbass e sui territori che stanno conquistando lungo il Mar Nero. Ma non serve a passare dal cessate il fuoco a un trattato di pace che finalmente includa la Russia nel sistema di sicurezza europeo.

Per riuscire in tale intento gli Stati della Nato dovrebbero esaminare la genealogia del conflitto, riconoscere gli errori commessi negli otto anni di guerra civile del Donbass e prima ancora, nel falso ordine unipolare del dopo-Guerra fredda. Tra gli errori più vistosi: i successivi allargamenti della Nato a Est; l’interferenza statunitense nella politica interna ucraina (semi-colpo di Stato nel 2014, per spodestare dirigenti troppo vicini a Mosca); riarmo massiccio dell’Ucraina a partire dal 2014; esercitazioni Nato in territorio ucraino ancora alla fine dell’anno scorso; ostilità Usa verso gli accordi di Minsk negoziati da Germania e Francia con Ucraina e Russia, che prevedevano una amplissima autonomia anche linguistica del Donbass, mai accettata da Kiev. L’insieme di tali errori non giustifica di certo ma spiega l’invasione russa del 24 febbraio.

Su questi punti non si constata ancora una svolta realistica, né a Washington né nell’Unione europea così come rappresentata da Ursula von der Leyen. Le sanzioni aumentano e le politiche che hanno facilitato l’offensiva russa vengono riconfermate tali e quali, come si evince dall’annunciata adesione di Finlandia e Svezia alla Nato, e dalla decisione di trasformare l’Ucraina in un grande e corrotto deposito di armi, infiltrato da milizie neonaziste e mafie. Non si paragona più Putin a Hitler ma in cambio si trasforma il Mar Baltico, davanti a San Pietroburgo, in uno spazio dominato dalla Nato. È l’umiliazione che Mosca conobbe già nel 1991, quando finì l’Urss e la Russia venne calpestata economicamente (per questo forse sventolano tante bandiere con falce e martello nel Donbass). Il rischio è che esca rafforzata, a Mosca, l’ala oltranzista che in Ucraina avrebbe voluto e vorrebbe non già un’“operazione speciale” ma la mobilitazione generale e la guerra totale.

Fondata nel 1949 per scongiurare aggressioni russe e custodire la pace in Europa, la Nato ha fallito l’obiettivo, visto che l’aggressione infine c’è stata. Anche l’Alleanza Atlantica dovrà un giorno mettere un limite alle proprie grandi illusioni, sanando le radici del conflitto odierno. È un passo non ancora compiuto. Scartato il modello della Seconda guerra mondiale (abbattere il tiranno), barcolliamo verso il modello della guerra ’14-’18, chiamata opportunamente “inutile strage” da Benedetto XV. Dice Dmitrij Suslov, direttore del Centro studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di Economia di Mosca, che la deterrenza atomica ha funzionato: in fin dei conti Zelensky non ha ottenuto la no-fly zone e le armi a lungo raggio che chiedeva. Ma il Dottor Stranamore è sempre possibile, e l’incidente sempre dietro l’angolo.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Sulla guerra la Russia ha due linee diverse. E anche l’Europa

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 maggio 2022

Intervistato più volte da Paolo Valentino per il «Corriere della Ser»a, oltre che dalla trasmissione Piazza Pulita, Dmitrij Suslov è stato chiaro. Nella qualità di direttore del Centro studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di Economia di Mosca, ha confermato l’esistenza di due linee al Cremlino: una favorevole alla guerra a oltranza, che punta alla cattura di Odessa e della provincia prorussa della Transnistria in Moldavia, l’altra che vorrebbe fermarsi al Donbass e ad alcune città conquistate tra cui Mariupol. Suslov appartiene alla cerchia di Putin e si dichiara favorevole alla seconda linea, il cui obiettivo è scongiurare il più possibile la mobilitazione generale: una scelta che i russi digerirebbero male, specie nelle regioni più lontane e indifferenti ai destini europei. È il motivo per cui Putin parla di “operazione militare speciale” e non di guerra, per evitare uno scontento che potrebbe sfociare nella disintegrazione della Federazione russa in caso di sconfitta. La guerra a oltranza diverrà inevitabile se Kiev non farà concessioni territoriali e se insisterà sulla restituzione della Crimea, incorporata dalla Russia nel 2014.

La linea minimalista di Suslov parte dall’idea che Mosca ha perso la prima battaglia – un regime meno atlantista a Kiev – ma non può perdere le regioni del Donbass e dintorni che al momento controlla militarmente: sarebbe in gioco non solo la stabilità della Federazione russa, ma anche il funzionamento dell’atomica come deterrente, cioè come strumento che dissuade le potenze atomiche da una terza guerra mondiale.

