Kissinger regola i conti coi Neocon

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 27 luglio 2023

S’intensifica l’attivismo di Henry Kissinger, da quando Mosca ha invaso l’Ucraina.

Ha appena compiuto 100 anni ed eccolo a Pechino, giovedì 20 luglio, per discutere col presidente Xi Jinping di ordine multipolare e del caposaldo della diplomazia cinese: il riconoscimento statunitense del principio di “una sola Cina”, di cui Taiwan è parte integrante. Xi ha chiamato l’interlocutore “nostro vecchio amico”. L’orizzonte a cui ambedue hanno fatto accenno è stato il “comunicato di Shanghai”, che Richard Nixon firmò nel 1972, quando Washington aprì spettacolarmente alla Cina dopo decenni di tensioni.

Kissinger accorre per riportare qualche ordine nel caos creato da Washington nel dopo Guerra fredda. Si oppone di fatto alle guerre di esportazione della democrazia, lanciate sconsideratamente da una serie di presidenti, soprattutto democratici: Clinton, Bush junior, Obama, Biden. L’ordine mondiale basato su regole fissate unilateralmente dagli Stati Uniti (rules-based international order), detto anche Liberal International Order, viene sostituito nei discorsi e nelle iniziative dell’ex Segretario di Stato dall’ottocentesco Concerto delle Nazioni, che pacificò l’Europa dopo le guerre napoleoniche ed ebbe come architetto il principe Metternich. Fanno ritorno con lui gli imperativi della geopolitica e dell’equilibrio delle potenze (balance of power): incompatibili entrambi con l’egemonia unilaterale Usa che chiude la Storia quando lo squilibrio è massimo.

Kissinger si è attivato fin dal 2022, esprimendosi più volte sull’invasione russa dell’Ucraina in seguito a una non meno sanguinosa guerra civile iniziata da Kiev otto anni prima nelle regioni russofone del Donbass (13-14.000 morti). Da tempo aveva messo in guardia la Nato contro un allargamento a Est che inevitabilmente avrebbe riacceso ataviche paure di accerchiamento nella Russia post-sovietica. Non era l’unico ad ammonire: erano con lui Jack Matlock, ambasciatore Usa in Russia, e diplomatici e politici di primo piano come George Kennan (l’architetto della politica di contenimento pacifico dell’Urss) o Helmut Schmidt. Oggi sono rari i leader europei pronti ad ammettere che la linea Kissinger restituirebbe peso e potere all’Europa. Ancora nel settembre 2022, Kissinger riteneva “poco saggia” l’adesione alla Nato chiesta da Zelensky. Poco dopo, il 17 gennaio 2023, cambiò posizione e disse che la neutralità ucraina non era più contemplabile. Ma non smise di sostenere che Kiev dovrà rinunciare alla Crimea e trattare sul destino delle aree russofone del Donbass.

Kissinger resta uno dei massimi fautori del realismo politico nei rapporti occidentali con Russia, Cina, India, accanto a osservatori come Stephen Walt, John Mearsheimer, Jeffrey Sachs (e in Italia la rivista geopolitica «Limes» di Lucio Caracciolo). È l’antagonista più temuto dai neoconservatori che hanno avuto la meglio nell’Amministrazione Biden, e che solo nell’ultimo miglio sembrano in difficoltà.

Emblematico il rapporto del presidente democratico con il sottosegretario di Stato Victoria Nuland, già consigliere di Cheney nell’Amministrazione Bush jr e artefice disastrosa del colpo di Stato che nel 2014 favorì e finanziò il defenestramento del poco atlantista presidente ucraino Yanukovich: un atto sgradito da alcuni governi europei, che Nuland mise in riga con parole sguaiate, in una telefonata con l’ambasciatore Usa in Ucraina (“Fuck Europe!”). Kissinger regola così i conti con i neocon: “L’esito preferito da alcuni è una Russia resa impotente dalla guerra. Non sono d’accordo. Nonostante la sua propensione alla violenza, la Russia ha dato contributi decisivi, per oltre mezzo millennio, all’equilibrio globale e al bilanciamento delle forze. Il suo ruolo storico non va degradato” («The Spectator», 17.12.2022).

Il messaggio è chiaro: non degradare la Russia ed evitare che l’Amministrazione, mal consigliata da chi vuol piegare la Russia e infeudare l’Europa, si mostri incapace di riordinare i rapporti con la Cina. Andando a Pechino dal vecchio amico Xi, Kissinger è consapevole che Cina e Russia sono oggi il punto di riferimento di un’ampia maggioranza di Paesi del “Sud globale”. Al tempo stesso zittisce i vaneggiamenti di Edward Luttwak, l’esponente neocon che suggerisce a Washington di accettare la spartizione dell’Ucraina per meglio dedicarsi alla liquidazione violenta del “dittatore mussoliniano” Xi Jinping. Assistiamo allo scontro fra realpolitici e neoconservatori, in vista delle Presidenziali americane, con l’Unione europea e i suoi Stati che stanno a guardare. Ursula von der Leyen è l’equivalente europeo di Victoria Nuland; Josep Borrell, rappresentante per la politica estera Ue, riceve gli elogi di Luttwak per i suoi accenni sciagurati al bel giardino europeo assediato da giungle ostili.

Il tracollo della Realpolitik nelle relazioni internazionali è avvenuto dopo la fine del Patto di Varsavia e dell’Urss. A partire dagli anni Novanta, gli occidentali si presentano come vincitori della Guerra fredda, legittimati a dominare il pianeta con quella che Clinton chiama “democrazia di mercato”. Comincia allora l’era delle guerre di regime change: in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. Si accodarono anche le sinistre “liberal”, in Europa e Usa: sono state le più bellicose, e hanno screditato durevolmente i “valori” e i “diritti umani” che pretendevano di difendere con missili e bombe a grappolo.

La geopolitica rianimata da Kissinger è fondata sulla teoria delle sfere di interesse, che vanno rispettate se si vuol mantenere l’equilibrio globale dei poteri. Se durante la Guerra fredda fu possibile avviare la distensione fra Est e Ovest, e fra Ovest e Cina, è perché le tre potenze riconoscevano le rispettive sfere d’influenza. Dalla crisi di Cuba si uscì grazie a tale riconoscimento reciproco.

Detto questo, va ribadito che Kissinger ha anche prodotto disastri nella propria sfera geopolitica, cioè in America Latina. È il suo lato criminoso. Fra il 1969 e il 1977 favorì l’avvento di regimi sanguinari in Cile e Argentina. Lanciò su ordine di Nixon l’Operazione Condor, provocando colpi di Stato in Bolivia, Brasile, Paraguay, Uruguay. In Argentina e Cile si avvalse del sostegno dell’estrema destra italiana e della P2 (Stefano Delle Chiaie, Licio Gelli). Prima di morire ucciso dalle BR, Aldo Moro fu avvertito da Kissinger: se apri ai comunisti la pagherai, gli fece capire. Kissinger intimorì indirettamente Berlinguer, spingendolo a dichiarare nel giugno 1976, dopo l’assassinio di Allende e l’avvento di Videla in Argentina, che si sentiva “più sicuro sotto l’ombrello Nato”. La frase sembra nata più da paura che da convinzione.

La collocazione nel campo della pace con Mosca e Pechino è l’ultimo travestimento di Kissinger. Il lato oscuro è dismesso, i cambi violenti di regimi non sono più nelle sue corde. Invece di sproloquiare su valori e giardini europei da opporre alle giungle incivili, l’Europa farebbe i propri interessi se lo ascoltasse meglio, e smettesse di sposare e scusare i peggiori misfatti statunitensi.

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Con Purgatori scompare pure il vero giornalismo

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 20 luglio 2023

Fanno piuttosto impressione i messaggi di cordoglio di tanti giornalisti per la morte di Andrea Purgatori. Si va dal semplice “Ciao” alla giusta ammirazione per le sue inchieste: su Ustica, su Emanuela Orlandi e il Vaticano, su molte indagini continuate per decenni a dispetto di depistaggi, intralci, minacce. Commuove specialmente il cordoglio dei reporter che gli erano amici. Ma non ce n’è uno, tra i giornalisti d’inchiesta, che alzi il dito e dica: continuerò le indagini che Purgatori cominciò toccando appena un lembo di verità – non mi lascerò intimidire da minacce di censura e a mia volta non peccherò di autocensura –, nessun potente potrà farmi dormire nel suo letto come accade ai reporter di guerra embedded, per l’appunto, negli eserciti graditi alla Nato.

