Integrazione dei migranti e mercato del lavoro

Bruxelles, 15 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni “Piano d’azione sull’integrazione di cittadini di paesi terzi”

  • Esposizione della Commissione

Vorrei chiedere alla Commissione quale sia il suo pensiero a proposito del rapporto sempre più complicato fra esigenze di integrazione di migranti e rifugiati, difesa del welfare, e leggi che nei vari Paesi dell’Unione regolamentano il mercato del lavoro. Chiedo questo perché molte delle paure che emergono negli Stati membri, e soprattutto nelle classi popolari, nascono dal timore di perdere diritti legati al Welfare state e di subire una sorta di competizione al ribasso tra forze lavoro, collegata all’aumento del fenomeno migratorio. Sono paure che possiamo non condividere, ma che riflettono una realtà con cui urge fare i conti.

Rivolgo questa domanda alla Commissione poiché ritengo che la regolamentazione del mercato del lavoro, e dunque le leggi sul lavoro, non siano più, di fatto, esclusiva competenza degli Stati Membri. Le riforme del mercato del lavoro, e la crescente precarizzazione che esse producono, sono richieste che provengono direttamente dalle istituzioni europee: sia nel corso del cosiddetto “semestre europeo”, sia attraverso le lettere inviate dalla Banca Centrale Europea agli Stati in difficoltà, come è avvenuto in Italia e in altri Paesi dell’Unione negli anni scorsi. Quello che nello specifico viene costantemente chiesto, in tali occasioni, sono appunto riforme del mercato del lavoro che generalmente vanno nella direzione di una precarizzazione crescente. Per questo mi rivolgo alla Commissione, sperando che la risposta non sia: “Queste scelte sono nelle mani degli Stati membri”. Perché non lo sono più.

E-democracy contro comando dall’alto nell’Unione

Bruxelles, 15 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “e-democrazia nell’Unione europea: potenziale e sfide” (Relatore Ramón Jáuregui Atondo – S&D Spagna) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO). 

(Il dibattito in Commissione è avvenuto mercoledì mattina, prima dell’uccisione della deputata inglese Helen Jo Cox)

Punto in agenda: Esame del documento di lavoro aggiornato

Ringrazio il collega Atondo per l’eccellente lavoro che ha svolto sulla e-Democracy e sulle opportunità offerte, più generalmente, alla democrazia diretta. Lo ringrazio anche per aver incluso molti punti che avevamo presentato nella riunione dell’aprile scorso. Sinceramente mi dispiace che sia stato ridimensionato il preambolo, laddove richiamava con maggiore precisione le cause della disaffezione dei popoli e che personalmente non consideravo ideologico ma, come già dicevo nella nostra ultima discussione, una fotografia molto veritiera della realtà. La mia opinione è diversa, in proposito, da quella dell’onorevole Preda (PPE).

Proprio su questo punto inviterei il Relatore a essere ancora più esplicito e più allarmato. Siamo alla vigilia del referendum del Regno Unito sull’Unione europea e la maggior parte dei sondaggi ci segnala, da giorni, la possibile vittoria del Brexit. Penso che dobbiamo incorporare nella nostra relazione questa estrema espressione di una disaffezione cittadina che non tocca solo la Gran Bretagna e che tenderà a estendersi, con o senza Brexit, a numerosi Paesi membri. E’ la ragione per cui chiederei al relatore di salvare i ragionamenti del preambolo e di farli emergere lungo tutta risoluzione.

Comincio quindi dalla premessa. Nel documento di lavoro si parla della disillusione e indifferenza dei cittadini, dell’impressione diffusa che essi hanno “di non essere rappresentati dalla politica”, della loro tendenza al distacco e alla non partecipazione. Nella Relazione menzionerei a chiare lettere che siamo di fronte a un rigetto che colpisce il progetto europeo nella sua totalità, più ancora che le istituzioni politiche e la politica stessa in quanto tali. Un rigetto che non chiamerei indifferenza, ma collera e rifiuto. Dargli il nome di populismo equivale, secondo me, a bendarsi gli occhi.