Sempre secondo Suslov, le condizioni di un cessate il fuoco (e più in là nel tempo della pace) sono grosso modo tre, indicate a suo tempo da Putin. Primo: neutralità dell’Ucraina (Zelensky l’ha promessa, ma un impegno scritto non c’è). Neutralità significa non solo rinuncia alla Nato, ma abolizione delle milizie neonaziste tipo Azov. Secondo: riconoscimento della Crimea come regione integrata nella Federazione russa. Terzo: riconoscimento dell’autonomia del Donbass. A volte Suslov parla di autonomia, altre di indipendenza. Non sempre lo statuto finale del Donbass è omologato a quello della Crimea.

Una soluzione era a portata di mano nel febbraio 2015, quando furono negoziati gli accordi di Minsk-2 fra Mosca, Kiev, Berlino e Parigi. Suslov afferma che “se gli accordi fossero stati attuati la guerra odierna non ci sarebbe stata”. Il fatto è che l’intesa di Minsk fu prima boicottata poi insabbiata, per volontà non solo di Kiev o di Mosca ma – in prima linea – degli Stati Uniti e della Nato. Per questo si parla oggi di guerra per procura, non di guerra russo-ucraina.

Piazza Pulita, Suslov ha ricordato punti precisi degli accordi di Minsk-2: il punto 10 (ritiro di mercenari e combattenti stranieri dall’Ucraina) e il punto 11 (riforma costituzionale e nuova Costituzione ucraina che sancisca il decentramento, con particolare riferimento a Donetsk e Lugansk). Il punto 11 fa riferimento a un addendum che prevede nei due distretti il diritto all’autodeterminazione linguistica e ampie autonomie economiche, politiche e giudiziarie, compreso il “diritto a cooperazioni transfrontaliere con regioni della Federazione russa”. Sono i due punti cui Kiev si è opposta, negli otto anni di guerra nel Donbass che hanno preceduto l’odierna invasione russa (la guerra civile ha fatto 14 mila morti fra separatisti e governativi).

Ma non è stata solo Kiev a opporsi. Gli accordi di Minsk sono stati negoziati fra Ucraina, Russia, Germania e Francia. Furono pensati come risposta all’invio massiccio di armi a Kiev, fortemente promosso da Washington, ma osteggiato dalla Merkel.

Lo scontro fra Merkel e i rappresentanti Usa avvenne nell’annuale Conferenza di Monaco sulla sicurezza, il 7 febbraio 2015, ed è importante rievocare quel che avvenne allora se vogliamo non giustificare, ma capire la guerra di oggi. “Il progresso di cui l’Ucraina ha bisogno non può essere raggiunto con più armi (…) Sono convinta che i mezzi militari aumenteranno le vittime”, disse la Merkel, che pure aveva approvato sanzioni contro Mosca, dopo l’annessione della Crimea, giudicate da lei stessa “generalmente inefficaci”. Ma questa posizione fu aspramente contestata dai rappresentanti britannici e statunitensi. Joe Biden, allora vicepresidente di Obama, dichiarò che “il popolo ucraino ha il diritto di difendersi”, in sintonia con repubblicani neoconservatori presenti a Monaco come John McCain e Lindsey Graham. Intanto il presidente ucraino Poroshenko chiese assistenza militare alla Nato e la ottenne: “Più forte sarà la nostra difesa, più convincente sarà la nostra voce diplomatica”.

Da allora sono passati più di sette anni, la linea Kiev-Washington ha vinto e la voce franco-tedesca si è affievolita. L’Unione europea è adesso più che mai frantumata, con il blocco nord-orientale (Polonia, Paesi nordici, Baltici) che auspica invii di armi sempre più offensive e che nega ogni concessione territoriale da parte ucraina. Il blocco favorevole alla guerra a oltranza sa di poter contare su Washington ed è fiancheggiato dalla Commissione europea presieduta dall’ex ministro della Difesa, Ursula von der Leyen. Lo stesso ministro che nel 2016 caldeggiava l’aumento delle spese militari tedesche, per portarle al 2% del Pil raccomandato dalla Nato, e che oggi ottiene da Berlino quel che non ottenne allora.

Dopo molte professioni di fede atlantica, il governo Draghi sta tentando di associarsi al fronte – molto indebolito – di Parigi e Berlino. Ha proposto un piano di pace che prevede ampie autonomie per le regioni ucraine occupate dai russi (non è chiarita la questione Crimea). In pratica viene riproposto l’accordo di Minsk, sorvolando sul fatto che Kiev e Washington l’hanno affossato. Il ministro Di Maio auspica una “soluzione all’altoatesina” ma non sa quel che dice. Oggi è in corso una guerra per procura che l’Alto Adige non conobbe. Oggi abbiamo una potenza Usa in declino, che aspira a un ordine mondiale unipolare e non tollera né il polo russo né quello cinese (lunedì Biden ha annunciato interventi militari in caso di minacce cinesi a Taiwan).

