Recent Posts by Redazione

L’atlantismo di Draghi impotente in Ucraina

di mercoledì, Febbraio 23, 2022 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 febbraio 2022

Salvo ripensamenti più o meno notturni (è una specialità di Enrico Letta, quando prima approvò poi rifiutò la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale) sembrerebbe che il “campo largo” potrebbe sostituire l’alleanza prospettata a suo tempo fra Democratici e Movimento 5 Stelle di Conte. Essendo largo, il campo includerebbe Pd, Lega, Forza Italia, Azione, Italia Viva e micro-centristi vari. Resterebbero fuori 5 Stelle e Fratelli d’Italia, che Renzi e Calenda giudicano equivalenti. Negli anni ’70 l’Italia fu chiamata alla riscossa contro gli “opposti estremismi”. Prima ancora, nel secondo dopoguerra, fu imposta la “conventio ad excludendum”: i comunisti andavano esclusi dai governi, per volontà non degli elettori ma di Washington e della Nato.

Quello scenario si ripete, adesso che la guerra fredda ricomincia e addirittura si riscalda in Ucraina, solo che la quarantena politica – morto il Pci – è riservata al leader di 5 Stelle: inaffidabile perché ebbe la sfrontatezza di aprire alla Via della Seta e di nutrire dubbi sulle sanzioni. Ecco dunque rispuntare i raggruppamenti centristi, sempre rassicuranti perché sempre allineati: quadripartiti, pentapartiti, e via allargando nella speranza che alle prossime elezioni il M5S perda più voti di quel che già perde per conto proprio.

Se nel descrivere la resurrezione di vecchi scenari citiamo Nato e Usa è perché il nuovo “campo largo” (si dice centrosinistra ma s’intende centrodestra) è andato rafforzandosi man mano che cresceva la tensione Usa-Russia sull’Ucraina. Tensione sfociata nella rabbiosa mossa di Putin che riconosce e garantisce militarmente l’indipendenza delle regioni del Donbass (Donec’k e Luhans’k) e alimentata per anni dall’afonia europea e, in Italia, dall’accresciuto appiattimento sulle bellicose posizioni statunitensi e britanniche. Macron almeno si è adoperato perché i negoziati riprendessero; Scholz ha sospeso ieri l’autorizzazione del gasdotto Nord Stream 2 – un disastro per gli europei – ma prima aveva almeno ammesso che l’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato “non è all’ordine del giorno” (cruciale obiettivo strategico di Putin). Draghi invece niente. Ha perso il treno del pomposamente annunciato viaggio a Mosca, e ieri ha definito “inaccettabile” la mossa russa: aggettivo futile, perché chi dice inaccettabile senza metter subito mano alla  pistola ha già accettato. Prima ancora, il 17 febbraio, ha emesso commenti piuttosto sbalorditivi. Nessun accenno alle richieste di Putin, né agli accordi di Minsk-2 (ampia autonomia delle autoproclamate Repubbliche di Donec’k e Luhans’k, mai concessa da Kiev), ma in cambio smilzi appelli al dialogo e un peculiare compiacimento: “Il punto numero uno è riaffermare l’unità atlantica. Questo è forse il fattore che ha più colpito la Russia! Inizialmente ci si poteva aspettare che essendo così diversi avremmo preso posizioni diverse, invece nel corso di tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che diventare sempre più uniti. Il dispiegamento di quest’unità già di per sé è qualcosa di importante”.

Il Presidente del Consiglio dimentica che nel 2003 Parigi e Berlino si scontrarono con gli Usa e non parteciparono alla rovinosa guerra in Iraq. Lo spirito e gli interessi europei furono salvaguardati da un memorabile intervento all’Onu del ministro degli Esteri Dominique de Villepin, e il conflitto con Washington fu benefico. L’unità atlantica non è rassicurante a priori, nei rapporti con Mosca o anche Pechino. E per quanto ci riguarda: se la Nato non rispetta gli interessi di tutti gli europei vale solo il primo paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra”.

Non pochi commentatori, istupiditi dalla “fermezza atlantista” di Palazzo Chigi, scoprono con otto anni di ritardo che nel Donbass c’è guerra tra forze ucraine (compresi battaglioni neonazisti) e popolazioni russofone che Kiev si limita a definire russofile. Temo che conoscano poco la situazione, nonostante le puntuali precisazioni offerte da esperti per niente estremisti come l’ex ambasciatore Sergio Romano o lo storico Gastone Breccia (“La Nato non è stata concepita per arrivare fino al Dnepr. Riconoscere le ragioni geopolitiche dell’avversario e i propri limiti strategici non significa tradire i principi fondativi dell’Occidente, ma soltanto applicarli con realismo e saggezza”).

Su questo punto Letta jr. è più realista del re. Il 25 gennaio giudicò improponibile la candidatura al Colle di Franco Frattini – ventilata da Conte e Salvini– per il solo fatto che l’Improponibile menzionava i millenari interessi russi (evocati con insistenza da Putin, lunedì) e sconsigliava altri allargamenti della Nato, in memoria delle promesse fatte a Gorbachev nel 1990.

Se così stanno le cose tuttavia, e se anche in politica interna il patto Pd-M5S si sbriciola, sarebbe ora di smettere il termine “centro-sinistra”. La sinistra non c’è, nel campo largo detto nuovo centro-sinistra. L’attributo non può essere accampato a vanvera per l’eternità. E non perché Conte rappresenti la sinistra. Ma su alcuni punti la tiene in vita: sul lavoro precario, il salario minimo, la corruzione, la giustizia, il reddito di cittadinanza, e non per ultimo sulla visione di un ordine mondiale multipolare, che metta fine all’unipolarismo Usa e al suo costante bisogno di nemico esterno. Il campo largo liquida questa sinistra, per sintonizzarsi con un atlantismo che cura interessi industriali-militari contrabbandandoli per Valori. Della storia russa (Leitmotiv significativo nel discorso di Putin) Italia e Occidente non sanno più nulla, da quando Clinton e Obama vollero allargare la Nato a Est. Nell’agosto 1991 Bush padre avversò l’indipendenza dell’Ucraina; nel 2014 Helmut Schmidt ricordò che “fino ai primi anni ’90 l’Occidente non dubitava che Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del Cremlino è comprensibile”. Sono saggezze perdute, da ritrovare.

Le larghe intese –la formula Draghi senza Conte – fanno comodo a tutti coloro che ritengono bifolco ogni partito che non abbia, come unica cultura, quella “del governare”, non importa se nelle vesti di vassalli. Fa bene Conte – definito sull’«Espresso» “un ambizioso avvocato, scialbo e opportunista, privo di afflato politico”– a rispondere che “creare accozzaglie per puntare solo alla gestione del potere senza la reale prospettiva di un governo che serva davvero a cambiare il Paese a noi non interessa”. Si spera che non interessi troppi dirigenti, nel suo partito.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Quirinale, menzogne e Amarcord

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 febbraio 2022

Neanche un briciolo di imbarazzo nei tanti commenti che giudicano l’Italia salvata dalla doppia medicina che le è stata inflitta.

Sergio Mattarella al Quirinale per 14 anni e Mario Draghi che resta a Palazzo Chigi, azzoppato dalla mancata ascesa al Colle ma pur sempre il Migliore di tutti. L’esecutivo Draghi è una creazione di Mattarella e senza Mattarella pareva evidentemente improponibile. Ogni alternativa è stata bollata in partenza, come disonorante. Si salva solo Giorgia Meloni, che pensa alle legislative e sa che al di là delle baruffe partitiche ci sono elettori da convincere. Pur rimanendo all’opposizione aveva approvato con Salvini la candidatura di Elisabetta Belloni, proposta da Conte e Enrico Letta, fino a quando arrivò il siluro dello stesso Letta, soggiogato da Renzi e renziani del Pd.