Non che manchi il coraggio, nei cronisti e reporter delle generazioni successive a quella di Purgatori. Soprattutto non manca il desiderio di fare come lui, di insistere nello scavare per dieci-venti-trenta-quarant’anni, quando tutto congiura contro il tuo incaponimento. Quel che manca tragicamente, nel giornalismo d’inchiesta, è il committente. Contrariamente al criminale che ha alle spalle il mandante, il cronista non ha alle spalle nessuno che commissioni l’indagine, ti preservi dalle autocensure, ti permetta per decenni di non mollare l’osso neanche quando il riflettore Tv si spegne.

Perfino Sigfrido Ranucci di Report dice le cose a metà, anche se un bel po’ ne dice: “Da oggi mi sento più solo… Senza il suo coraggio, senza le sue qualità molte nefandezze sarebbero rimaste oscure. Ci ritroveremo da qualche parte, sono sicuro. E saranno cazzi loro!”. Quel che Ranucci omette di aggiungere è: caro Purgatori, indagherò anch’io sulle nefandezze che volevi veder punite e che restano tuttora oscure.

Privi di proprietari all’altezza, i giornali scritti sono morti viventi, guidati da direttori che amministrano bancarotte e funerali neanche troppo pomposi della professione. Questo il compito che assegna loro il falso committente, che si fa chiamare editore ed è in realtà un industriale o finanziere che paga per avere un giornale-lobby anziché cronisti e reporter davvero indipendenti. Son pochi i giornali decisi a smontare frase dopo frase il grumo di menzogne e accuse ai media non asserviti che persone come Marina Berlusconi presentano come verità. I giornali più venduti e meno poveri, chiamati “giornaloni”, sono spesso i più venduti anche nel senso brutto dell’aggettivo. Né è diverso in Tv. Anche le reti private fiere di non essere lottizzate sono stracolme di talk perché complici senza quattrini di poteri ostili a inchieste anticonformiste.

Non succede solo in Italia. Seymour Hersh svelò la strage di My Lai perpetrata dagli Usa in Vietnam, scoperchiò le torture di prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, ma quando scrisse cose non grate sull’uccisione di Bin Laden ordinata da Obama, il «New Yorker» gli chiuse la porta. Oggi continua le sue inchieste sulla piattaforma Substack.

Un giovane che aspiri a incaponirsi come Purgatori deve saperlo: il venir meno di un committente che punti su giornalisti indipendenti ha come conseguenza la mancanza di remunerazioni che permettano di resistere alle minacce, di rispondere No alle pressioni esterne. Purgatori fa parte di una generazione che non conosceva ancora i cronisti pagati due lire o addirittura non pagati, disposti a fare il gratuito lavoretto pur di inserirlo nel curriculum.

Mi piacerebbe leggere i messaggi di costernato cordoglio di questi ultimi (ultimi in tutti i sensi). Mi piacerebbe anche che qualcuno cogliesse l’occasione per esigere la depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa, e di ogni legge bavaglio. Non avrei la sensazione, strana e iperreale come gli incubi, di salutare un elefante del giornalismo freddato d’un sol colpo.

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Francia, banlieue in fiamme: Le Pen ringrazia

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 8 luglio 2023

Le sommosse in Francia hanno fatto tremare il Paese e la sua classe politica per vari giorni dopo l’uccisione, il 27 giugno a Nanterre, del giovane algerino Nahel M., 17 anni, freddato dalla polizia per via del “rifiuto di ottemperare” agli ordini dopo una fuga in automobile.

Si indaga anche sulla morte di Mohamed, un giovane colpito da un proiettile flashball sparato dalla polizia, fra il 30 giugno e il 1° luglio: filmava i tumulti a Marsiglia. L’arma, molto usata contro i Gilet gialli, fu allora criticata dall’Onu.

La sommossa al momento si sta spegnendo, ma scombussola tuttora la Presidenza della Repubblica e i partiti di destra, di estrema destra, delle sinistre. Ciascuno cerca di definire la propria identità usando politicamente i disastri delle banlieue, che diventano non un problema annoso da affrontare ma un pretesto. Obiettivo: decidere chi guiderà la Francia quando nel 2027 la presidenza Macron si concluderà (anche se alcuni fanno balenare la bizzarra possibilità di una modifica costituzionale che ponga fine al limite di due mandati consecutivi).

Parlano molto, i politici, ma pochi vogliono conoscere e capire quel che accade nelle banlieue, quel che spiega la straordinaria violenza in tante città e comuni: non da oggi ma da almeno quarant’anni. Ci sono state sommosse negli anni 80 e poi soprattutto nel 2005, quando il presidente era Jacques Chirac e il ministro dell’interno Nicolas Sarkozy, primo attore della risposta governativa. La convinzione del ministro poi eletto presidente era che bisognava farla finita con l’era del permissivismo, e regolare i conti, infine, con le ideologie giudicate sovversive del ’68: dunque si rivolse ai giovani rivoltosi chiamandoli “feccia” (racaille) e promise di ripulire le periferie “col Kärcher”, cioè con prodotti usati per pulire strade, automobili o muri.

La biopolitica prese il sopravvento e pervade ora il discorso dell’estrema destra (Marine Le Pen e ancor di più Eric Zemmour): gli abitanti nelle banlieue vanno trattati come oggetti da raschiare e ripulire, se non vogliono restare feccia. Vengono più che mai emarginati, etichettati in anticipo come sospetti, ghettizzati.

Ci sono alcuni elementi nuovi nelle sommosse. Prima di tutto l’età degli insorti: almeno un terzo dei rivoltosi sono adolescenti, dai dodici anni in su, e questo complica il discorso politico, la repressione e l’amministrazione della giustizia. Poi c’è la comunicazione social tra i rivoltosi, che accende fiamme istantanee. Infine pesa il fatto che la presidenza Macron è alle prese con rivolte sociali successive, diverse tra loro ma suscettibili tutte insieme di inasprire lo scontro politico: Gilet Gialli fra l’ottobre 2018 e il primo lockdown nel 2020; movimento contro la legge sulle pensioni e la politica economica di Macron, fra dicembre 2022 e il maggio scorso. Sono stati cinque anni di altissima turbolenza per Macron, ben più logoranti del maggio ’68 per De Gaulle.

La rivolta delle banlieue è tuttavia diversa dalle due precedenti proteste sociali. Non avanza rivendicazioni, neanche confusamente, non si esprime con parole ma solo con il saccheggio, le fiamme, l’urlo dell’abbandonato. Chiede innanzitutto – come nel 2005 – di essere vista. Infine non gode di appoggio popolare come avvenne con i Gilet Gialli e il movimento sulle pensioni. Dai film di Ken Loach si passa al John Carpenter di 1997: Fuga da New York. I rivoltosi sono rinchiusi in ghetti che a partire dalla rivolta del 2005 sono stati un po’ migliorati con opere pubbliche e nuove abitazioni (soprattutto a Nanterre dove la polizia ha freddato Nahel) ma che restano ghetti: se sei di quei quartieri, se hai un codice postale “sospetto”, non troverai fuori di essi né amici, né rispetto, né lavoro. Le inferriate non ci sono, i trasporti per uscire sono perfino aumentati, ma se hai la sfortuna di abitare lì, bianco o nero che tu sia, sei marchiato.

Come in parte nel 2005, i rivoltosi hanno di fronte un vuoto politico. La maggior parte delle discussioni concerne il comportamento dei poliziotti mobilitati (45.000; nel 2005 ne furono mobilitati 12.000), l’uso di armi letali e l’esistenza di fazioni violente nella polizia, ben tollerate dal ministro dell’Interno Darmanin. La legge sulla sicurezza pubblica voluta nel febbraio 2017 dall’allora premier Cazeneuve rende fluido il confine tra legittima difesa e diritto a sparare in caso di “rifiuto di ottemperare”. La legge è confutata a sinistra, in primis da Mélenchon. Contestate sono in genere le misure sull’ordine pubblico sempre più simili a quelle contro il terrorismo. Ma queste contestazioni non equivalgono a occuparsi delle banlieue.