Il piano italiano non sembra convincere Mosca. L’ex presidente russo Medvedev l’ha schernito e bocciato. Più possibilista Suslov, secondo cui il piano segnala che Roma è comunque più vicina a Parigi-Berlino che non a Varsavia-Londra. Fin dal 2014 ci sono due linee in Occidente, come ci sono due linee a Mosca. Lo spirito di Minsk è sconfitto, ma non del tutto morto.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

A Kiev l’Ue fa harakiri

di Barbara Spinelli, «TPI – The Post Internazionale», 14 aprile 2022

Come altri Paesi dell’Est Europa che per decenni hanno vissuto ingabbiati nel Patto di Varsavia, i governanti dell’Ucraina avevano in mente come assoluta priorità l’ingresso nella Nato: l’unico punto d’arrivo che dava loro la sensazione di un cambio di pagina decisivo – una volta dissolta l’Unione sovietica assieme al suo impero – e che offriva un ombrello di protezione militare almeno in apparenza automatico (l’articolo 42,7 del Trattato di Lisbona è ritenuto troppo labile in proposito: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”).

L’adesione all’Unione europea era giudicata come un primo passo verso l’orizzonte atlantico, una sorta di corridoio in grado di connettere l’Est europeo alla ben più cruciale America del Nord, oltre che al Regno Unito. Questa era l’Europa sognata in gran parte delle società postcomuniste: non un fine ma un mezzo, non l’abitudine alla convivenza tra popoli che lungo i secoli si erano combattuti in scontri sanguinosi (i fondatori che sono Germania, Francia e Italia in primis) ma una base d’appoggio per spiccare il salvifico, risolutivo salto oltre l’Atlantico.

Adesso che siamo in piena guerra tra Kiev e Mosca l’aspirazione ucraina inevitabilmente si ridimensiona. Il principale obiettivo di Mosca era la neutralità dell’Ucraina e la rinuncia di Kiev all’ingresso nella Nato, ed è stato raggiunto, così come dopo il ’45 fu raggiunto neutralizzando Finlandia e Austria. Ambedue le grandi potenze nucleari vogliono avere attorno a sé una cintura di Stati neutrali, non armati da Paesi avversari o lontani, e lo squilibrio fra Russia e Nord America creatosi con l’allargamento a Est della Nato non poteva durare. La cintura dell’una come dell’altra potenza è chiamata anche sfera di interesse. In America del Nord prende il nome di Dottrina Monroe. La dottrina fu annunciata negli anni Venti dell’800, dopo le guerre napoleoniche: vietava l’intromissione di forze esterne in tutta l’America Latina, isole comprese, e ancor oggi è sacrosanta per le amministrazioni Usa. Carlo Emilio Gadda la chiamò nel 1929 il “campicello di Monroe, chiuso da un leggiadro filo spinato” (in realtà non fu affatto leggiadro, come si vide poi in Cile o Venezuela o Nicaragua o Cuba). Il filo spinato che proteggeva l’URSS e il Patto di Varsavia era spaventoso ma nelle menti dei governanti russi l’idea di una “cintura” neutrale anche se non più spaventosa continua a esistere, e continuerà presumibilmente a esistere anche dopo Putin.

Questo l’equivoco che il primo grande allargamento a Est dell’Unione europea non ha risolto (otto Paesi in tutto, tra il 2004 e il 2013) e che sempre più ha avvelenato le sue relazioni interne, la sua idea di stato di diritto, il progetto pacifico che nel secondo dopoguerra era stato il cemento prima del Mercato Comune poi della Comunità infine dell’Unione. La promessa di includere al più presto l’Ucraina, e contemporaneamente anche la Georgia e la Moldavia che hanno presentato la loro domanda di candidatura il 3 marzo, tre giorni dopo la domanda di Kiev, rappresenta un radicale sbilanciamento dell’Unione a Est, con conseguenze enormi che andranno ben analizzate e se possibile contrastate e riaggiustate, se si vuole che l’UE sopravviva come progetto pacifico i cui interessi non possono eternamente coincidere con quelli oltreatlantici.

L’adesione di Ucraina, Moldavia e Georgia aggiungerebbe agli abitanti dell’Unione circa 51 milioni (ben più degli abitanti polacchi), tutti appartenenti a Paesi che o vivono in piena guerra come nel caso di Kiev, o sono dotati di confini incandescenti con Mosca e immersi in conflitti congelati come Georgia e Moldavia. L’ingresso di Cipro nel 2004 già fu una scelta avventata dei dirigenti UE, se si considera il fatto che l’isola era lungi dall’aver superato il conflitto territoriale con la Turchia. Prossimamente, con l’aggiunta di Ucraina, Georgia e Moldavia, sarebbero ben quattro gli Stati non ancora pacifici che entreranno nell’Unione con un’idea calda delle guerre fredde e con confini instabili oltre che controversi. La natura e l’immagine dell’Unione ne verrebbero alterate in maniera drastica.