Non poteva andare altrimenti, proclamano compiaciuti i principali editorialisti, nonostante le loro previsioni siano tutte andate a buca. Draghi che con Mattarella aveva affossato Conte per poter poi trasferirsi al Colle non ha vinto la scommessa, come tanti avevano fantasticato, e tuttavia resta il campione in assoluto anche lì dov’è: magari proverà la prossima volta. Mattarella che aveva ripetutamente dichiarato di volersene andare – sino a mettere in scena il trasloco con gli scatoloni – resta al suo posto come se nessuna alternativa fosse esistita. Perfino Enrico Letta, rivelatosi succube di Renzi, riceve misteriosamente la laurea del vincente.

Facile dire che non c’era alternativa, quando nessuna è stata messa alla prova e tutte sono state dichiarate fasulle. Dichiarate da chi? Perché? Qualcuno potrebbe spiegare in maniera convincente perché davvero NO Frattini (l’atlantismo è stato un pretesto ignominioso), NO Belloni, e poi NO Casini? (la domanda non implica simpatia, ovviamente).

Non è detto che gli italiani apprezzino questo copione visibilmente già scritto in anticipo, forse addirittura fin dai giorni del conticidio – o Mattarella o Draghi, così pare volessero i mercati, l’Europa, la Nato e chissà quale altro fantasma. Altra via non c’era anche quando palesemente esisteva. Era possibile eleggere Belloni, per esempio, si poteva almeno provare. Invece si è provato solo con Elisabetta Casellati – la più vanitosa, la più rampante tra i candidati, perdente per forza essendo sostenuta solo da parte delle destre. Si dice così spesso che bisogna volere e tentare l’impossibile, ma qui è il possibile che non è stato né tentato né voluto.

Sicché ora prevale una strana euforia. Mattarella ha ricevuto 85 applausi, quasi sempre in piedi. E visto che gli occhi dei commentatori si appannano commossi alla sola locuzione “standing ovation”, si coglie l’occasione per dire che proprio così – con applausi “scroscianti” – si sono espressi gli italiani: a novembre al San Carlo di Napoli, a dicembre alla Scala.

Si fa presto a dire “gli italiani”, nota giustamente Tomaso Montanari. Non è il popolo che osannava a Napoli e Milano – il popolo che esercita la sovranità secondo la Costituzione – ma una élite assai ristretta. I parlamentari applaudono come mai prima e l’unica cosa cui non pensano è quella essenziale: come saranno valutati dai cittadini, quando si voterà. L’affluenza nelle politiche del 2018 già era in calo (72,9% per la Camera; 72,9% per il Senato), ma alle ultime amministrative è stato un tracollo, questo sì scrosciante: l’astensione ha superato il 50% al secondo turno.

Probabilmente l’astensione sarebbe stata altissima già nel 2018, se non ci fosse stato il Movimento 5 Stelle a smuovere i cittadini con parole nuove e a incanalare le collere. Ma secondo la vulgata i 5 Stelle erano populisti: si erano indignati con Mattarella quando questi respinse Savona ministro dell’economia, ingiustamente sospettato di volere l’uscita dall’euro; avevano flirtato con i gilets jaunes (un vasto movimento contro le politiche economiche di Macron, specie fiscali, non riducibile a mera sedizione violenta). I votanti 5 Stelle non erano graditi: molto meglio se gli italiani non andavano proprio più alle urne. La vulgata dice ancora che Di Maio è ben incuneato nei Palazzi e dunque “molto maturato”. Stavolta gli elettori del M5S diserteranno in massa, nonostante gli sforzi immani di riconquista territoriale e vera maturità movimentista intrapresi da Conte.

Molti escono ammaccati da questi tempi di pandemia e di emergenza, a cominciare da Draghi che nella conferenza stampa di fine anno aveva sostenuto che la sua missione era finita, nonostante la pandemia fosse ben viva e le disuguaglianze sociali crescessero. Tanto più inane parlare di “crollo del sistema”, qualora Mattarella non fosse stato rieletto (parola di Pierluigi Castagnetti): uno storcimento della realtà che sta divenendo patologico. Non sarebbe crollato alcun sistema, se Mattarella non avesse fatto il bis. Se fosse vero, si può ragionevolmente supporre che non avrebbe preparato gli scatoloni. Oppure tutto era menzogna, sin da principio: Mattarella che giudicava costituzionalmente anomali due settennati; Draghi che riteneva felicemente compiuta la missione e difendeva la centralità del Parlamento; Enrico Letta che si travestiva da Ciccio Ingrassia, urlava dall’alto dei rami “Voglio una donna!” e poi però in un baleno ci ripensava, aspettando che la suorina-nana lo tirasse giù dall’albero come in Amarcord.

Il crollo del sistema è dato per sicuro se chi governa non si dice europeista, atlantista, e rapido nel decidere. Nonostante questo Mattarella ha detto alcune cose più che giuste, il 3 febbraio alle Camere: ha detto che “poteri economici sovranazionali tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico”; ha chiesto che “il Parlamento sia sempre posto in condizione di poter esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti del governo; e che “la forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi”. È un buon programma. Non risponde del tutto al profilo di Draghi.

Immutato rimane, di contro, il silenzio italiano sul ricorso al nucleare e al gas, definite energie pulite dalla Commissione Ue, su pressione di Macron. E rimane la cecità sui respingimenti in Libia dei migranti. Oltre 170 organizzazioni italiane, europee e africane hanno lanciato in questi giorni un appello affinché sia revocato il memorandum Italia-Libia, contrario alle leggi internazionali contro le espulsioni collettive sui rifugiati. Anche su questi punti i governanti sono tutt’altro che Migliori.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Se non sei atlantista al Colle non ci vai

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 gennaio 2022

È bastato che Franco Frattini dicesse alcune cose sensate sulla crisi ucraina e sulla russofobia regnante in Occidente, perché il suo nome – suggerito fugacemente da Conte e Salvini nei giorni scorsi – scomparisse come per magia da tutte le rose dei candidati alla Presidenza della Repubblica.

Un grido di sdegno si è subito levato, proclamando che il futuro capo dello Stato o sarà geneticamente atlantista, o non sarà. Dovrà sostenere Kiev contro l’aggressore russo, incondizionatamente. Non dovrà muover dito perché l’inane riarmo dell’Ucraina e la seconda guerra fredda con la Russia – una messinscena geopolitica per Washington, una catastrofe per l’Europa – finalmente cessino. Dovrà agire e reagire come se l’Ucraina già fosse parte dell’Alleanza atlantica o dell’Unione europea.

Il primo grido di sdegno è venuto da Enrico Letta, forte dell’appoggio zelante di Matteo Renzi: “Sono preoccupato per la situazione tra Ucraina e Russia e dobbiamo difendere l’Ucraina. Abbiamo bisogno di un profilo ‘atlantico’”, ha scritto in un tweet, virgolettando per ignoti motivi l’aggettivo atlantico. Ha ripetuto poi il dolente monito in un’intervista alla Cnbc, come se la candidatura dell’intruso russofilo fosse realmente esistente. È a quel punto che la già pallida figura di Frattini è del tutto svanita, come in certe fotografie ritoccate dei tempi di Stalin. Per meglio puntualizzare è scesa in campo anche Lia Quartapelle, responsabile Pd per gli affari internazionali ed europei: “I venti di guerra che soffiano dall’Ucraina ci ricordano che all’Italia serve un o una Presidente della Repubblica chiaramente europeista, atlantista, senza ombre di ambiguità nel rapporto con la Russia”.