Che avvenire si può immaginare per la classe politica? L’estrema destra profitta della rivolta più di ogni altro partito e più di Macron. Marine Le Pen si presenta come garante più efficace dell’ordine, e ha accanto a sé, più come rivale che come comprimario, un personaggio ancora più estremista e incendiario di lei: Éric Zemmour, il giornalista-intellettuale che si candidò alle ultime Presidenziali. Per Zemmour la Francia è alle prese con una guerra civile ormai permanente tra francesi e immigrati alieni. Macron che ha visitato Marsiglia è andato, secondo lui, a omaggiare una “città che non è più francese”. La sua solidarietà va ai sindacati di polizia come Alliance, che parla di “guerra”, di “orde selvagge” e di “parassiti”. La vera egemonia sulla destra (compresa quella dei repubblicani di Eric Ciotti) la esercita Zemmour. Queste idee coprono oggi un arco molto più vasto, in Europa, che giunge sino a includere giornalisti-intellettuali con credenziali di sinistra che teorizzano – come Zemmour – il “Suicidio dell’Occidente” bianco (in Italia è il caso di Federico Rampini). La destra è così forte anche perché la sinistra è di nuovo a pezzi. Jean-Luc Mélenchon è criticato dagli alleati socialisti e comunisti per essersi rifiutato di sottoscrivere appelli alla calma, preferendo concentrarsi sugli appelli alla giustizia. È difficile che Mélenchon, attaccato da tutte le parti, resti punto di riferimento e leader delle sinistre unite alle Presidenziali del 2027.

Infine Macron. Fin dai tempi dei Gilet gialli, il presidente è profondamente malvisto a causa delle disuguaglianze sociali fomentate e degli sgravi fiscali concessi ai più abbienti. Nelle sommosse odierne il comportamento è stato all’inizio misurato, quando ha definito l’uccisione di Nahel “ingiustificabile e imperdonabile”. Ma nei giorni successivi il presidente si è rifugiato in banalità anche pericolose, distribuendo le colpe tra genitori, videogiochi e social network da censurare in tempi di crisi. Sembra non sapere quel che vuol fare, e dire. Per governare ha bisogno di una destra che si è estremizzata. Non è l’argine a Le Pen che prometteva di essere. Diceva di cercare un centro; i suoi accenni all’“illegittimità delle folle” e alla “de-civilizzazione” della Francia lo hanno dislocato ancora più a destra, e ora di permanente resta solo l’assenza di gravitas.

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Ucraina: resistenza? No, “regime change”. Il totem Zelensky si sbriciola in tv

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 3 luglio 2023

Per il momento non è dato sapere quale sarà la strategia statunitense, dopo la breve ma traumatica insurrezione di Prigožin. Se prevarrà un atteggiamento più guardingo, mosso dal timore che il crollo del potere centrale a Mosca generi un caos ingovernabile, mettendo a repentaglio il controllo di oltre 6000 testate nucleari russe (oggi dispiegate anche in Bielorussia, in risposta all’insistente domanda polacca di ospitare atomiche Nato sul modello italiano della “condivisione nucleare”). Oppure se prevarrà la bellicosa soddisfazione che regna nel governo ucraino, convinto che sia proprio questo il momento ideale per non solo battere, ma abbattere Putin.

È il “dilemma israeliano” in cui Biden è intrappolato. In effetti il rapporto Usa-Ucraina somiglia sempre più alla dipendenza reciproca che lega Stati Uniti e Stato d’Israele, e che ha permesso a quest’ultimo di sviluppare un regime di supremazia etnica che soggioga i palestinesi, equivalente all’apartheid.

Kiev vuole a ogni costo una guerra di regime change, e per questo chiede a Washington missili a lungo raggio (tra cui gli Atacms, atti a colpire terre russe, oltre ai caccia F-16). Nell’amministrazione Usa c’è chi comincia a temere, dopo le gesta di Prigožin, gli effetti catastrofici di un bellicoso cambio di regime applicato, per la prima volta, a un’imponente potenza atomica.

Tanto più impressionante, in questo quadro, la puntata di Otto e Mezzo che il 29 giugno ha affrontato proprio questi temi. Il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba, era intervistato da Lilli Gruber, Marco Travaglio e Lucio Caracciolo: una vera intervista finalmente, non gli osanna a Zelensky dei salotti di Vespa. Tutti e tre lo hanno incalzato con grande maestria, e Kuleba ha dovuto infine ammetterlo: la resistenza ucraina mira in realtà a smembrare quello che Kiev chiama impero russo; l’ultimo restato anacronisticamente in piedi, secondo il ministro, “dopo il crollo degli imperi austro-ungarico e ottomano”.

Il ministro non si cura minimamente dei dubbi espressi da Mark Milley, capo di stato maggiore degli Stati Uniti, sulla fattibilità di una vittoria ucraina che comunque non è ottenibile – Kuleba pare dimenticarlo – senza assistenza Usa. Si rallegra all’idea che Putin sia indebolito dalla secessione del gruppo Wagner. Finge inesistenti libertà linguistiche dei russofoni del Donbass, nonostante la legge che vieta l’uso del russo nella sfera pubblica. Finge inesistenti rapporti democratici con gli oppositori e la stampa, accettata in guerra solo se embedded, ligia ai comandi militari ucraini. Vede questa guerra come una partita di calcio: qui non si gioca per fare compromessi, ma per vincere!

Ecco, gli Occidentali stanno sostenendo e super-armando un governo che ha questi progetti, che non spende neanche una parola sul rischio di guerra atomica. Stanno per inserire nella Nato, al vertice di Vilnius l’11 e 12 luglio, quest’impasto di risentimento monoetnico e furia distruttiva.

Forse l’adesione sarà sostituita da garanzie di sicurezza sul modello israeliano, forse no. Resta che per la prima volta è parso sbriciolarsi – grazie alla professionalità degli intervistatori di Otto e Mezzo – l’oggetto di culto occidentale che è il totem Zelensky.

Lilli Gruber ha ricordato a Kuleba che esistono altri modi – non distruttivi – di affrontare la questione delle minoranze etnico-linguistiche: per esempio, il “pacchetto Alto Adige” negoziato da Roma con Vienna fra il 1962 e il 1969.

Travaglio ha insistito sull’accordo di pace che Kiev negoziò con Mosca nel marzo 2022, poco dopo l’invasione, e che fu bloccato in extremis dal veto di Londra e Washington. Il trattato s’intitolava “Permanente Neutralità e garanzie di sicurezza per l’Ucraina”, e prevedeva l’inserimento nella costituzione ucraina della neutralità permanente. Non era una resa: si tornava alla neutralità perpetua, costituzionalmente garantita al momento dell’indipendenza nel 1990. Messo alle strette, Kuleba ha finto di non sentire.

Infine, quando Kuleba è stato spinto ad ammettere il vero scopo ucraino – frantumazione della Federazione Russa – Caracciolo lo ha messo all’angolo chiedendo se Kiev è dunque favorevole all’incameramento di parti della Siberia da parte cinese. Anche a questa domanda Kuleba non ha risposto. È lecito domandarsi se la non risposta equivalga ad assenso.

La puntata di Otto e Mezzo colpisce perché costituisce un’eccezione nel panorama tv. Forse perché finalmente le domande sostituiscono le asserzioni, come si addice alla professione giornalistica. L’insurrezione di Prigožin suscita infatti reazioni ben diverse da quelle di Gruber, Travaglio e Caracciolo, nei giornali scritti e parlati del pensiero unico. I principali commentatori si sono mostrati euforicamente assertivi, nel diagnosticare l’indebolirsi del potere russo. Come se sapessero quel che davvero succede al Cremlino, e sognassero lo stesso sogno distruttore di Kuleba.

Anche se per ora sedata, l’insurrezione ha mostrato che il pericolo di un collasso del potere russo esiste, a cominciare dall’esercito. Che al collasso potrebbe far seguito – come auspicato esplicitamente da Kiev – lo sfaldarsi della Federazione. Le atomiche russe finirebbero in mano a poteri ben più infidi di Putin; il cosiddetto Armageddon si avvicinerebbe.

Persino quando il pericolo dell’insurrezione di Prigožin è apparso chiaro, ci sono stati giornalisti e politici che con visibile compiacimento, e all’unisono con quanto detto e non detto da Kuleba, hanno concluso che la resistenza ucraina aveva infine ottenuto questo gran risultato: Putin era debole, forse aveva i giorni contati. Vale dunque la pena assistere Kiev con invii di armi sempre più offensive e sanzioni antirusse sempre più pesanti, visto lo sfaldamento del barbarico impero che ne può discendere. Neanche per un minuto i commentatori hanno abbandonato la cecità di cui hanno dato prova da quando la guerra è de facto cominciata: non nel 2022 ma nel febbraio 2014, quando è stato evidente che il potere centrale a Kiev non intendeva in alcun modo integrare pacificamente le popolazioni russofone del Sud-Est: 14.000 circa sono i morti della guerra civile fra il febbraio 2014 e il febbraio 2022. L’annessione della Crimea resta illegale, ma non è avvenuta senza motivi, di punto in bianco.