Già oggi i Paesi dell’Est – Polonia e Baltici in prima linea – sono nell’Unione con l’idea di cambiarne propositi e ragion d’essere. Non riconoscono pienamente la Carta dei diritti fondamentali, che pure è giuridicamente vincolante essendo iscritta nei Trattati. Non mancano di sottolineare – ogni volta che prendono la parola nel Parlamento europeo o nel Consiglio – che principi e diritti contenuti nella Carta e nei Trattati sono soggettivi, la cui portata giuridica è opinabile. Sempre vedono, nell’Unione, i possibili e temibili tratti del Patto di Varsavia. Era questa d’altronde la posizione congiunta del gruppo di Visegrad, ultimamente sfasciatosi perché l’Ungheria, pur condividendo i giudizi di Polonia e Baltici sui diritti, si è rifiutata di entrare in rotta di collisione con Mosca durante la guerra in Ucraina, e non partecipa né alle sanzioni né a possibili blocchi delle importazioni di gas e petrolio.

L’ingresso dell’Ucraina (il paese più popoloso tra i nuovi candidati) accentuerebbe questa divisione tra “Vecchia” e “Nuova Europa”. Divisione su cui scommise con forza l’amministrazione di George W. Bush, nel 2003 in occasione della guerra in Iraq. Come scriveva Dario Fabbri nel dicembre 2017, su «Limes», tale era la “Nuova Europa nella bellicosa dizione di Donald Rumsfeld, da contrapporre alla censurabile mollezza dell’altra metà del continente. Estesa dalla Slesia al bassopiano sarmatico, dal Baltico al Mar Nero, dai Carpazi alla Bessarabia. Composta da molteplici etnie e confessioni, eppure universo reso culturalmente coeso dalla passata appartenenza all’impero sovietico”.

La divisione è oggi meno visibile, visto che anche la vecchia Europa si è appiattita sulle volontà della Nato e dell’amministrazione Usa, ma nel medio periodo potrebbe tornare a essere non solo visibile ma distruttiva e autodistruttiva. Le prime avvisaglie già sono percepibili: la decisione di Zelensky di rifiutare la visita a Kiev del Presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, considerato “persona non grata” per le passate posizioni favorevoli al gasdotto Nord Stream 2, le critiche dei dirigenti ucraini ai governi europei troppo poco bellicosi o non bellicosi con Mosca, la predilezione evidente di Kiev per l’alleanza con la Gran Bretagna, che pure non è più parte dell’Unione: sono tutti segni che il cambio di rotta nella storia europea è già cominciato. Tra Paesi potenzialmente così diversi una difesa comune e indipendente da Nato e Washington sarà sempre più ardua, e quasi impossibile una comune politica estera su cui fondare ed ergere l’esercito europeo che tanti anelano nel nostro continente senza ben sapere di cosa stanno parlando.

© 2022 The Post International (TPI)

Perché Biden vuole una guerra lunga

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 6 aprile 2022

Ci sono delle grandi trasformazioni che si fanno a caldo, nel mezzo di guerre e di propagande feroci e prolungate.

Solo dopo molto tempo le trasformazioni o rivoluzioni vengono considerate inevitabili, e in alcuni casi necessarie. Parliamo della fine della dominazione geopolitica degli Stati Uniti, del possibile tramonto dell’egemonia globale del dollaro, infine di un conflitto tra produttori di gas e petrolio che scalzando gli abituali protagonisti sembra avvantaggiare in primis gli Stati Uniti, potenziale esportatore numero uno che profittando dei torbidi ucraini promette di rifornire l’Europa di gas naturale liquefatto in caso di blocco delle forniture russe (il Gnl è a tutt’oggi il più costoso e il più inquinante che esista).

Tutto questo sarà possibile se la guerra in Ucraina continua a lungo, come ha ufficialmente auspicato Biden quando non si è limitato a chiamare Putin un macellaio, ma ha anche indicato le aspettative della sua amministrazione (non degli europei e dei civili ucraini, che in un conflitto protratto hanno tutto da perdere): “Per vincere questa guerra – così Biden a Varsavia – non ci vorranno giorni o mesi. Sarà una lunga lotta”, per come somiglia alla “battaglia per la libertà contro l’Urss, che durò non giorni o mesi ma anni e decenni”.