Si ripete così dopo poco più di tre anni il gran rifiuto opposto dal Colle a Paolo Savona, designato ministro dell’Economia dal Conte-1. Il no di Mattarella fu netto: il Quirinale non poteva digerire un esponente che fosse “visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro”. Anche in questo caso Savona scomparve in un baleno dalle foto dei ministrabili. Savona non auspicava l’uscita dall’euro, limitandosi a prospettare una profonda revisione dell’architettura economica europea, ma che importa la verità, quel che conta è mostrarsi muscolosi gridando al lupo.

Fin da quando entrò a Palazzo Chigi – e già aspirando al Quirinale – Mario Draghi mise dunque le mani avanti: si disse “convintamente europeista e atlantista”, visto che le alte e altissime cariche si conquistano con questa carta d’identità. È segno che l’Italia non può permettersi critiche, all’Unione europea e ancor meno alle ormai confuse e convulse decisioni della Nato. Non abbiamo sovranità d’alcun tipo, e quale che sia il presidente della Repubblica, quale che sia il governo, restiamo quello che siamo: non uno Stato ma un Dispositivo della Nato.

Della Russia e dell’Ucraina gli atlantisti italiani sanno poco, anzi nulla. Si attengono al copione distribuito dai vertici degli Stati Uniti e della Nato, secondo cui Putin vuol ingoiare l’Ucraina, e l’Ucraina non è nella sfera di interesse russa, ma nostra. Fingono di dimenticare che l’unificazione della Germania e lo scioglimento del Patto di Varsavia furono ottenuti grazie a una promessa che Bush padre e i leader europei (Kohl, Genscher, Mitterrand, Thatcher) fecero a Gorbaciov nel 1990: la Nato non si sarebbe estesa “nemmeno di un pollice” a Est, garantì il Segretario di Stato, James Baker. Avrebbe rispettato l’antico bisogno russo di non avere vicini armati ai propri confini. Un bisogno speculare a quello statunitense, come si vide nella crisi di Cuba del 1962.

È l’assicurazione che Putin chiede da anni, invano. Washington e Londra hanno imposto il riarmo dell’Est europeo, si sono immischiate nelle rivoluzioni colorate in Georgia e poi Ucraina, e ora inviano ulteriori massicci aiuti militari a Kiev. Molti governi europei sono contrari, soprattutto in Francia e Germania (la prudenza di Scholz prevale al momento sull’atlantismo dei Verdi). L’Italia invece tace, perché non si sa mai: la Casa Bianca potrebbe innervosirsi, come accadde al vicesegretario di Stato Victoria Nuland nel 2014. L’Europa esitava durante la rivoluzione arancione? “Fuck the EU!” (che vada a farsi fottere), commentò Nuland in un’elegante telefonata con l’ambasciatore Usa a Kiev.

Nei mesi scorsi Frattini ha sottolineato l’evidenza dei fatti, e suggerito vie d’uscita. In primo luogo, occorre dire un no esplicito all’ingresso di Kiev (o della Georgia) nella Nato: “Un Paese come l’Ucraina, che al suo interno conta tre province indipendentiste, non può aderire all’Alleanza. La Nato dovrebbe essere la prima a dirlo. Purtroppo ha perso il ruolo di attore politico di primo piano che aveva in passato”. (L’ingresso nell’Ue è escluso, considerata l’accidentata integrazione dell’Est Europa.)

In secondo luogo bisogna rilanciare gli accordi di Minsk, nel “Formato Normandia” che include Russia, Ucraina, Francia, Germania e si è tornato a riunire ieri. Dice ancora Frattini che dopo l’occupazione della Crimea il governo Renzi poteva e doveva fare di più: “Allora l’Italia era ancora nelle condizioni di partecipare al Formato Normandia o di esercitare una forte azione su Putin che forse avrebbe ascoltato. Ha scelto invece di acquietarsi su un’acritica politica delle sanzioni di Obama. In diplomazia quando vuoi convincere chi la pensa all’opposto non lo cacci dal tavolo, aggiungi una sedia”.

Terza condizione per smorzare la crisi: spingere perché vengano ascoltate le popolazioni russe in Ucraina, e perché siano conferite vere autonomie a regioni come il Donbass, che nel 2014 si dichiarò unilateralmente indipendente dall’Ucraina (assieme alla Repubblica di Luhans’k) e dove si combatte da otto anni. I cittadini di origine russa in Ucraina sono circa 11 milioni e il loro status linguistico è calpestato: anche questo allarma Mosca.

Di fronte a tali complessità non si può far finta che le manovre Nato nell’ex Repubblica sovietica non esistano (l’ultima risale al settembre scorso) e che solo i russi si esercitino ai confini con l’Ucraina, non oltrepassando peraltro le proprie frontiere.

Forse sarebbe l’ora di dire che la Nato perde senso, essendosi sciolto il Patto di Varsavia. Che l’ascesa della Cina a potenza globale richiede politiche nuove, multipolari. Discuterne è impossibile in Italia. C’è il copione e se te ne discosti sei un appestato sovranista.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

L’iceberg è vicino e la sinistra sul Titanic non ha alternative

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 16 gennaio 2022

La tentazione è grande, nei dirigenti Pd-M5S-LeU, di dire a sé stessi che trovandosi sulla tolda del Titanic qualsiasi candidato alternativo è meglio dell’ex Cavaliere pluri-indagato che rischia di andare al Colle, presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura, e gironzolare nel Massimo Palazzo ripetendo quanto dice da settimane: “Dopo tutto quello che ho subìto in questo Paese, il minimo è che io diventi presidente!” (Il centrodestra assicura che Berlusconi ha “l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita”, non sospettando che la frase possa significare il peggio: un Paese putrido non merita altro che il putrido).

Insomma il Pd è così suonato e i 5 Stelle così divisi che son pronti a candidare chiunque, anche Topolino, per “far fronte”. Anche figure dell’ancien régime craxiano come Giuliano Amato. Tutti ottuagenari insomma, questo è un Paese per vecchi. Un nome sensato – e ce ne sono, anche fuori dai partiti, anche di bandiera– non sanno proprio farlo a pochi giorni dal voto.

Il fatto è che il centrosinistra sta tutto frastornato sulla tolda del Titanic, balbetta che “la candidatura Berlusconi è irricevibile” e neppure per un attimo lo sfiora il dubbio che la catastrofe non sia l’iceberg ma il bastimento super-zavorrato, malfatto, su cui viaggiano. Il guaio è che la sinistra è così intontita e muta perché non esiste più. Perché ha aderito all’accozzaglia dell’unità nazionale osannando ogni gesto di Draghi, mostrando di credere incondizionatamente alla formula sempre più torbida, più equivoca, dei Migliori.

Enrico Letta per esempio auspica “una personalità istituzionale super partes” e un “patto di legislatura che consenta al Paese di completare la legislatura nel tempo naturale”. Ma patto con chi? Con le destre che hanno appena indicato un candidato di parte, frantumando la già molto ammaccata chimera della “maggioranza Ursula” (Pd, LeU, M5S, centro, Forza Italia)?

Berlusconi diventerà il king maker di Draghi se alla quarta chiama non avrà i numeri, confermando che i progressisti sono ormai capaci solo di scodinzolare nelle retrovie, avendo smarrito il verbo.

La grande illusione è che dopo le Presidenziali tutto resti come prima – stessa maggioranza dei Migliori, stesse politiche forti coi deboli e deboli coi forti, stessi autoinganni –pur di evitare il voto anticipato. È sperabile che la disillusione arrivi presto. L’iceberg è vicinissimo.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Migliori, una sordità irresistibile

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 gennaio 2022

Nella conferenza stampa di fine anno e per meglio giustificare l’aspirazione al Colle, il Presidente del Consiglio disse che la missione affidatagli da Mattarella era giunta felicemente a termine, sia sul fronte economico sia sul Covid.