Washington tergiversa, incerta fra due strade opposte (escalation militare ucraina, o pressione su Kiev perché accetti un negoziato e metta fine alla guerra). Quanto all’Europa, per ora sta a guardare, senza pronunciarsi sulla guerra di regime change caldeggiata da Zelensky. Anche in questo caso, chi tace acconsente di fatto. L’Europa continua a fingere ignoranza, sulle radici della guerra e gli allargamenti Nato temuti a Mosca da vent’anni. Il sì dei suoi governi all’ingresso di Kiev nella Nato conferma lo status servile –e l’egemonia nell’Ue di interessi polacchi e baltici– assegnato all’Unione europea da Stati Uniti e Nato. Borrell dixit: dovrà pur finire l’“assedio della giungla al giardino europeo”.

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Il Berlusconi che non è in noi

di domenica, Giugno 18, 2023 0 Permalink

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 18 giugno 2023

Vale la pena prendere le distanze dal lutto nazionale, quando canuti rappresentanti dell’establishment giornalistico e arcivescovi confusamente riluttanti evocano con frasi piene di caritatevole delicatezza, e di nostalgia, l’epoca della propria bella gioventù all’ombra di Berlusconi. Come se rendessero segreto omaggio a quella gioventù, più che al defunto.
Hanno preso le distanze Rosy Bindi e poi Tomaso Montanari, unico a rifiutare la bandiera a mezz’asta nella propria università. Si è rifiutato di partecipare alle esequie Giuseppe Conte, unico leader a tenersi alla larga da quello che ha chiamato, correttamente, il “parossismo celebrativo” dei giorni scorsi. C’è stato chi, inarcando sdegnoso le sopracciglia, gli ha ricordato che Almirante andò alle esequie di Berlinguer. Come se il paragone avesse senso. Come se tutti dovessimo per forza temere il famoso “Berlusconi che è in noi”.
Di Berlusconi si ricordano le gesta, ma selettivamente. Si trascura l’essenziale, e cioè come si arricchì, da bancarottiere che era, accumulando immani ricchezze. Si tacciono i patti con la mafia, stretti dal 1974 al 1992 da Dell’Utri, in suo nome (sentenza definitiva della Cassazione, 2014). Si parla di come sdoganò l’estrema destra, prima che Fini ripudiasse il fascismo, ma si tace su ben più cruciali e ramificati sdoganamenti, che hanno trasformato antropologicamente l’Italia.
Nel vocabolario Treccani sdoganare significa, per estensione, rendere socialmente accettabile un comportamento precedentemente condannato, censurato. Berlusconi ha reso oggi del tutto accettabili: l’ingresso in politica come arte per far soldi; la corruzione e l’abuso d’ufficio come peccatucci veniali (il disegno di legge annunciato il giorno dei funerali cancella l’abuso); la libertà di voto degradata a elezionismo e arbitrariamente equiparata alla democrazia costituzionale.

È stata poi sdoganata la menzogna continua: l’improponibile caccia agli scafisti in tutto “l’orbe terracqueo” promessa da Meloni, o il “piano Mattei” per l’Africa (espressione non identificata della sua neolingua). E soffriamo ancor oggi lo sdoganamento di parole incompatibili con la democrazia: gli oppositori e giornalisti critici ribattezzati odiatori o invidiosi cultori della gogna; le carriere politiche narrate come epica rivincita dei reietti (underdog). Meloni vede in Berlusconi, all’inizio un underdog come lei, il precursore della propria ascesa.

Berlusconi è il signore che ci ha fatto divenire, e apparire, peggiori. Ha sdoganato il peggio e ce l’ha lasciato.

Dissociarsi da tutto ciò vale la pena, ma sapendo che la dissociazione va usata cum grano salis, non dimenticando come Berlusconi fu spodestato. Non fu scalzato da governi di sinistra, che salvaguardarono l’insieme di leggi escogitate a difesa dei suoi soldi e del suo potere mediatico. Non l’hanno spodestato i giudici: le condanne son rare, le prescrizioni molte. L’hanno spodestato, nel 2011, l’alta finanza e l’establishment europeo.

Quello fu il suo Anno Terribile. Si scatenarono i grandi giornali stranieri: «Spiegel» in testa, che già l’aveva chiamato Il Padrino. Nel luglio 2011 il settimanale titolava in copertina: “Ciao bella!”. Nel sommario si lesse: “I mercati finanziari internazionali hanno perso la fiducia nell’Italia. Dopo 17 anni di Berlusconi il Paese è pesantemente indebitato e maturo per un cambio di governo. Uno dei Paesi fondatori dell’UE appare paralizzato dall’incapacità del suo premier, occupato innanzitutto dai suoi affari personali”. Sotto tiro era anche la sua politica russa. Il 16 novembre il potere passava a Mario Monti. Cominciava l’èra del sempreverde assioma: “È l’Europa che ce lo chiede!”.

Per chi ha investigato crimini e misfatti del leader non è facile identificarsi con l’onda perbenista e atlantista che nel 2011 scippò le battaglie degli investigatori e l’affondò. Non fu forse un golpe – Berlusconi s’è autodistrutto – ma di certo fu un torbido snodo storico che conferma con evidenza brutale la nostra sovranità limitata.

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Anatomia mancata del tracollo Pd

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 1° giugno 2023

È vero quel che dice Elly Schlein sulla disfatta del centro-sinistra alle elezioni amministrative: “Non si cambia il Pd in due mesi, il cambiamento non passa mai da singole persone. C’è molto da fare a sinistra. È un lavoro di squadra”.

Ma ci sono verità che se le ripeti si trasformano in manovre di escamotage. La squadra del cambiamento non c’è e il giglio magico di Schlein si limita a inveire contro Meloni, offre slogan e non idee proprie. E poi il cambiamento è spesso fatto da singole persone, lo sappiamo.

Quel che drammaticamente manca è l’analisi più che l’ammissione passiva-aggressiva della sconfitta, e lo sguardo autocritico sulla progressiva metamorfosi di un Pd che per 15 anni – sotto la guida di Veltroni, D’Alema, Renzi, Letta – ha rinunciato all’identità e al radicamento dell’ex Pci e dei cattolici di sinistra, nell’ansia di saltare l’era Brandt e apparire forza centrista, ligia all’Europa dell’austerità e alla scelta atlantica di riaccendere la guerra fredda contro l’Asse del Male impersonato da Putin aggressore in Ucraina e in prospettiva da Pechino. Per questo è ex sinistra e non sinistra. Al Parlamento europeo l’ex sinistra sposa le tesi del centro-destra: su Ucraina e sull’aumento degli aiuti militari, anche se finanziati spudoratamente con i soldi del Pnrr. Si dissocia ogni tanto qualche europarlamentare Pd, fin qui mai appoggiato dalla propria direzione. Fuori tempo massimo, ieri Schlein si è detta contraria non all’invio di armi, ma all’uso a scopi militari del Pnrr. Si vedrà oggi se gli europarlamentari Pd seguiranno la troppo tardiva direttiva Schlein, quando si voterà su Ucraina e Pnrr.

Giuseppe Conte queste cose le sa, e giustamente preferisce per ora separare il suo Movimento dal Pd, per meglio affrontare le elezioni europee del 2024 dove si vota con il proporzionale. Nel Parlamento europeo i 5 Stelle hanno idee spesso diverse dai socialisti, votano contro risoluzioni e direttive che rinfocolano una guerra fredda che rischia anche nel Kosovo di sfociare in conflitto per procura. Sono più esigenti dei socialisti anche sull’austerità economica, che l’Ue potrebbe reimporre dopo il Covid.