Chi vorrebbe d’altronde trattare col Macellaio, anche se un giorno dovrà? In Europa nessun governo, se si escludono Ungheria e Serbia. Fuori dall’Europa invece quasi tutti: in Asia, Africa, Paesi arabi, Israele, America Latina. Nell’Unione europea i popoli sono contrari a sanzioni e invio di armi, ma i governanti se ne infischiano, comportandosi come fossero personalmente in guerra. Draghi per esempio avviluppa l’obiettivo di pace in una delle sue frasi più sibilline e malriuscite: “Non siamo in guerra per seguire un destino bellico”, il che vuol dire che prescindendo dal destino, di cui nessuno di noi sa un granché, l’Italia è in guerra.

Non che i suoi colleghi europei siano meno sibillini, ma pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c’è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai. Giustamente Calenda lo invita a ragionamenti meno sgangherati sulla dipendenza italiana dal gas e petrolio russi).

Verrà forse il giorno in cui sapremo qualcosa di meno impreciso su quel che è successo a Bucha presso Kiev: chi ha ucciso in quel modo? I russi hanno voluto lasciare questo ricordo nel ritirarsi dalla città il 30 marzo, cioè 4 giorni prima della scoperta del macello? Perché? Come mai il sindaco di Bucha ha annunciato il 31 marzo che in città non c’erano più truppe russe e non ha accennato ai civili uccisi in strada con le mani legate dietro la schiena? In attesa di prove genuine, ci concentreremo dunque sulle grandi trasformazioni indicate all’inizio.

Abbiamo detto del gas liquefatto nordamericano. Resta da interpretare in questo quadro la richiesta russa di pagare le esportazioni energetiche in rubli e non più in euro o dollari. È una replica alle sanzioni sempre più pesanti subite da Mosca e anche all’intenzione Usa di sostituirsi in Europa ai fornitori russi. Gli europei hanno reagito denunciando giustamente una violazione degli accordi di forniture, ma senza badare a due elementi cruciali. Primo: le vie d’uscita esistono (si paga in due tappe: inizialmente in euro, convertiti poi in rubli). Secondo elemento: è una contromossa che non cade dal cielo, era nell’aria da anni. La posta in gioco è l’egemonia del dollaro come moneta di riserva globale: il suo tramonto potrebbe essere accelerato dalla guerra in Ucraina.

L’inevitabilità di questo declino ha le sue ragioni d’essere. Non si può escludere la Russia da tutte le transazioni finanziarie (sistema Swift), bloccare le riserve della sua Banca centrale (643 miliardi di dollari), comminare sanzioni ad infinitum, puntare a un cambio di regime al Cremlino, senza prevedere che prima o poi questa politica danneggerà il fronte occidentale, Europa in primis, ma anche Washington, che sta infiammando il conflitto sperando che Putin e tutti i filistei cadano d’un sol colpo come colonne spezzate d’un tempio.

Non esiste più da tempo l’ordine creato nel secondo dopoguerra a Bretton Woods, non c’è più fiducia nella stabilità del dollaro come riserva monetaria internazionale, visto che la moneta Usa riflette le volontà e gli interessi statunitensi da quando si è sganciata dall’oro. L’alternativa ancora non c’è. L’unica moneta che oggi ha elementi di stabilità, e che sia pure marginalmente tende a divenire rifugio, è quella cinese: lo yuan.

Si capisce lo sgomento ma non la sorpresa degli europei: l’egemonia del dollaro è messa in questione da almeno 13 anni, e l’euro è troppo schiacciato sulla geopolitica Usa per rappresentare un’alternativa allettante come moneta di riserva internazionale. Già nel 2008 Mosca e Pechino reclamarono la “de-dollarizzazione” del sistema monetario internazionale e cioè una diversa unità di conto, che riflettesse l’interesse di altre potenze commerciali e non fosse al servizio dei soli interessi Usa. Era una rivolta contro la militarizzazione del dollaro e la domanda di un’unità di conto multipolare: un “paniere” di varie monete, in parte agganciato all’oro.

Ne parlò nel marzo 2009 l’allora governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, che elogiò l’unità di conto (chiamata Bancor) immaginata negli anni 40 da Keynes e affossata poi dagli Usa a Bretton Woods. Il governatore della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, definì il dollaro uno “strumento inaffidabile” nel maggio 2019. Anche Brasile e India auspicano la de-dollarizzazione. In Italia ci fu chi appoggiò questa rivoluzione dei rapporti di forza monetari: nel febbraio 2010, Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell’Economia del governo Prodi, riesumò Bancor e disse che “l’orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Riserva federale Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali”.