Il rigetto ha una storia al tempo stesso sociale, economica, politica, avendo toccato l’acme ieri nei negoziati tra istituzioni europee e Grecia, oggi nella campagna referendaria sul Brexit. Le due esperienze sono più vicine di quanto si tende a pensare. Nel voto favorevole al Brexit c’è una forte anche se minoritaria corrente di pensiero democratico, cui non possiamo essere indifferenti. La questione della sovranità è posta con forza – non solo sovranità nazionale ma anche sovranità popolare – e il caso Grecia è citato da molti leader inglesi favorevoli all’uscita dall’Unione. Nella democrazia europea si è creato un divario tra “demos” e “kratos”, tra popolo e quella che viene chiamata governance, che è poi comando esercitato dall’alto, praticamente senza controlli. Questo mi sembra il punto dolente da far emergere nella risoluzione.

Passo ad alcune parti propositive, sempre avendo in mente questa premessa cruciale. All’insoddisfazione e alla collera dei cittadini, le istituzioni europee reagiscono come se non fossero interpellate. Per questo insisterei sulla formidabile inadeguatezza mostrata dalla Commissione in tanti suoi comportamenti e, in particolare, nella risposta data al Parlamento in merito alla Risoluzione sull’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE). Cito un solo passaggio della risposta in questione: “La Commissione considera che a soli tre anni dalla sua entrata in vigore, sia ancora troppo presto per promuovere una revisione legislativa del regolamento”. Una frase che rivela la sordità della politica e delle istituzioni di fronte alle istanze avanzate dai cittadini attraverso strumenti di democrazia diretta. Quel che la Commissione dice nella sostanza è: “È ancora troppo presto per ascoltare la voce dei cittadini”, dunque per democratizzare l’Unione.

Ancora, entrando nel merito delle proposte e riferendomi al capitolo su “La possibile rotta da seguire”, mi limito per il momento – e in attesa di presentare miei emendamenti – a sottolineare un punto. Quando si dice che la tecnologia digitale potrebbe aiutare a “migliorare la governance nel processo decisionale”, consiglierei al Relatore di non fermarsi qui. Considerata la crisi e il deficit democratico dell’Unione, l’obiettivo non deve essere l’accresciuta efficacia della governance ma, in primo luogo, una partecipazione cittadina che non sia solo un enunciato performativo ma diventi realtà. Altro obiettivo da perseguire: una vera trasparenza delle decisioni comunitarie, che dia ai cittadini il senso di non essere aggirati e lasciati all’oscuro dalle istituzioni europee. E’ il motivo tra l’altro per cui, fin dal 20 aprile, ho insistito sul fatto che la e-Democracy deve essere un processo, non un’esperienza che si riduce al punto terminale rappresentato dal voto.

In conclusione, è la costruzione europea che deve a mio parere trasformarsi, e questa Relazione è una buona occasione per dirlo. Oggi, questa costruzione europea è percepita come un esercizio di potere top-down. Dovrà ripartire dalla sovranità cittadina e dai popoli, e inaugurare nuove pratiche bottom-up. Altrimenti il dramma vissuto ieri sul Grexit e oggi sul Brexit saranno l’inizio della fine del progetto europeo.

Turchia: contro la liberalizzazione dei visti oggi

Strasburgo, 9 maggio 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione straordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Terza relazione sui progressi compiuti dalla Turchia per soddisfare i requisiti della tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti – Esposizione della Commissione

Grazie Presidente.

Vorrei innanzitutto ricordare che venerdì scorso il Presidente Erdoğan ha detto che non ha alcuna intenzione di cambiare le leggi antiterrorismo – come richiesto dalla Commissione UE –  in cambio di una liberalizzazione dei visti. I giornalisti dissidenti, i militanti curdi, gli accademici che criticano il governo continueranno perciò a essere considerati terroristi.