Ambedue le affermazioni erano profondamente scorrette e tanto più lo sono oggi, con i contagi che minacciano di salire a 300.000, gli ospedali e le terapie intensive sovraccariche, i morti che in una settimana sono stati più di mille, il personale sanitario che diminuisce drasticamente per esaurimenti o quarantene.

Mercoledì il Consiglio dei ministri ha varato misure che la maggior parte degli scienziati giudicano insufficienti, se non improprie. Scatta l’obbligo vaccinale per chi supera i 50 anni, nonostante la doppia onda di Delta e Omicron colpisca anche giovani e bambini. È imposto il superpass ma in differita e, su pressione della Lega, ne sono esclusi uffici pubblici, negozi, banche, parrucchieri, per i quali basta il vecchio certificato, rilasciato anche con il tampone (senza indicare quale sia il test ottimale). Le quarantene sono un groviglio con maglie pericolosamente larghe, specie nelle scuole, riaperte nonostante i dubbi di molte regioni e dei presidi. Sono abolite per chi contatta un positivo ma ha fatto il richiamo, nonostante i vaccini stiano rivelandosi complessivamente insufficienti e molti scienziati auspichino vaccini “riadattati”.

Il Comitato tecnico scientifico aveva espresso pareri più stringenti ma non è stato ascoltato e i più prestigiosi scienziati sono spietati. Nino Cartabellotta presidente della fondazione Gimbe parla di pannicelli caldi, Andrea Crisanti di “follia incostituzionale”, di misure nate “solo dal panico” e di “apprendisti stregoni in fase di improvvisazione”.

Non c’è dunque da stare allegri e sono grotteschi i trionfalismi di Brunetta che mente spudoratamente sull’unanimità della maggioranza o le garanzie date dal ministro Bianchi sulle scuole, le cui aule restano spaventosamente inadatte. Se tanta esultanza fosse motivata Draghi avrebbe annunciato l’obbligo in pubblico. Se non l’ha fatto vuol dire che è debole. Che non sarà il Migliore se salirà al Colle.

Giorgio Parisi ricorda nel suo libro che nella scienza son più le domande che le risposte (In un Volo di Storni) ma in politica le cose stanno diversamente. Son richieste risposte chiare, e subito. La verità è che la missione Draghi a Palazzo Chigi si chiude (se si chiude) nel caos. La supermaggioranza che ha fatto fuori Conte esiste sulla carta, ma è una stoffa completamente sbrindellata. Non può sopravvivere all’elezione presidenziale né con Draghi né senza Draghi.

Alcune domande gravose hanno già risposta: i test che contano, cioè i molecolari (PCR), scarseggiano e costano. Gli antigenici scarseggiano meno ma sono giudicati ormai inopportuni per la variante Omicron (parola di Crisanti, il più lucido e indipendente in questi anni di Covid, e di Guido Rasi, consulente del commissario Figliuolo: Omicron “non solo buca parzialmente i vaccini ma sfugge ai tamponi rapidi che rischiano di diventare inutili. Quasi uno su due è un falso negativo”).

Altre e cruciali questioni restano senza risposta, in attesa di serie conferenze stampa. In genere sono domande poste dagli scienziati che ci hanno aiutato negli anni del Covid.

La domanda di Cartabellotta e dell’epidemiologo Vespignani per esempio: qual è il piano B, nel caso in cui le misure non funzionino? Non sono predisposti nuovi ospedali da campo, per curare infarti, tumori e altro. Non c’è un piano per il Covid Lungo, totalmente trascurato dal governo e dal Cts. Quando molti entreranno in quarantena saremo di fatto in lockdown ma con fatiscenti sostegni, visto che alcuni bonus di Conte scompaiono (bonus baby sitter) e che il bonus salute mentale è stato respinto –chissà perché– dal ministro dell’economia Franco.

Oppure la domanda di Crisanti: il consenso informato diventa una pura beffa in presenza dell’obbligo e va rivisto. Se sei obbligato che significa il foglietto che firmi? È come chiedere al condannato a morte di firmare il consenso all’esecuzione.

Sono giustamente obbligatorie le mascherine FFP2, ma lo sono ovunque? Cominceranno anch’esse a scarseggiare e i prezzi saranno calmierati?

Quanto ai richiami, detti booster: forse consentiranno un’immunità di 8 mesi (Enrico Bucci sul «Foglio») ma Conte ha ricordato che l’immunizzazione è una corsa a ostacoli. Chi vuole la terza dose “incontra difficoltà a ottenerla in tempi brevi”.

E le medicine ci sono dappertutto o no? E come organizzarsi, dal momento che funzionano solo nei primi 5 giorni?

Infine i ritardi. Il 22 luglio Draghi assicurava che le due dosi rappresentavano la “garanzia di trovarsi fra persone non contagiose”. Ma Pfizer aveva segnalato già l’8 luglio che l’immunità durava 5 mesi. Nel Regno Unito e in Israele il richiamo era pronto da agosto.

Ma torniamo al governo Draghi. La missione poteva riuscire se frutto di intese durature sui due punti chiave (economia e pandemia) e se il capo-missione mostrava capacità di ascolto degli esperti. Non competente sulla pandemia né sulla questione sociale, Draghi avrebbe potuto ascoltarli più attentamente. Non lo ha fatto quasi su nulla. Si lascia condizionare da Salvini, di cui ha bisogno per il Quirinale. Non ha ascoltato gli scienziati sul Covid, non ha ascoltato le utilissime raccomandazioni della Commissione di esperti sul reddito di cittadinanza, presieduta da Chiara Saraceno. Anche la riforma della giustizia è stata imposta senza ascoltare neppure accidentalmente i magistrati che in gran parte la osteggiavano. A volte è mancata anche qualche eleganza: il piano di aiuti e prestiti basati sul comune indebitamento europeo è stato negoziato e ottenuto da Giuseppe Conte, ma Draghi non lo ricorda mai. Le vaccinazioni dell’era Conte erano ottime fino a quando si interruppero le forniture, ma i ministri e i media dicono che solo con Draghi siamo “i primi in Europa”.

Naturalmente il male è il virus con le sue varianti, non il governo o Draghi. Ma i ritardi restano inconfutabili, e i partiti –chiamati sprezzantemente “bandierine”– sono già in campagna elettorale. L’unità nazionale c’è fra i cittadini (il tasso di vaccinazione è altissimo, inutile ormai sprecare tempo con i no-vax) ma non fra i politici, che pensano praticamente solo a chi conquisterà il Quirinale e chi Palazzo Chigi. Draghi ha “tirato avanti” come se non esistessero esperti, scienziati, sindacalisti, e una società allo stremo. Non è un gran bel bilancio.

© 2022 Editoriale Il Fatto S.p.A.

 

Il patto Draghi-Macron è il trionfo del segreto

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 novembre 2021

Si è parlato più volte, nella scorsa settimana, del Trattato italo-francese di cooperazione – il cosiddetto Trattato del Quirinale – che Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno firmato ieri al Quirinale. Ma se ne è parlato per giorni come se si trattasse di un tesoro nascosto, da custodire in stanze chiuse, impenetrabili. Il testo non era disponibile a chi volesse esaminarlo o magari criticarlo, anche perché nessuno dichiarava di volerlo. Il Trattato veniva ripetutamente definito segreto, come fossimo alla vigilia di qualche terribile guerra e occorresse osservare la consegna del silenzio al massimo grado, per evitare che il nemico ascoltasse. Chissà cosa poteva succedere nelle avanguardie o nelle retroguardie, se qualche bozza fosse trapelata e un giornale l’avesse intempestivamente pubblicata.