Dopo le rovine del Covid, la guerra in Ucraina sta cambiando i rapporti tra Stati, con effetti sconquassanti nella Russia che l’ha scatenata e in gran parte del pianeta che ne soffrirà le conseguenze (blocco delle forniture di energia, cibo, concimi, metalli). Ma con effetti tutt’altro che promettenti a Washington, che pretende di dominare il pianeta con quest’ennesima guerra per procura.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

La nonna di Biden e il secolo di ferro

di martedì, Marzo 29, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 29 marzo 2022

Questa volta il divario tra gli interessi europei e statunitensi è netto. In un comizio a Varsavia, sabato, Biden ha definito Putin un “macellaio” – in precedenza l’aveva chiamato killer, dittatore sanguinario, criminale di guerra– per poi decretare: “Per l’amor di Dio, non può restare al potere!”.

Il ministro degli Esteri Blinken ha subito corretto, lo staff della Casa Bianca ha tentato una goffa retromarcia, Macron nelle vesti di Presidente di turno dell’UE si è dissociato, ma le parole presidenziali restano e palesano l’obiettivo Usa in Ucraina: un “cambio di regime” a Mosca, lo spodestamento di Putin. È la strategia del caos che Washington adotta da quando fantastica di aver stravinto la guerra fredda, di poter violare i patti del 1990 con Gorbaciov, di dominare il mondo con destabilizzazioni belliche regolarmente sconfitte: in ex Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. È la prima volta che la Casa Bianca punta al regime change di una potenza atomica (6.000 testate). I tabù della dissuasione nucleare crollano, l’impensabile che fondava la deterrenza (la cosiddetta distruzione mutua assicurata) diventa pensabile. Non è un caso che l’escalation di Biden sia avvenuta in Polonia, che vorrebbe un intervento Nato per difendere l’Ucraina dall’invasore russo. Se per settimane Zelensky ha insistito nel chiedere la no-fly zone senza badare al diniego Nato e Ue, è perché alcuni Paesi – Varsavia in primis – lo spingevano in tal senso, contando sulla Casa Bianca. Sin da quando è atterrato in Europa Biden si è comportato da padrone (incoraggiato dall’Ue che non s’è vergognata di invitarlo al Consiglio europeo) ma appena giunto in Polonia ha perso le staffe. Rivolgendosi all’ottantaduesima Divisione Aerea dell’esercito Usa, non ha parlato di vie d’uscita dal conflitto, non ha avviluppato in una retorica di pace l’aumento delle spese militari. Queste dissimulazioni sono affidate agli europei mentre Biden no, non dissimula, parla della propria nazione come “principio organizzativo attorno al quale si muove il resto del mondo – ossia del mondo libero”. Evoca l’icona della “nazione indispensabile” raffigurata nel 1998 da Madeleine Albright, ministro degli Esteri di Clinton e principale artefice dell’estensione Nato (“Non abbiamo bisogno che la Russia dia il suo accordo all’allargamento”, disse a chi obiettava).

Biden è intriso di teologia politica: il “mondo libero” è votato a intervenire contro il Male. La guerra va oltre Kiev, ha una giusta causa ed è lotta “fra libertà e autocrazia, fra democrazia e oligarchi”: Putin non ha in mente l’Ucraina ma vuol demolire la democrazia. A conclusione dell’appello ai paracadutisti ricorda il nonno, che l’incitava a “mantenere la fede”. Ma soprattutto la nonna, che rincarava: “No, diffondila!” (spread it).

Che importa se nel frattempo il pensiero della Chiesa cattolica non è più quello di Tommaso d’Aquino. Se ha abbandonato, da Giovanni XXIII in poi, l’idea di guerra giusta. Papa Francesco denuncia la follia del riarmo occidentale, e di una guerra per procura scatenata colpevolmente da Putin senza negoziati in vista fra grandi potenze (Usa, Russia, Cina), ma Biden non se ne cura. D’altronde ha ammesso che Washington arma l’Ucraina da anni (2 miliardi di dollari, di cui 1 miliardo nelle ultime settimane).

Noam Chomsky ricorda che il culmine fu raggiunto il 1º settembre 2021, poco prima dell’aggressione russa, quando fu firmata la Dichiarazione Congiunta sulla Partnership Strategica Usa-Ucraina. Il documento annunciava l’apertura delle porte Nato all’Ucraina, e riforniva Kiev di armi oltre che di un “programma di robusto addestramento ed esercitazione per sostenere lo statuto ucraino di partnership rafforzata” (NATO Enhanced Opportunities Partnership, preludio dell’adesione, concesso anche alla Georgia). Alla Dichiarazione Congiunta fece seguito una vasta esercitazione Nato in terra ucraina (“Rapid Trident”) che partì dalla base di Yavoriv presso Leopoli, e cui partecipò anche l’Italia. La Dichiarazione Congiunta rappresenta il culmine di un’espansione Nato a Est cominciata dal giorno in cui Clinton violò l’impegno di Bush padre di non espandere la Nato. Una violazione contestata aspramente da diplomatici di primo piano come Henry Kissinger, George Kennan, Jack Matlock (ex ambasciatore Usa a Mosca), William Burns (attuale capo della Cia).