Ma anche per i 5 Stelle son giorni amari. Ogni volta che c’è un’elezione locale, i commentatori ripetono la stessa litania, peraltro corretta: il Movimento non ha radici, non ha classi dirigenti che curino i territori. Tra i motivi per cui non le ha, spicca il dogma del limite ai due mandati: un tabù. Impossibile in queste condizioni – dettate da Grillo – far nascere classi dirigenti affidabili perché durature. Il limite dei due mandati, l’appoggio al governo Draghi scambiato dal fondatore per un compagno grillino: questa l’eredità da cui Conte pur volendo non riesce ancora a emanciparsi.

Ma il punto cruciale è il disastro mentale che Pd e Conte non sanno sanare. È l’idea, ricorrente nei commenti di Schlein, che tutto quel che accade – disfatta a sinistra, smantellamento del welfare, impotenza sul clima – sia ascrivibile a una legge naturale ineludibile e non sia opera dell’uomo, politico o economico che sia. Ha detto la segretaria del Pd, credendo di spiegare l’esito del voto: “La sconfitta è netta, il vento a favore delle destre è ancora forte. È evidente che da soli non si vince”.

È significativo che pochi giorni prima Achille Occhetto, massimo sostenitore di Schlein, avesse proferito parole inaudite ma non dissimili sull’alluvione in Romagna: “È stato il Signore che ha creato la terra che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto: ‘Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta’. E ha fatto come quando mandò l’invasione delle cavallette: in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi”.

Se è stato il Vento, se è stato Dio, non esistono macchie nelle scelte del Pd che Schlein pretende riportare a sinistra, non ci sono responsabilità da assumere: comprese le sue responsabilità di vicepresidente dell’Emilia-Romagna incaricata del Patto per il Clima e del Welfare (quindi della cura del territorio, del dissesto idrogeologico legato alla cementificazione della Romagna, dei soldi non spesi per la manutenzione dei fiumi).

Nessuna differenza dall’ideologia di Meloni, che esalta patria e famiglia considerandole costitutive di quella che chiama “società naturale”. Analogamente al Pd che evoca i Venti e Dio, Meloni ha evocato la Natura, il 30 maggio in un convegno organizzato da Marcello Pera, noto per esser stato già nel 2005 fiero avversario di un’Italia e un’Europa “meticcia”, vittima – si dice oggi – di sostituzioni etniche: “Ho sempre pensato – così Meloni – che tanto la Nazione quanto la Patria fossero società naturali, cioè qualcosa che è naturalmente nel cuore degli uomini […] e prescinde da ogni convenzione. Esattamente com’è una società naturale la famiglia”. Una società naturale non si cambia.

Insensato lamentare l’assenza di “venti di sinistra”. È l’idea del vento e di Dio che punisce i romagnoli che è perversa, o diabolica visto che la teologia politica ci sommerge. La società naturale che “prescinde da ogni convenzione” – Costituzione, leggi internazionali – accantona la società politica e storica. Esclude la responsabilità dei politici, e a sinistra imbavaglia la ricerca di un’identità miseramente abbandonata da quando il Pd abbracciò la Terza Via, screditata dall’austerità e da rovinose guerre di regime change: la via di Blair, Schröder, Clinton, Obama, che sciaguratamente affonda la socialdemocrazia e la distensione di Willy Brandt. Un triste salto della quaglia, nella storia dell’ex Pci. Due Dèi, quello biblico ed Eolo Dio dei Venti, sono alla guida di un’Italia senz’alcuna sovranità se non quella detta “valoriale”. A patire le giuste punizioni divine sono i cittadini che ora hanno le scarpe nel fango.

I cittadini castigati si aggiungeranno ai milioni che non votano più, e che già sono una maggioranza. A loro converrebbe rivolgersi, non limitandosi a inveire contro Meloni ma osando un’anatomia del tracollo. L’ennesimo appello al “campo largo” di sinistra è inane se Schlein si paralizza davanti al Terzo Polo, questo grumo scomposto che s’ostina a imitare Macron, il distruttore dei socialisti. Macron in Francia naufraga, e sta mimetizzandosi con discorsi sempre più retrogradi sulla “de-civilizzazione” delle proteste sociali.

Pericolosa è l’idea di una società naturale governata da Dèi, che d’un tratto accomuna i nostri partiti. Conferma che l’escamotage e la fuga dalla realtà sono sintomi della sovranità limitata cui l’Italia si sente ed è condannata dal dopoguerra: limitazione bene evocata nel 2019 da Carlo Galli (Mulino) e oggi da Luciano Canfora (Laterza). Sui temi che contano di più – guerra, invio di armi, fisco che favorisce evasori, precariato – il principale partito di opposizione dice poco o niente.

E certo Schlein è appena arrivata, bisogna darle tempo, già così viene considerata un’estremista. Ma se arriva per dire che le “scelte già prese” sono intoccabili (è quanto ha affermato il 19 aprile sul termovalorizzatore a Roma) non si vede per far che sia arrivata. Se il Pd parla di Venti e di Dio aderendo di fatto alla “società naturale” di Meloni e all’austerità da anni presentata dall’establishment come legge naturale, allora decisamente Godot non è arrivato, nonostante tante sempre più fioche attese.

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Democrazie decidenti e vecchie trappole

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 12 maggio 2023

Prima di discutere la riscrittura della Costituzione, l’opposizione farebbe bene ad approfondire quel che Meloni intende quando elogia la “democrazia decidente”, e a chiedersi quali siano le radici di alcuni concetti a essa perversamente legati.

Il concetto di stabilità e governabilità innanzitutto, indicato come prioritario a partire dal 1975, quando tre studiosi incaricati dalla Commissione Trilaterale (Michel Crozier, Samuel Huntington, Joji Watanuki) pubblicarono un pamphlet – La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie – con l’intenzione di rispondere ai movimenti che nel ’67-’68 si erano battuti per democrazie più estese e contro la guerra in Vietnam, spaurendo le classi dirigenti.

La risposta che aveva dato Willy Brandt, quando divenne Cancelliere nel ’69, fu tutt’altro che gradita a queste classi, decise a prendersi una rivincita non solo sul Sessantotto e sull’opposizione alle guerre Usa, ma su tutti i Paesi che vantavano Costituzioni antifasciste. “Vogliamo osare più democrazia”, aveva detto Brandt. Non era la Controriforma pensata per sottomettere i protestanti del ’67-’68. La Trilaterale (un Concilio di Trento composto da Usa, Europa e Giappone) infine prevalse, con conseguenze che tuttora soffriamo.

Secondo i tre propagandisti della Trilaterale, l’ingovernabilità nelle democrazie era dovuta a un “eccesso di democrazia”, che andava eliminato “ripristinando il prestigio e l’autorità delle istituzioni del governo centrale”. Era nata la parola d’ordine del governo forte che abbassa i poteri dei Parlamenti, tiene a bada le classi popolari divenute “classi pericolose”, riduce le tutele sociali. Le Costituzioni andavano adattate a queste esigenze. Va ricordato che il Piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli fu redatto subito dopo il pamphlet sulla Crisi della democrazia e che gli “eccessi democratici” sotto accusa sono, oltre al Sessantotto, i movimenti contro la guerra in Vietnam e lo scandalo Watergate che travolse la presidenza Nixon.

A partire da quel momento prende quota il farmaco salvavita chiamato democrazia decidente, caro alla Meloni: un concetto che riecheggia le invettive ottocentesche di Donoso Cortés contro i Parlamenti dediti alle chiacchiere (clasas discutidoras) e prive di “cultura del fare”. L’invettiva di Cortés verrà ripresa da Carl Schmitt, giurista vicino a Hitler. Ma l’offensiva non si ferma qui: a riproporre la democrazia decidente, dopo la crisi dell’euro, fu l’alta finanza. Nel suo mirino: i Paesi sudeuropei – Italia, Grecia, Spagna, Portogallo – dichiarati instabili e inetti perché dotati di Costituzioni antifasciste.

Chi imboccò più spudoratamente tale sentiero fu la grande banca d’affari JP Morgan, che il 25 maggio 2013 pubblicò un Rapporto che rispolverava la ricetta della Trilaterale (poco prima alle Politiche il M5S aveva ottenuto il 25,5%: i populisti andavano fermati!). Riportiamo il passaggio chiave del Rapporto: “I sistemi politici della periferia sudeuropea sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le loro Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del Sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo [il corsivo è mio]. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

L’assalto alla Costituzione antifascista non è dunque appannaggio esclusivo di comparse come La Russa. Ha ramificazioni nei poteri forti che dominano i mercati e traggono profitti dalle guerre Nato (non solo Ucraina). I talk show che denunciano fascisti col braccio teso farebbero bene a indagare invece su riforme decisioniste che vogliono far proprie le “buone pratiche di governance” preconizzate da JP Morgan.