Sono in gioco interessi potenti – geopolitici, finanziari, economici, legati ai rispettivi complessi militari-industriali – e questo spiega il recinto oligarchico che fino a ieri ha avvolto l’illustre evento. La cosa stupefacente non è il recinto e non è l’oligarchia: siamo abituati ai recinti, alla non trasparenza e alle democrazie oligarchiche. Stupefacente è la naturalezza con cui giornalisti, diplomatici ed esperti danno per scontate e accettano benevolmente, fino al giorno della firma di un Trattato, la segretezza e la non trasparenza dei negoziati che l’hanno prodotto.

Eppure non erano mancate alcune vigili messe in guardia. Quella di Romano Prodi ad esempio, che confida a «La Stampa» i suoi timori per una Francia sempre più tentata dal sovranismo alla vigilia delle Presidenziali del 2022 (inseguendo Eric Zemmour e Marine Le Pen, tutto il centrodestra imbocca la via polacca e rivendica il primato del diritto francese su quello europeo, specialmente sulle migrazioni: questo è oggi il sovranismo francese). O la messa in guardia dell’economista Carlo Pelanda, che agli inizi di novembre esamina in un’intervista a Sussidiario.net alcuni “leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina” e si domanda: “Che senso ha oggi firmare un trattato bilaterale a 360 gradi con la Francia in un’Europa dove l’Italia e le altre nazioni avrebbero semmai l’interesse opposto, quello di depotenziare il trattato franco-tedesco dell’Eliseo che guida l’Europa dal 1963?”. A cosa serve la frantumazione dell’Unione europea in aree potenzialmente separate, dai Nordici ai Paesi del gruppo Visegrad a Est?

Un Trattato simile, che impegna i contraenti a cicliche pre-consultazioni bilaterali ogniqualvolta vengono prese decisioni dai rispettivi governi e viene convocato un vertice europeo, non dovrebbe essere segreto, almeno in tempi di pace. Le bozze del Trattato dovrebbero essere discusse, eventualmente emendate, nelle Camere e anche sulla stampa, non al momento della ratifica parlamentare, ma prima. Non si dovrebbe fare esclusivamente ricorso ai leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina. Soprattutto se le parti non prendono alcun impegno comune sulle questioni migratorie, dunque sull’accoglienza, la redistribuzione e l’integrazione dei richiedenti asilo che approdano in Italia, ma ci si limita a preconizzare pseudosoluzioni come il “contrasto dello sfruttamento della migrazione irregolare” (articolo 1 del Trattato). Soprattutto se c’è il sospetto di un trattato asimmetrico, e addirittura, come scrive ancora Pelanda sconsigliando la firma, di “un’autoannessione alla Francia, industriale e strategica. Edulcorata ma sostanziale” (“All’occhio attento non sfugge che i tecnici francesi mostrano di sapere benissimo cosa vogliono, mentre quelli italiani sono spaesati, cercano di fare controproposte che sono deboli perché prive di prospettiva. C’è un’asimmetria palpabile e imbarazzante”).

La naturalezza con cui si accetta tale opacità è la stessa con cui, ormai automaticamente e sistematicamente, e ben più che in altri Paesi dell’Unione, si va dicendo che ogni sorta di riforma italiana legata al Pnrr, o di decisione politica, s’impone “perché l’Europa lo chiede, lo vuole”.

Perché l’Europa “ci sottrarrà i soldi del Recovery Plan” in caso di non adempienza. Significativo ci pare quel che Chiara Saraceno afferma nell’intervista rilasciata a Carlo Di Foggia, venerdì, su questo giornale: tutti i suggerimenti sul Reddito di cittadinanza presentati dal Comitato di esperti da lei presieduto “sono stati ignorati dall’esecutivo”, compresa la proposta di ridurre la durata di permanenza in Italia di migranti che desiderano ricorrere al Reddito: per quanto riguarda “la proposta sugli stranieri ci è stato perfino detto che era ‘improponibile’ per motivi politici e che si preferisce aspettare che sia l’Unione europea a risolvere il problema sanzionandoci”.

Ecco come stiamo messi in Europa, nei rapporti con i singoli Paesi alleati, e di certo anche nella Nato: siamo lì in attesa di “annessioni”, di ordini, sperando in sanzioni il giorno in cui si constaterà che abbiamo sbagliato o i conti o le leggi.

Perfino la data delle elezioni viene fatta entrare nelle chiuse stanze dell’opacità che decidono, in segreto e chissà in quale sede, dei nostri destini.

In questi mesi che precedono la scelta del successore di Mattarella non si parla d’altro: delle elezioni, anticipate o no. Se ne parla nei giornali, nei talk show. Ma aggiungendo ogni volta, sotto forma di monito o di leak, che “l’Europa le elezioni proprio non le gradirebbe”. Perché? In vista di quale guerra incombente, che impone di ignorare le procedure costituzionali e di tener cucite le bocche e le urne?

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Clima, i fallimenti che Draghi nasconde

di venerdì, Novembre 5, 2021 0 , , , , Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 5 novembre 2021

C’è qualcosa di veramente storto nel governo e in gran parte dei nostri giornali (telegiornali compresi) se si comparano i loro giudizi sui risultati del G20 con quelli espressi da giornali stranieri e scienziati: un gran successo per il futuro del clima a sentire Draghi, un compromesso minimo o quasi fallimento secondo chi osserva da fuori.

A lamentarsi delle divisioni che impediscono impegni concreti a riportare il riscaldamento della terra a 1,5 gradi non è solo Greta Thunberg. Il Segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha commentato: “Mentre accolgo con favore l’impegno del G20 verso soluzioni globali, lascio Roma con le mie speranze insoddisfatte, anche se non sepolte per sempre”, per poi rincarare alla Cop26 di Glasgow: “Basta trattare la natura come un gabinetto. Basta bruciare, trivellare e scavare sempre più in profondità. Stiamo scavando le nostre stesse tombe”.

Ancora più severo il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, intervistato dal «Corriere»: “Se non si realizza un piano dettagliato e condiviso dalle nazioni, è difficile pensare che la promessa sia mantenuta”. Siamo alle prese con “economie nazionali in concorrenza fra di loro. Il problema fondamentale è ‘frenare’ queste economie per rallentare le emissioni e farlo con il consenso delle popolazioni”. Gli italiani fanno abbastanza? “Non vedo la gente che installa pannelli solari sui tetti. A Roma, sui tetti vedo più piscine che celle solari”.

Nemmeno come negoziatore il governo ha fatto abbastanza. L’agenzia Bloomberg scrive che i deludenti risultati del G20 sono dovuti alla cattiva gestione italiana, poco rispettosa dei Paesi – delegazione russa in primis – che non sono nel ristretto gruppo dei G7. Il ministro degli Esteri Lavrov accusa la presidenza italiana del G20 di aver preconfezionato il comunicato finale con i colleghi del G7, mostrandolo in extremis ad altre delegazioni. Un po’ come fa Draghi nei Consigli dei ministri.

È uno dei motivi per cui è caduta, secondo Lavrov, la scadenza del 2050 per l’azzeramento delle emissioni di gas serra: data prevista nel comunicato preconfezionato e che è sostituita da una nebbiosa scadenza: “Attorno alla metà del secolo”. Ogni Stato farà comunque a modo suo, mentre già ora la terra brucia (l’Ue si impegna per il 2050, l’India per il 2070). Conclusione di Bloomberg: “Il team italiano è stato lento nel capire quanto dovesse sforzarsi per convincere Paesi come Cina e Russia, e ha commesso errori che senza necessità hanno infiammato risentimenti”.