Le guerre di religione tra Bene e Male hanno una natura dualistica e conducono immancabilmente alla morte: l’Europa lo sa meglio del Nord America, perché i suoi popoli le hanno vissute nel ’500-600 (15 milioni di morti) e le conclusero quando capirono che la pace era possibile a una sola condizione: che non vi fosse la vittoria di una fede sull’altra, e che il potere politico non si diffondesse come fosse una fede. Oggi traversiamo un simile “secolo di ferro”, e Biden che vuol atterrare Putin profittando delle sue dissennatezze belliche lancia segnali anche alla Cina, a Taiwan, ai pochi alleati che gli restano nell’estremo oriente. L’India di Modi sta cautamente distanziandosi e nel resto del pianeta – Asia, Africa, paesi arabi, America latina – si moltiplicano gli avversari delle sanzioni e del riarmo, che promettono fame e prezzi energetici proibitivi. Biden assieme a gran parte dell’Europa non sembra aver imparato nulla della storia, né quella antica né quella recentissima.

Ignoranza e mancanza di memoria recente sono forse i dati più significativi della politica atlantica di fronte a un’aggressione russa certamente spropositata, ma che poteva essere evitata e potrebbe ora essere affrontata con altro spirito, di difesa del popolo ucraino e di negoziati su alcuni punti precisi: non solo la neutralità (scritta stavolta nero su bianco, non promessa come ai tempi di Gorbaciov) ma anche la rinuncia al riarmo in Est Europa, alle guerre di regime change. Se questo secolo è di ferro come nel ’500-600, urge un trattato di Vestfalia: un ordine che riconosca gli Stati a prescindere dalle fedi che pretendono di diffondere con le armi.

Quanto all’Unione europea, non è tramite il riarmo che troverà pace, ma proponendo tregue che non siano percepite come sconfitte epocali né a Kiev né a Mosca e riconoscendo che i propri interessi non coincidono con quelli statunitensi. La Russia è una superpotenza atomica, ci è geograficamente e culturalmente vicina. La guerra di Putin in terre ucraine l’allontana dall’Europa e rischia di renderla molto dipendente da Pechino. È con questi dati di fatto che ci troviamo a dover fare i conti.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Ucraina, l’Ue ignora i nostri interessi

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 21 marzo 2022

Circola un numero talmente spropositato di menzogne, sulla guerra in Ucraina, che pare di assistere a un contagio virale. I ragionamenti freddi (o realisti) vengono sistematicamente inondati da passioni bellicose e molto calde.

L’onda travolge le ricostruzioni del conflitto, e anche i fatti elencati dagli esperti militari. Perché ripercorrere la storia dei rapporti russo-ucraini, o ricordare le tante guerre Nato, quando il dualismo teologico-politico è così favolosamente chiaro: lì il Male, qui il Bene – lì Satana, qui arcangeli in tute mimetiche – lì il “dittatore sanguinario” e “criminale guerra” (epiteti escogitati da Biden), qui i combattenti della civiltà.

In genere si replica che in guerra è sempre così: propaganda e controverità imperversano in tutti i campi –si ripete – e già è una prima menzogna perché gli italiani e l’UE non sono in guerra, non vogliono andarci e potrebbero dunque concedersi il lusso di analisi più vicine alla realtà, meno interessate al proselitismo bellico, tendenti più all’asciutto che all’umido. Gli Stati Uniti invece vogliono che la guerra continui, anche se per procura. D’altronde è questo lo scopo di Biden: “Far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo” (4-2-21).

Ne consegue che gli interessi europei e americani divergono, coincidendo solo nella retorica. Per l’Europa e l’Italia il proseguimento bellico è una sciagura, sia che Putin perda sia che vinca. Avranno un caos che durerà decenni ai confini orientali. E se l’Ucraina entra nell’Unione gli equilibri si sbilanceranno a Est ancor più di quanto già lo siano, da quando l’UE ha incorporato Paesi più interessati alla Nato che all’Europa (soprattutto Polonia e Baltici). L’egemonia nell’Unione sarà esercitata dall’Est, con Berlino che fungerà da arbitro avendo deciso di ergersi a potenza militare di primissimo piano. Parigi per ora si limita a commentare. Il Sud è muto. Solo i produttori di armi guadagneranno.