Nel suo ultimo libro (Tempi difficili per la Costituzione) Gustavo Zagrebelsky ritiene ideologica e pretestuosa la “Grande Riforma” istituzionale desiderata da Bettino Craxi (e Giuliano Amato) e critica l’odierno servilismo degli intellettuali (aggiungerei i giornalisti): non indipendenti, ma “arredo e, se si vuole, corredo del potere”.

I fautori della “democrazia decidente” non si limitano a prospettare riforme che migliorino la funzione dell’esecutivo (a esempio la sfiducia costruttiva tedesca, che impone a chi vuol sfiduciare i governi la contemporanea fiducia a una maggioranza alternativa). Aspirano ai modelli francese e statunitense, prediligendo la V Repubblica di De Gaulle introdotta nel 1958 e perfezionata nel 1962 con l’elezione diretta del presidente. L’obiettivo è l’abbassamento del Parlamento, del potere giudiziario e della Presidenza super partes, che sarebbe neutralizzata o liquidata, divenendo emanazione della maggioranza. Un effetto ottenibile sia con l’elezione diretta del presidente, sia con quella del premier: l’esecutivo ha comunque da prevalere, e l’equilibrio di Montesquieu tra poteri distinti svanisce (“Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”).

Perché la controriforma riesca bisogna riscrivere anche la storia. È quello che fanno gli avversari della Costituzione, quando nascondono il doppio naufragio del presidenzialismo statunitense – oggi alle prese con due candidati inetti come Trump e Biden – e di quello francese. Uno degli aspetti più stupefacenti dei nostri dibattiti è il prestigio di cui gode ancora Macron. Renzi e Calenda vogliono svuotare il Pd seguendo il suo esempio, e fingono d’ignorare il precipizio in cui è caduto: nel primo mandato (lunga rivolta dei Gilet gialli) e nel secondo (popolarità del movimento contro la riforma delle pensioni). È come se l’inquilino dell’Eliseo non sapesse che non è stato il programma a dargli due volte la vittoria, ma il rigetto dell’alternativa Le Pen. Da tempo non è più solo l’allungamento dell’età pensionabile che imbestialisce i francesi: l’intera politica economica di Macron è giudicata generatrice di disuguaglianze. E lo scontento concerne più che mai la “verticale del potere”: cioè la natura monarchica della Quinta Repubblica.

Guardare in faccia le insidie del presidenzialismo, prendere atto del fallimento di Macron e delle presidenze Usa, ricordare il nefasto sopravvento della Controriforma sulle promesse di Brandt alla fine degli anni Settanta: solo a queste condizioni, scegliendo stavolta l’opzione Brandt, ha senso un’ennesima Bicamerale.

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Il vuoto di Macron, egemone mancato

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 23 aprile 2023

Impossibile edificare nuove politiche limitandosi a declamazioni presto appassite, come quella di Macron sul vassallaggio europeo o del governo italiano e delle istituzioni Ue su nuovi accordi di rimpatrio verso Paesi africani, se non vengono rispettate almeno tre condizioni.

Chiarire in cosa consista il vassallaggio (anche della Francia) e dunque spiegare a se stessi la genealogia di una guerra in Ucraina scatenata tecnicamente da Putin, ma favorita da una serie di provocazioni di Washington, della Nato e dell’Unione europea; sapere sino in fondo come funziona oggi l’Unione europea e come funzionano i Paesi chiamati a riprendersi i migranti nel Sud Mediterraneo o in Afghanistan e in Pakistan; stringere alleanze ben congegnate con i Paesi che potrebbero condividere l’idea di un’Europa indipendente da Nato e Usa. Nessuna di queste condizioni è oggi rispettata. Ci sarebbe poi una quarta condizione – l’obbligo di adattare le politiche alle parole – anch’essa non rispettata. Quando è senza conseguenze, la parola è un sacco vuoto. La verità perisce non solo quando scoppia una guerra in casa ma anche, e più insidiosamente, nelle guerre per procura.

Prendiamo il vassallaggio e lo “spirito gregario” (suiviste, in francese) dell’Unione Europea, denunciati da Macron dopo la visita in Cina: vassallaggio per quanto concerne i rapporti con Russia, Cina, e l’impropria “extraterritorialità del dollaro Usa”. Denuncia più che opportuna: meglio tardi che mai. Ma il concetto diventa significativo solo se spieghi come mai – una volta appurato che Mosca è responsabile dell’aggressione del febbraio 2022 – si è scivolati a partire dal 2014 in una guerra per procura; e come mai l’Europa non trova un suo modo indipendente di uscirne presto, e lascia incredibilmente che sia il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg a dettare l’agenda, giovedì scorso a Kiev: “Il posto dell’Ucraina è nella Nato. I membri sono d’accordo. La priorità ora è che l’Ucraina prevalga in questa guerra. Proprio per questo motivo dobbiamo continuare a sostenerla militarmente”. Dove stanno l’indipendenza Ue e la fine del vassallaggio, se continuiamo a far finta che Putin non abbia mai indicato come linea rossa l’adesione di Kiev alla Nato?

Non solo: il concetto d’indipendenza cesserebbe di essere il sacco vuoto che è se Macron s’accollasse la fatica di raccogliere consensi europei, come fece Conte durante il Covid, quando convinse Merkel ad accettare un indebitamento comune avversato da Berlino per decenni. Tutto questo Macron non l’ha fatto, come se ignorasse che i Verdi tedeschi sono più atlantisti che mai e che tutto il fronte Est – egemonizzato dalla Polonia – non si sente affatto vassallo di Washington, ma piuttosto dell’Unione europea.

Non meno responsabili sono le cosiddette sinistre europee, gregarie sul fronte guerra (la sinistra francese è divisa). Elly Schlein aveva annunciato svolte decisive, ma erano proclami futili, e anche sulle parole di Macron tace. “Ereditiamo scelte già fatte e non è sul terreno delle scelte già fatte che si misura come noi proviamo a costruire ciò che c’è nella piattaforma congressuale”, ha detto mercoledì sul “termovalorizzatore” a Roma, ma l’eredità Letta pare intatta anche per l’Ucraina. In che consista la svolta Schlein, su guerra e pace, non è dato sapere. Come svoltare senza ribaltare “scelte già fatte”?

Se le cose stanno così non ha senso parlare di difesa comune europea: con quali alleanze nell’Ue? Contro chi? Contro Mosca e Pechino? O Mosca va umiliata, ma Pechino non tanto, come suggerisce il segretario al Tesoro Usa Janet Yellen (il tetto al prezzo del petrolio russo è una sua idea, Draghi s’è accodato)? L’Ue non segue Macron, secondo il quale non è nel nostro interesse schierarsi su Taiwan. Fino a oggi, difesa europea significa aumento delle spese militari, uniformi tagli al Welfare State ed equiparazione fra interessi geopolitici europei e atlantico-statunitensi, visto che torna la guerra fredda e l’Ue allargata ha stravolto l’Unione dopo la caduta del muro di Berlino. La monotona, istupidita menzione dell’asse franco-tedesco perde senso da quando l’egemone effettivo è la Polonia.

Egualmente sconsiderato è, sulle migrazioni, l’appello ai Paesi terzi in Africa perché impediscano le fughe, anche con la forza. Non dimentichiamo che l’Europa ha la faccia tosta di difendere la democrazia e i nostri cosiddetti valori, esportandoli anche con le armi. Che si guarda dal confutare l’aspirazione Usa all’unipolare supremazia sulla terra, nonostante l’opposizione della maggior parte degli Stati Onu. Non si capisce cosa c’entri Enrico Mattei con simile vassallaggio. E se dall’Ucraina spostiamo lo sguardo verso Africa del Nord, Asia occidentale, Afghanistan, dobbiamo ricrederci.

Gli Stati Europei non hanno mai fatto autocritica sulle guerre di regime change (Afghanistan, Iraq, Libia). Con la Libia abbiamo stretto accordi che dal 2017 finanziano con soldi europei e nazionali le guardie costiere e i campi di tortura che rinchiudono chi tenta la traversata del Mediterraneo. Lo stesso era accaduto nel 2016 con la Turchia (aiuti Ue per 6 miliardi di dollari), dove i migranti sono spesso rispediti nella Siria da cui erano scappati.