È ingannevole anche l’ennesimo euforico annuncio di una tassazione globale delle multinazionali. Lo smonta con argomenti convincenti Nicoletta Dentico sul «Manifesto»: manca “la riflessione sul fatto che il tasso del 15% concordato dal G20 risulta appena superiore alle aliquote medie del 12% nei paradisi fiscali, sicché l’esito finale è quello che trasformare tutto il mondo in un grande paradiso fiscale a partire dal 2023 – l’aliquota delle tasse sulle multinazionali è intorno al 27,46% in Africa, 27,18% in America latina, 20,71 in Ue, 28,43% in Oceania e 21,43 % in Asia: la media globale si assesta intorno al 23,64%”. E conclude: “Senza obblighi vincolanti, e una rotta temporale cogente all’altezza, il G20 consegna alla Cop26 di Glasgow declamazioni senza credibilità, perché ancora orientate alle vecchie ragioni della economia globalizzata piuttosto che a un improrogabile nuovo pensiero sul modello di sviluppo ecologico”.

Alcuni passi avanti sono stati compiuti, anche se il più delle volte confermano impegni solo verbali, cioè già presi anni fa ma non mantenuti. Si riconosce di nuovo che la terra non deve scaldarsi oltre 1,5 gradi, come nell’accordo di Parigi del 2015. Si torna a promettere aiuti ai Paesi poveri che più patiranno delle riconversioni verdi (100 miliardi di dollari all’anno entro il 2025). La data fissata nel 2009 dall’Onu a Copenaghen era il 2020: non è stata rispettata da nessuno dei Paesi sviluppati, che pure sono i grandi predatori delle risorse del pianeta. Visti i precedenti c’è da dubitare che saranno rispettati gli impegni principali presi a Glasgow: freno alle emissioni di metano (ma Cina, Russia e India dissentono) e stop alle deforestazioni.

Difficile in queste condizioni che i cittadini comprendano quel che i governi intendano fare qui e ora. Difficile prevedere come se la caveranno Paesi come l’India e in genere l’Asia, dove vastissime regioni dipendono dal carbone per sopravvivere. Viviamo dilemmi di natura tragica, che i sorrisi compiaciuti di Draghi e la foto da Dolce Vita dei Grandi che gettano monete nella Fontana di Trevi trasformano in incubo.

Tutti questi dilemmi e trionfi dell’inerzia sono chiari a molti, ma il principale dramma viene occultato nelle conferenze stampa ed è geopolitico, come si capisce bene dal commento di Bloomberg. È impossibile che i G20 o i Paesi della Cop26 si accordino seriamente, ingolfati come sono in una nuova guerra fredda che vede Usa e Nato in croniche posture bellicose contro Russia e Cina, con lo scontro su Taiwan che incombe. È improbabile una riduzione drastica di produzione petrolifera nei Paesi nel Golfo, cui la Nato è legata anche militarmente. L’assenza di Putin e di Xi Jinping a Roma e Glasgow è un segno funesto, di cui i leader occidentali dovrebbero rammaricarsi in maniera molto più ragionata e meno bellicosa.

Nella sua rubrica “L’arte della guerra”, sul «Manifesto», il geografo Manlio Dinucci riassume il dilemma geopolitico, spiegando come la rovina non riguardi solo il clima ma anche la corsa agli armamenti nucleari e le recenti manovre nucleari della Nato, in funzione anti-Cina e anti-Russia. Poco prima del G20, il nostro Paese è stato teatro di un’“esercitazione Nato di guerra nucleare Steadfast Noon nei cieli dell’Italia settentrionale e centrale. Vi hanno partecipato per sette giorni, sotto comando il Usa, le forze aeree di 14 Paesi Nato, con cacciabombardieri a duplice capacità nucleare e convenzionale dislocati nelle basi di Aviano e Ghedi. Ad Aviano è schierata in permanenza la 31ª squadriglia Usa, con cacciabombardieri F-16C/D e bombe nucleari B61”.

“Per il clima non c’è più tempo”, s’inquietano i governanti, ma per una guerra nucleare il tempo pare si trovi. Siamo ben lontani dallo spirito del Secondo dopoguerra, quando furono create le Nazioni Unite per metter fine alle impotenze e inerzie della Società delle Nazioni. Chi si meraviglia solo arrabbiandosi e non allarmandosi per l’assenza di Putin e Xi Jinping o è cieco, o mentendo ci imbroglia.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

I miopi signori della necessità

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 9 ottobre 2021

Lo ha proclamato Carlo Bonomi, pochi giorni prima delle amministrative, ed è probabile ne sia ancor più convinto dopo il primo turno di lunedì: questo non è tempo di sperimentazioni, di politiche del possibile, di populismi e sovranismi. Tanto meno di rivoluzioni e assalti ai Palazzi del potere.

Urge – ha specificato nell’ultima assemblea di Confindustria orchestrando la smaniosa ovazione che ha incensato Mario Draghi prima ancora che questi aprisse bocca – “un terzo tipo di uomini: gli Uomini della Necessità”.

Nel regno della Necessità la storia si chiude, la scelta è obbligata, lo scrutinio universale è un esercizio irrilevante, le astensioni al voto diventano addirittura una risorsa (come scrive Travaglio), e il tecnico sostituisce il politico perché l’obiettivo non è di scegliere tra linee diverse su cui il popolo si è espresso ma di applicare l’unica legge (economica, finanziaria, climatica ecc.) rivelatasi universalmente valida. Rigore e produttività, crescita e stabilità: nel quadrangolo perfetto indicato da Bonomi non figurano né la giustizia sociale né il superamento delle disuguaglianze abnormemente dilatate, non sia mai detto che dal quadrangolo si passi a geometrie più complesse e gradite.

La sovranità è un capitolo a parte: solo porsi la questione di chi ha il potere di decidere e a quale livello (nazionale, europeo, Alleanza Atlantica su guerra e pace) ti tramuta in idra sovranista. Quando sono interrogati, gli uomini della Necessità ammiccano benevoli, assicurano che naturalmente ci pensano tanto: alla giustizia sociale, ai costi sociali della transizione ecologica. Ma dirlo spontaneamente meglio no, e farlo non sia mai. Quanto alla sovranità, è materia incandescente che non si nomina. “Un ange passe”, dicono i francesi: pare passi un angelo muto, ma è imbarazzo d’un attimo.

Nasce così la vulgata secondo cui le amministrative avrebbero sgominato populisti e sovranisti: due termini imprecisi escogitati per screditare chiunque si prefigga di dar voce e rappresentanza alle classi popolari, al loro scontento, alla loro rabbia, e soprattutto alle loro attese; o si proponga di sollevare il problema della sovranità, cruciale in tempi di globalizzazione, pandemie, disastri ambientali. C’è molto compiacimento nella cerimonia nera che dichiara moribondi i Cinque Stelle e tramontato il sovranismo inaccuratamente usato da Salvini, anche se Fratelli d’Italia sta prendendo il posto della Lega.

È un compiacimento chimerico, come sempre accade quando si proclama la prevalenza del regno della necessità su quello della libertà. Non si calcolano i milioni di cittadini che avevano puntato sul Possibile – l’assalto al Palazzo evocato da Giuseppe Conte, “che inizialmente non si può fare col fioretto”– e che non smettono di immaginare scommesse anche quando disertano la gara.

Gli astensionisti oltrepassano nelle grandi metropoli il 50%, Bologna esclusa: sono soprattutto elettori delle periferie, delle zone colpite dalle crisi del 2008 e del Covid. Stando all’Istituto Cattaneo sono voti sottratti non tanto a Cinque Stelle e al Sud, stavolta, ma al Nord e alla Lega, che subisce un’emorragia compensata a stento da Giorgia Meloni (un’eccezione è il Veneto di Zaia, sempre in disaccordo con Salvini sul Covid). Gli astensionisti sono tutti coloro che non si sentono rappresentati nel quadrangolo di Bonomi. Chiedevano giustizia sociale e non l’ottengono. Chiedevano forze politiche che osassero il cambiamento, e per questo avevano votato Cinque Stelle nel 2018. Si sono trovati con partiti afoni, dediti alla schiavitù volontaria, messi ai margini come inutili rimasugli dall’Uomo della Necessità che è l’attuale Presidente del Consiglio attorniato da una cerchia di tecnici/consiglieri e sorretto – tramite il ministro del Tesoro Daniele Franco – dalla Banca d’Italia (divenuta, non improvvisamente, attore politico italiano di primo piano).