Di qui la menzogna più vistosa: ovunque vengono aumentate a dismisura le spese militari, si intensifica il riarmo dell’Ucraina (Biden promette 1 miliardo di dollari), e l’Unione europea si trasforma in patto bellico, proclamando però che mai invierà soldati e mai chiuderà i cieli agli aerei (no-fly zone), affinché non scoppi l’Armageddon nucleare. Dai nostri paesi non partono soldati ma mercenari e contractor sì, molti: almeno 20.000 occidentali di cui 4.000 nordamericani, secondo fonti ucraine. Un guazzabuglio di guerra-non guerra insomma, che resuscita la Nato e abbassa l’Europa potenza pacifica.

Il contagio genera altre controverità, come fossero varianti virali. Tra le più fuorvianti: la supposta condanna del Cremlino espressa “quasi all’unanimità” dall’assemblea Onu, il 2 marzo, e l’esistenza di una “comunità internazionale compatta” nel penalizzare Putin. Più che una menzogna è un’impostura. Dalla “quasi unanimità” vengono esclusi Cina, India, Iran, Pakistan, parte dell’America Latina, parecchi paesi arabi, che si sono astenuti. Si tratta di più di 3 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione terrestre. Segno che la “comunità internazionale” e l’“ordine mondiale” minacciato da Mosca sono pure invenzioni.

Quel che esiste è un disordine globale che il potere unipolare statunitense ha propagato aprendo più scenari di guerra (Afghanistan, Libia, Siria, Somalia, ecc.) e spostando la Nato fino alle porte della Russia, per volontà dei Presidenti Usa a partire da Clinton. Quel che esiste è la volontà statunitense di perpetuare l’ordine unipolare creatosi dopo la fine della guerra fredda, fallito miseramente in Iraq e Afghanistan. Un ordine che Biden vorrebbe resuscitare usando l’Ucraina, per meglio sfidare Russia e poi Cina.

All’Europa converrebbe aprire con la Russia una trattativa che preveda la fine delle guerre in Ucraina e la costruzione nel medio termine di un sistema comune di sicurezza, indipendente dalla Nato e dalle strategie Usa. Dire che “Putin non vuole la pace”, come annunciato da Draghi, senza offrire la fine delle sanzioni in cambio della cessazione delle ostilità, rispecchia la teologia politica della Nato, non i nostri interessi. Ormai dovrebbe essere chiaro che l’identificazione dell’UE con l’Alleanza atlantica e con le aspirazioni unipolari statunitensi produce guerre e caos ovunque. La terra è abitata da una moltitudine di potenze e paesi con aspirazioni e visioni contrastanti, che devono imparare a coesistere senza scannarsi e concentrandosi sul punto essenziale che è la sopravvivenza del pianeta. L’ordine futuro non potrà che essere multipolare: qualcosa di ben più complesso del multilateralismo praticato da Stati che già possiedono comuni obiettivi.

La genealogia della guerra ucraina non è ignota. Comincia quando la Nato promette di accogliere Kiev, nel 2008 a Bucarest; continua con la destituzione nel 2014 del Presidente Janukovyc, colpevole di aver ribadito la neutralità scelta dopo la fine dell’Urss; prosegue nel 2019 con l’adesione alla Nato iscritta nella Costituzione. Sempre nel 2014 scoppia la guerra nel Donbass, e il neonazista battaglione Azov viene inserito nell’esercito regolare ucraino. Gli accordi di Minsk-2 chiedevano che venissero concesse vere autonomie al Donbass, anche linguistiche, ma Kiev si opponeva.

A questi eventi si aggiungano le manovre Nato sul territorio ucraino. Nel centro di addestramento di Yavoriv, ai confini della Polonia presso Leopoli, la Nato addestra da anni l’esercito ucraino, fornisce armi e know how. È partita da qui l’ultima esercitazione – la più intensa – nel settembre 2021 (“Rapid Trident”). Hanno partecipato 15 paesi tra cui l’Italia. Nel giugno-luglio 2021 si era svolta un’esercitazione nel Mar Nero guidata da USA e Ucraina, di fronte alla Crimea (nome in codice ”Brezza di Mare”).

Con questo non neghiamo che Mosca sia l’aggressore. Non supponiamo nemmeno che Putin faccia i propri interessi. Per ora è riuscito a resuscitare la Nato, a incollare UE e amministrazione Usa, a spostare a Est il baricentro dell’Unione, a creare nel centro Europa una potenza tedesca super-armata, più legata di prima al fronte Est. E come potrà nascere un’Ucraina pacifica, dopo simile guerra? Come finanziare la ricostruzione delle sue città, della sua economia, dello stesso Donbass, dopo tanta devastazione? Come evitare una dipendenza da Pechino che rischia di seppellire l’idea russa di un’alleanza tra pari? Sono domande cui Putin e i suoi successori faticheranno a rispondere, quali che siano le genealogie della guerra in corso.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.