Lo stesso succede ora in Tunisia, con cui Italia e Ue stanno negoziando accordi che blocchino le fughe. Il guaio è che Kais Saied, presidente tunisino dal 2019, sta adottando forme violente di xenofobia (pogrom ricorrenti) verso gli immigrati dall’Africa nera. Una dichiarazione pubblicata il 17 aprile da una sessantina di associazioni certifica che “la Tunisia non è né un Paese di origine sicuro né un Paese terzo sicuro e pertanto non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco (Place of Safety, POS)”. L’Unione europea ha stanziato per la Tunisia, fra il 2016 e il 2020, più di 37 milioni di euro attraverso il Fondo fiduciario Ue per l’Africa, per esternalizzare la “gestione dei flussi migratori e delle frontiere”. Altri milioni sono in arrivo. L’Ue “sostiene Tunisi attraverso l’addestramento delle forze di polizia, la fornitura di attrezzature per la raccolta e la gestione di dati, il supporto tecnico, l’equipaggiamento e la manutenzione delle imbarcazioni per il pattugliamento delle coste e altri strumenti per il tracciamento e il monitoraggio dei movimenti”.

Quando Meloni annuncia cacce agli scafisti lungo il globo terracqueo c’è da domandarsi se sappia o non sappia quel che dice. Con quali Stati abbiamo negoziato o negoziamo il diritto a operare in acque territoriali non nostre? Oppure Meloni finge che esista una giurisdizione italiana sull’intero globo terracqueo?

Macron si presenta come nuovo De Gaulle, a parole, ma nei fatti la sua strategia è succube della strategia Usa e isolata. Le sue sono parole senza contenuto, dette per occultare dissennate politiche interne di repressione dei movimenti sociali e della democrazia parlamentare. Non è uno stratega, ma un “dilettante senza febbre da palcoscenico”, come diceva Karl Kraus dell’arte teatrale del suo tempo.

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L’Occidente: un “giardino” che ci fa feroci

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 28 marzo 2023

Si stanno pagando con decine di migliaia di morti in Ucraina gli errori, le promesse tradite, la tracotanza, l’assenza di intuito e di capacità di penetrazione con cui l’Occidente ha gestito, sotto la guida di sei amministrazioni Usa, il dopo Guerra fredda e i rapporti con la Russia.

Guida priva di sagacia, che negli ultimi trentaquattro anni ha creato caos ovunque e l’ha chiamato “ordine basato sulle regole”, rules-based international order – le regole essendo quelle statunitensi.

La Russia di Putin ha invaso l’Ucraina, ma la storia di questa violenza illegale ha radici in un passato sistematicamente occultato da chi, a Washington e in Europa, vede solo il segmento ucraino di un trentennio disastroso, che le amministrazioni Usa narrano come lotta del bene contro il male – come fantasticata ripetizione della guerra contro Hitler o favola di Cappuccetto Rosso, secondo il Papa. Qui in Occidente il bene, lì i barbari dell’inciviltà. Qui la potenza Usa, disperatamente ansiosa di apparire vincitrice della guerra fredda e unico egemone nel pianeta, lì gli Stati e popoli che quest’egemonia la rigettano perché rivelatasi incapace di produrre stabilità e convivenze incruente. È toccato a un europeo, il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, impersonare la hybris atlantista con le parole più demenziali: “L’Europa è un giardino. Il resto del mondo è una giungla, e la giungla può invadere il giardino”. Quale giardino? Quantomeno incongruo sproloquiare su giardini con la Francia di Macron sull’orlo dell’insurrezione popolare, l’Italia di Meloni che vuol abolire il reato di tortura (ma è vietato dalla Convenzione Onu contro la tortura del 1984), la Polonia affamata di guerra nucleare, le guardie costiere libiche pagate dall’Ue che sparano sulla nave Ocean Viking per rimandare in Libia, in campi mortiferi, 80 migranti in fuga verso l’aiuola europea che ci fa tanto feroci.

A queste demenze siamo arrivati – accompagnate all’invio di armi sempre più offensive, uranio impoverito compreso – e c’è ancora chi parla, serio, di ritorno della guerra fredda. Non è guerra fredda quella che uccide l’Ucraina, ma esercitazione in guerre calde tra potenze atomiche. La Guerra fredda fu violenta e bugiarda, ma mai mancò la capacità di negoziare, di scansare la catastrofe, di aprire epoche di distensione, di Ostpolitik e di disarmo.

Oggi niente chiaroscuro, è tutto nero. A più riprese si è sfiorata la pace, tra Mosca e Kiev, e ogni volta Washington e Londra hanno messo il veto e imposto il proseguimento della guerra a un’Ucraina trattata al tempo stesso come eroe e vassallo. È accaduto una prima volta il 5 marzo ’22, subito dopo l’invasione, come rivelato lo scorso 4 febbraio dall’ex premier israeliano Naftali Bennett: Putin “capiva totalmente le costrizioni politiche di Zelensky e non chiedeva più il disarmo dell’Ucraina”, Zelensky era pronto a seppellire l’adesione alla Nato (impegno iscritto nella Costituzione dal 2019). Ma venne il veto di Boris Johnson e poi di Biden (l’obiettivo secondo Bennett era “distruggere Putin” –smash Putin). Lo stesso è successo dopo la proposta di tregua in 12 punti (la pace appare solo come prospettiva) avanzata il 24 febbraio da Pechino: prima ancora di conoscere le reazioni di Zelensky e i risultati della visita di Xi Jinping a Mosca, Washington respingeva non solo la pace ma anche il cessate il fuoco.

Subito prima della visita a Mosca di Xi, tanto per mettere le cose in chiaro, la Corte penale internazionale emetteva il 17 marzo un mandato di arresto nei confronti di Putin per crimini di guerra. Washington ha applaudito, anche se una legge autorizza il presidente a usare la forza ogni qualvolta un americano è incolpato dalla Corte. Difficile trattare con chi hai appena definito un criminale. Negare l’esistenza di una guerra per procura in Ucraina cozza contro il ripetersi di veti opposti alle tregue e l’evidente interesse Usa a demolire Putin.

Qualcosa però sta accadendo fuori del piccolo recinto Nato (e dell’alleanza tra servizi segreti dei cosiddetti “Five Eyes”: Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito). Qualcosa di planetario che il conflitto dissigilla. Due terzi dell’umanità sono contro guerra e sanzioni. L’egemone ha clamorosamente fallito in Afghanistan, dopo vent’anni di guerra. Ha fallito in Iraq, Libia, Siria. Ha partorito mostri come lo Stato Islamico. Da oltre mezzo secolo ignora l’occupazione illegale della Palestina e accetta la “clandestinità” dell’atomica israeliana. Gli Stati Uniti sono più che mai egemonici dunque vittoriosi nell’Ue, ma collassano nel Sud globale: un territorio sempre più ostile all’interventismo Usa, più rassicurato da Cina e Russia. È il “momento Suez” degli Stati Uniti, dicono alcuni, evocando il fiasco di Londra, Parigi e Tel Aviv quando sfidarono Nasser occupando militarmente il canale egiziano nel 1956.

Il passato occultato da governi e giornali mainstream, in Occidente, sta già passando da quando è entrato in scena, con forza inattesa e formidabile, il nuovo attivismo di Pechino: prima con il piano di tregua in Ucraina, il 24 febbraio, seguito dalla visita di Xi a Mosca il 20 marzo; poi con la riconciliazione fra Iran e Arabia Saudita patrocinata da Xi, il 10 marzo. La riconciliazione scompiglia radicalmente il Medio Oriente allargato. Rassicura Assad in Siria, spunta i piani bellici israeliani, facilita la pace in Yemen, tranquillizza lo Stato afghano, che teme nuovi interventi Usa di “regime change”. A Iran e Arabia Saudita è stata prospettata l’adesione al gruppo non allineato dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica): una vistosa promozione.

È consigliabile la lettura del rapporto pubblicato il 20 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, intitolato “L’egemonia Usa e i suoi pericoli”. Si parla di una quintupla egemonia, sempre più destabilizzante: egemonia politica (esportazioni della democrazia che “producono caos e disastri in Eurasia, Africa del Nord, Asia occidentale”), militare (uso sfrenato della forza), economica (egemonia del dollaro, politiche predatorie), tecnologica, culturale.