Draghi non aspirava forse a tanto. Si limita a contemplare le peripezie così spesso suicide dei partiti. Nel frattempo ha fatto capire che le decisioni intende prenderle lui, in una maggioranza spuria, presumendo che i vari partiti e specie i più riottosi si sbriciolino. A forza di ribadire tale intenzione, e di darle l’approssimativo nome di pragmatismo (o realismo, o moderatismo), l’elettore lo ha preso sul serio e ha concluso che il suffragio universale è roba che non vale la fatica, almeno per ora.

Il Partito Democratico di Enrico Letta ha avuto buoni risultati, soprattutto a Napoli e Bologna. A Roma e Torino si vedrà. A Torino è sceso rispetto alle elezioni europee (16,4% invece di 19,8%), e il suo candidato ha ottenuto il 43,8% grazie a molti elettori Cinque Stelle (e perfino a un certo numero di leghisti). Lo stesso a Napoli, dove l’apporto di Cinque Stelle all’elezione di Gaetano Manfredi, fortemente voluto dal suo ex premier Conte, è stato consistente. In attesa del secondo turno si comincia a discutere del rapporto di forze fra Partito Democratico e Cinque Stelle. L’egemonia sembra esser passata al Pd, ma non si sa ancora in vista di quale alleanza strategica, una volta appurato che da solo il Pd va a sbattere. Letta lo sa ma brancola ancora nel buio, perché vorrebbe mettere insieme Calenda, renziani, Bersani, Conte e 5 Stelle, sempre in nome del pragmatismo e delle sue necessità.

Questi tuttavia non sono i tempi del pragmatismo e della Necessità descritti da Bonomi. Sono tempi di trasformazione, di tormenti sociali enormi, di indispensabile ritorno dello Stato nell’economia, dunque della ricerca di uomini del Possibile. Sono tempi in cui occorrerà rivoluzionare le vecchie certezze economiche e i parametri che per mezzo secolo esse hanno imposto.

Per questo fa bene Conte a sottolineare, ogni volta che lo interpellano, che lui non è affatto moderato come viene generalmente descritto ma uno statista con ambizioni radicali di cambiamento.

Chi dà per morto il populismo – cioè il bisogno di rappresentare le classi popolari, oggi in gran parte astensioniste – è come un signore molto miope che per vanità o supponenza si rifiuta di inforcare gli occhiali. Non vedendo la società che ha davanti, dunque non vedendo la realtà, dichiara l’una e l’altra irrilevanti, anzi inesistenti (come Margaret Thatcher nell’87).

La società che ha davanti resta però quella che è: anche se non vota, proprio perché non vota, è un “mondo di sotto” abitato da classi popolari e ceti medi impoveriti che non scompaiono per il solo fatto che per rabbia, stanchezza o noia (spesso è la stessa cosa) non votano più 5 Stelle o non votano più Lega.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

L’oscena resa dei conti ai danni dell’antimafia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 settembre 2021

La parola d’ordine è aspettare le motivazioni, cosa che in Italia dura almeno tre mesi. Un buon motivo per risparmiarsi, nell’immediato, la lettura dei due fogli che contengono il dispositivo della sentenza d’appello sulle trattative Stato-mafia, pronunciata il 23 settembre. Se solo venisse letta, da chi oggi ha l’impressione di prendersi una bella rivincita politico-giornalistica e dichiara morto quel che ha denunciato per anni – il cosiddetto teorema della trattativa Stato-mafia, la “gran mattana”, la “parte molto rumorosa del giornalismo” – si capirebbe subito che per i giudici la trattativa c’è stata, tra mafia e pezzi dello Stato. E che il fatto non solo sussiste (la “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” che caratterizzò la trattativa), ma è giudicato criminale, visto che gli interlocutori mafiosi del negoziato vedono confermate le condanne in primo grado: 27 anni di carcere per Leoluca Bagarella invece di 28; 12 anni per Antonino Cinà, il “postino” che prese in consegna i messaggi del Ros a Vito Ciancimino, li portò a Riina e ne ricevette il papello perché i contraenti statali venissero a conoscenza delle condizioni poste dalla mafia per fermare le stragi in corso. Stragi che non si fermarono, anzi si moltiplicarono, anche se oggi non manca chi definisce utile la trattativa.

Se fosse una serie tv o un film, questa cronistoria dominata dalla lotta alla mafia e dalla sua trasformazione in malavita dedita a lucrare sui disastri economici italiani si concluderebbe con scene inquietanti, ominose: non l’Italia liberata dalla mafia e uno Stato integralmente innocente, ma un Paese che conserva qualcosa di veramente marcio, dove colletti bianchi e politica colludono non invisibilmente con la mafia, specie in questi tempi di pandemia.

La Corte d’appello ne trae conclusioni abbastanza sconcertanti, almeno per ora: non rifiuta il legame nefasto fra trattativa e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, ma condanna solo i mafiosi. Coloro che erano all’altro lato del tavolo negoziale – tre ufficiali del Ros – sono assolti perché il fatto criminoso c’è e tuttavia per loro (solo per loro) “non costituisce reato”.

Ma quel che colpisce ancor più della sentenza è l’indecenza della resa dei conti – minacciosa, soddisfatta, saccente – che avviene sui giornali. Nel mirino: tutti coloro che da decenni denunciano le collusioni fra mafia e pezzi dello Stato, nei processi, nei libri o nei giornali. Avrebbero indagato e denunciato per costruire carriere o fondare giornali e partiti. Sono i cattivi demiurghi dell’ossessione mafiosa: i 5Stelle, Marco Travaglio e altri non meno nefandi. S’abbatte sul loro capo la mannaia: è finito il “teorema” sulle collusioni mafia-pezzi dello Stato, finito il “pensiero unico fatto di niente” (Enrico Deaglio su «Domani»). Finita – sulla scia della sentenza – la narrazione capziosa e distruttiva dell’ascesa di Berlusconi, coadiuvato dalla collusione fra il suo luogotenente Marcello Dell’Utri e mafiosi come Stefano Bontade, Totò Riina, Bernardo Provenzano, e poi scendendo per li rami con postini come Cinà e Mangano. Fa impressione vedere come Dell’Utri esca immacolato dal processo Stato-mafia (“non ha commesso il fatto”) e come cada nel dimenticatoio, per gran parte dei commentatori, la sentenza definitiva che inchiodando sia lui sia indirettamente Berlusconi ha condannato in via definitiva Dell’Utri a sette anni di carcere, nel 2014, per concorso esterno in associazione mafiosa e intermediazione fra mafia e Berlusconi. Fa impressione il silenzio sulle azioni malavitose che proseguirono nonostante la trattativa. Per motivi ancora opachi (forse legati alla successione di Mattarella) si diffonde l’opinione, anzi la notizia che, grazie ai governi berlusconiani, la mafia fu sconfitta (Enrico Deaglio).

C’è un punto tuttavia in cui l’indecenza stinge nell’osceno. La resa dei conti precipita nella polvere magistrati o giornalisti che hanno un peso e un seguito. È abbattuta perfino la statua di Nino Di Matteo, con gesto trionfale, nonostante le parole intercettate di Riina che ne commissionava l’assassinio. Ma stranamente, le esecuzioni risparmiano le tante associazioni di cittadini nate sull’onda delle stragi. Una mano colpisce e l’altra resta sospesa in aria, perché non si sporchi troppo. Questo è osceno nella resa dei conti. Di fatto sono punite anche le associazioni ma cum juicio, la lotta è tra potentati politici e mediatici e ha scopi solo politico-mediatici. Di qui il silenzio sui tanti movimenti che combattono le collusioni tra mafia, colletti bianchi, pezzi dello Stato: dall’associazione “Scorte civiche” nata nel 2014 su iniziativa di Salvatore Borsellino alle sue Agende Rosse al movimento “Addiopizzo”. Sono associazioni che indagano non su teoremi, ma su fatti che feriscono ancora i cittadini e la parte migliore, non contaminata, del loro Stato.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

La guerra oscena dei soldi mischiati a valori e sangue

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 agosto 2021

Al pari di altri leader europei, Draghi ha speso poche parole sul ritiro di Washington e della Nato dall’Afghanistan. Si è limitato a dire che il rientro degli italiani e dei cooperanti afghani avverrà nel rispetto dei diritti umani, e che una cooperazione mondiale dovrà avere come sede il G20. Ha poi invitato a “riflettere sull’esperienza” passata, ma non ha azzardato alcun tipo di riflessione visto che “non è questa la cosa più importante”.

È la più importante, invece. Sapere perché la guerra d’invasione sia stata inutile oltre che nefasta, e come abbia potuto durare 20 anni, mietere tanti morti, non produrre alla fine altro che caos: rispondere a tali domande è cruciale, altrimenti non proveremo che smarrimento di fronte a un conflitto che finisce in modo così catastrofico: ben più catastrofico di quanto avvenne dopo la guerra di 9 anni condotta dall’Urss. Il governo pro-sovietico sopravvisse qualche anno dopo il ritiro del 1989; il governo di Ashraf Ghani protetto da Washington si è dato alla fuga immediatamente.

Quanto al G20, Draghi e molti suoi colleghi ignorano la necessità di trattare non solo con Russia, Cina e Turchia ma anche e soprattutto con i due Paesi che pesano maggiormente sulle sorti afghane e che tuttavia non sono nel Gruppo dei Venti: l’Iran che ha un lungo confine con l’Afghanistan (4 milioni di Hazara sciiti vivono nel timore), e il Pakistan che è il primo interlocutore-garante dei talebani. Senza di loro la guerra civile afghana è assicurata.

Nessun dirigente europeo ha mostrato di voler imparare dalla disfatta, e infatti la parola sconfitta è assente. Fa eccezione Angela Merkel, che ha ammesso errori ma non ha specificato quali, né quando e perché furono commessi: dunque le sue parole restano vacue. In Europa ci si preoccupa giustamente degli afghani traditi, che fuggiranno dal proprio paese. O del peso esercitato dai talebani sul narcotraffico (Roberto Saviano). O delle donne che potrebbero patire persecuzioni. Ma il vero dramma è occultato: la fine di un’Alleanza Atlantica creata per fronteggiare l’Urss ma che nel dopo Guerra fredda non ha saputo far altro che provocare o indirettamente favorire ulteriori guerre, tutte fallimentari: in Afghanistan, Siria, Iraq, Somalia, Libia, Sahel. L’appoggio sistematico agli integralisti più radicali: contro l’Urss in Afghanistan, contro Assad in Siria. L’incapacità di costruire un sistema di sicurezza internazionale che oltrepassi il multilateralismo – la forma gentile dell’atlantismo – e diventi infine multipolare, composto di potenze non omologabili alle idee di civiltà di volta in volta dominanti in occidente.

I difensori dei diritti delle donne conducono giuste battaglie ma non sempre in buona fede. Non solo perché la politica dei talebani è ancora incerta, ma perché i diritti sono stati in questo ventennio una conquista nelle grandi città, non nei villaggi. Perché sono migliaia le donne e i bambini morti sotto le bombe Usa. Perché l’Afghanistan, come del resto l’Iraq, non ha mai sopportato le aggressioni, anche liberatrici, dei forestieri. E chissà, forse i talebani, o una parte di essi, hanno imparato dalle ultime guerre più cose di noi. Forse daranno vita a governi più inclusivi delle varie etnie, e a forme di pacificazione con i Paesi limitrofi che scongiurino devastanti guerre civili.

La confusione delle nostre menti è rafforzata da ventennali menzogne. Ed è una confusione che persiste perché buona parte delle sinistre e dei commentatori sono figli più o meno consapevoli del pensiero neo-conservatore, del suo falso umanitarismo, delle teorie sullo scontro fatale tra culture. Tessono le lodi di Gino Strada, ma in cuor loro sperano che alle guerre infinite facciano seguito guerre civili altrettanto infinite, che diano diritti alle donne bombardandole.

Riflettere sull’esperienza passata vuol dire fare il punto sulle origini di una guerra che apparentemente fu una risposta all’attentato dell’11 settembre 2001. Fu la prima finzione, subito seguita dalle menzogne sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam in Iraq. Gli attentatori dell’11 settembre trovarono rifugio in Afghanistan ma erano legati all’Arabia Saudita, alleata di Washington.

Un’altra bugia riguarda il denaro “speso in Afghanistan”: oltre 3000 miliardi di dollari. Non sono stati spesi “in Afghanistan”. Hanno arricchito rappresentanti dei governi fantoccio, e in primo luogo le industrie delle armi in Usa ed Europa. Andrew Cockburn spiega bene come il complesso militare-industriale esca non perdente ma vincente dal conflitto, avendo accumulato profitti enormi dalla vendita di armi spesso inutilizzabili («The Spectator», agosto 2021). Il caso più spettacolare: la vendita degli aerei da trasporto italiani G-222, comprati dagli Usa per questa guerra (500 milioni di dollari). John Sopko, l’Ispettore Generale per la Ricostruzione Afghana nominato nel 2012 dal Congresso Usa ha rivelato: “I G-222 erano aerei del tutto inadeguati, inadatti alle altitudini e al clima”. I loro relitti giacciono oggi nei pressi dell’aeroporto di Kabul. La sentenza di Sopko: “La ricostruzione afghana è un villaggio Potemkin”. Una finzione.

Biden ha mantenuto la promessa del ritiro, anche se la gestisce male, ma quel che dice sulla colpa del governo e dell’esercito di Kabul è in minima parte verosimile (“Le truppe americane non dovrebbero combattere e morire in una guerra che le forze afghane non sono disposte a combattere per conto proprio”). Se gli afghani non erano “disposti” è colpa di quattro amministrazioni Usa che li hanno male attrezzati e infine abbandonati.

Dopo aver fatto il guaio, i belligeranti temono ora i suoi effetti inevitabili: l’arrivo dei profughi. Macron chiede di “irrobustire” i confini contro i “flussi migratori irregolari”, come se i profughi avessero il tempo di verificare la “regolarità” della loro fuga. La speranza è di mantenere, come se nulla fosse, gli accordi sui respingimenti negoziati fra Ue e Kabul nell’ottobre 2016 (Joint Way Forward on migration issues).

La parola d’ordine è dunque: guardare avanti, non attardarsi in autocritiche. Non imparare dagli errori, ma commetterne di nuovi preservando strutture fallimentari come la Nato, proteggendo le lobby militari che mischiano oscenamente “valori” e guerre, tuonando contro la Cina che minaccia Taiwan. Il vuoto di riflessioni non promette niente di buono. La spedizione in Afghanistan finisce ma già gli apparati militari-industriali d’occidente si preparano a future guerre, dirette o per procura.

© 2021 Editoriale Il Fatto S.p.A.

Recent Comments by Redazione

    No comments by Redazione yet.