Il piano cinese sull’Ucraina è vago, certo. Volutamente vago. Ma letto assieme al testo sull’egemonia Usa diventa una forma di empowerment, di coscienza della propria forza condizionante. Il primo punto dovrebbe piacere a Kiev e a Mosca, visto che difende la sovrana integrità territoriale di tutti gli Stati Onu, e si accoppia a esigenze precise: applicazione non selettiva della legge internazionale (punto 1); architettura di una sicurezza europea senza espansioni delle alleanze militari (punto 2); neutralità delle operazioni umanitarie (punto 5), fine delle sanzioni unilaterali (punto 10).

Tra le righe, quel che si legge è un’alternativa al disordine causato dal suprematismo Usa. Inutile temere il passaggio dall’unipolarismo al multipolarismo: sta già succedendo, benvenuti nella realtà. I Brics contestano anche l’uso politico del dollaro. Gli scambi tra Cina, Russia, Arabia Saudita e Iran non avverranno più in dollari. È l’inevitabile trauma che viviamo. È la conferma solenne che oltre il giardino c’è ben più di una giungla.

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Schlein, non basta dire “novità”

di Barbara Spinelli, «Il Fatto Quotidiano», 7 marzo 2023

Se davvero vuol rappresentare una novità, e riportare in vita il Partito democratico, Elly Schlein non potrà ignorare un fatto difficilmente confutabile: la resurrezione di un pensiero profondo, su guerra e migranti, non coincide al momento con l’europeismo, articolo di fede imposto a chiunque voglia governare o legittimamente opporsi o dirigere un giornale mainstream.

Invocare l’Unione europea così com’è oggi – impossibile distinguerla dalla Nato, europeismo e atlantismo son diventati sinonimi – significa consentire alla sua esorbitante e crescente militarizzazione, sia quando si adopera per prolungare la guerra in Ucraina, sia quando risponde al disastro di Crotone con promesse di presidi ancor più impenetrabili delle proprie frontiere (lettera di Ursula von der Leyen ai capi di governo in vista del vertice Ue del 9 febbraio).

Il più micidiale tetto di cristallo non è oggi il divieto opposto alle donne aspiranti al comando. Il tetto di cristallo è il conformismo di gruppo – detto anche groupthink – che ostracizza ogni dissenso su guerra e migrazione.

La guerra innanzitutto. L’Unione in quanto tale sta seguendo pedissequamente i dettami di una Presidenza Usa tuttora influenzata dalla lobby dei neoconservatori (già responsabili di guerre totali tese a cambiare regimi in Afghanistan, Iraq, Libia, in prospettiva Iran tramite Israele), e ansiosi fin dal 2014 di immettere Ucraina e Georgia nella Nato per meglio minare i confini della Russia. Della lobby fanno parte Biden, il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, Hillary Clinton, l’attuale sottosegretario di Stato Victoria Nuland, già nota per aver promosso il colpo di Stato ucraino del 2014 sapendo di “fottere” l’Europa (“Fuck Europe!”, disse all’ambasciatore Usa a Kiev). Le parole proferite dalla Von der Leyen non sono diverse dagli appelli di Hillary Clinton ai collaboratori di Putin, perché rovescino il loro capo: questo è l’obiettivo degli occidentali, cioè di chi aspira non già all’ordine internazionale ma a un caotico rules-based world order, un “ordine mondiale fondato sulle regole” bellicose prescritte da Washington ai satelliti europei e asiatici.

Nelle élite italiane non esiste contrasto di opinioni sull’Ucraina, con l’eccezione di Conte che durante il governo Draghi votò l’invio di armi ma nutrì presto dubbi sugli invii senza sbocchi negoziali. Il Pd invece non conosce dubbi, né con Letta né con Schlein. Da quando Mosca ha inopinatamente invaso l’Ucraina è stato uno dei più ardenti fautori non tanto della resistenza all’aggressore, ma dell’escalation di una guerra che è per procura, essendo prolungata da Washington per abbattere Putin e forse smembrare la Russia, se si considera la natura sempre più offensiva delle armi garantite a Kiev e le ripetute offensive ucraine in territorio russo.

C’è da temere che Elly Schlein continui a tergiversare su questa questione. Reclamare negoziati è fatuo, se si insiste nell’invio di armi e non si indica chiaramente cosa potrebbe cedere Mosca e cosa Kiev, perché l’ecatombe finisca. In sostanza non viene smentito quel che garantirono Draghi e Letta: le armi favoriranno la trattativa. L’equazione non ha funzionato. Non basta l’invito retorico alla “pace giusta”, specie se decisa sul terreno di battaglia.

Lo stesso si dica sulle sanzioni, che l’Ue privilegia dal giorno in cui la guerra è cominciata: non nel febbraio 2022 ma nel 2014, quando Kiev mobilitò i neonazisti del battaglione Azov contro il Donbass secessionista e Mosca incamerò la Crimea. Nove anni di sanzioni non hanno impedito la sconsideratezza di Putin, e il loro inasprimento ha atterrato noi più che l’economia russa. Ha semmai accentuato la volontà del Cremlino di dar vita a un ordine internazionale non più unipolare ma multipolare, con India e Cina protagonisti. Ha rafforzato i rivali oltranzisti di Putin. E ha accresciuto la sudditanza europea a una strategia Usa che punta a disintegrare la Russia in vista dello scontro decisivo con Pechino. In questo Grande Gioco l’Ue conta zero, l’Italia ancor meno di zero, e gli appelli alla sovranità strategica europea sono fame di vento.

Viene poi la politica migratoria. Schlein ripete che solo l’Europa può rintuzzare gli scempi di Giorgia Meloni, ma l’Unione è da tempo in favore di accordi con Paesi del Nord Africa e con Turchia volti a “esternalizzare” le politiche di asilo: anche questo è “pensiero di gruppo” e Meloni è in ottima compagnia. Lo era nel 2017 quando Gentiloni era presidente del Consiglio e Marco Minniti ministro dell’Interno, e quest’ultimo concluse un memorandum con Tripoli accettando che i migranti venissero riportati nei mortiferi lager libici e imponendo regole restrittive alle Ong che fanno Ricerca e Salvataggio.

Il naufragio di Crotone non sorprende. Si poteva evitare, se l’Italia e l’Unione europea si fossero dotati di una politica di Ricerca e Salvataggio (Sar) dopo l’abbandono dell’operazione Mare Nostrum: operazione che l’Ue si rifiutò di europeizzare. Queste cose Elly Schlein non le dice, pur sapendole. Denuncia opportunamente la cialtroneria del ministro dell’Interno Piantedosi (denota abissale ignoranza l’uso della frase di Kennedy: che i profughi evitino di “mettere in pericolo i figli” e pensino non a se stessi ma “a quel che possono fare per i propri Paesi”) ma non dice che la militarizzazione delle frontiere – nel caso di Crotone le operazioni poliziesche della Guardia di finanza anziché l’invio in mare della Guardia Costiera specializzata in Ricerca e Salvataggio – è una scelta fatta propria dall’Unione, non solo dall’Italia.

Schlein ripete spesso che la revisione del Trattato di Dublino approvata nel 2017 dal Parlamento europeo (relatrice Cecilia Wikström, liberale, Schlein era relatrice-ombra per il gruppo socialista) fu avversata dall’estrema destra. Ma non può non sapere che il rapporto Wikström era giusto un primo passo, e non avrebbe mai ottenuto l’approvazione degli Stati membri sui ricollocamenti “automatici” e non semplicemente volontari dei profughi che approdano prioritariamente in Italia e Grecia.

Anche in questo caso non basta ricordare che i migranti fuggono da guerre e dispotismi, e per legge hanno diritto all’asilo. È l’ora di dire che gran parte di quelle guerre e carestie le attizziamo noi occidentali con sanzioni o investimenti predatori che impoveriscono i popoli, e con guerre di “cambi di regime” che fanno comodo geopoliticamente (non fa comodo, invece, difendere i palestinesi dall’occupazione israeliana). Delle conseguenze di tali guerre siamo responsabili.

Il Pd si rinnoverà quando criticherà radicalmente non solo la destra al governo, ma anche l’Europa di oggi. Un po’ come fece Giuseppe Conte durante il Covid, quando costruì un’alleanza fra nove Paesi membri (tra cui Francia e Spagna), decisi a ottenere un comune indebitamento Ue e un Recovery Plan che superasse la nefasta divisione fra l’austerità imposta dai Paesi creditori e la sottomissione dei debitori. Fu l’ultimo gesto dignitoso dell’Unione europea.

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