Sul tema in esame, vorrei chiedere alla Signora Marta Cygan, qui presente in rappresentanza della Commissione, se ci può indicare nello specifico cosa succederà se alcuni “benchmark” essenziali – cioè i requisiti più importanti della tabella di marcia per la liberalizzazione dei visti – non verranno soddisfatti, visto che al momento non lo sono . Chiedo inoltre alla Commissione, come forma di rispetto nei confronti di questo Parlamento, di mettere nero su bianco e illustrarci in modo chiaro e nella massima trasparenza, come sono rispettati, o non sono rispettati, tutti i 72 benchmark posti al governo turco, considerando che sino ad ora le parole pronunciate dalla Commissione a proposito della Turchia hanno lasciato molto a desiderare. Vorrei ricordare che, appena pochi giorni fa, il Commissario Timmermans ha affermato – e cito testualmente – che “i progressi fatti dalla Turchia sono impressionanti”. Quanto al trattamento dei rifugiati, vorrei richiamare qui una frase del Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, pronunciata il 23 aprile scorso. Cito: “La Turchia è al momento il migliore esempio, per il mondo intero, di come dovrebbero essere trattati i rifugiati” (Today Turkey is the best example for the whole world on how we should treat refugees. No one has the right to lecture Turkey what you should do. I am very proud that we are partners). Sottolineo il passaggio cruciale: “Il migliore esempio per il mondo intero”. Chiedo quindi nuovamente alla Commissione e alle istituzioni UE di spiegarci i criteri con cui vengono valutati i 72 “benchmark”, e soprattutto di immergersi finalmente nella realtà, con le loro dichiarazioni e prese di posizione: cioè di guardare in faccia quello che sta realmente accadendo in Turchia.

L’accordo Ue-Turchia è un trattato internazionale o uno statement?

di giovedì, Maggio 12, 2016 0 , Permalink

Strasburgo, 9 maggio 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione straordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Aspetti giuridici della “dichiarazione” UE-Turchia del 18 marzo 2016 – Presentazione a cura del Servizio giuridico del Parlamento europeo.

Vorrei chiedere innanzitutto al rappresentante del Servizio giuridico se, nel redigere il proprio parere, siano state valutate e comparate le molteplici opinioni critiche riguardanti la legalità dell’accordo in questione e se, al contempo, quest’ultimo sia stato analizzato tenendo anche conto degli accordi di riammissione stipulati in precedenza tra Grecia e Turchia, che erano autentici trattati. Chiedo inoltre se siano state valutate le conseguenze legali della sua successiva implementazione.

Le parti dell’accordo che più sono contestate dagli esperti del settore – e mi riferisco a giuristi di prestigio e ad associazioni quali Amnesty International e l’UNHCR – vengono descritte dal vostro servizio legale solo come atti politici o semplici “dichiarazioni di carattere politico”. Mi riferisco in particolare al paragrafo 1 della “dichiarazione” UE-Turchia del 18 marzo scorso, nel quale si raccomanda, in sostanza, una deportazione di massa dei rifugiati verso Turchia, e lo si fa nei seguenti termini: “Tutti i nuovi migranti irregolari che, a partire dal 20 marzo 2016, giungeranno nelle isole greche attraversando la Turchia saranno rimpatriati in Turchia” (All new irregular migrants crossing from Turkey into Greek islands as from 20 March 2016 will be returned to Turkey). Il vostro servizio legale afferma che ciò non avrà effetto sul diritto europeo e sulle direttive precedenti della Commissione concernenti la protezione internazionale. Come potete dire una cosa del genere? A tutti gli effetti, l’inciso delinea chiaramente la possibilità di refoulement collettivo.

Vorrei a questo punto soffermarmi sulla forma dell’accordo UE-Turchia: un accordo definito dapprima come deal, poi come agreement e infine come statement, quindi come mera dichiarazione, cioè come parola detta al vento. No, l’intesa che avete raggiunto non è uno statement. Quando si stipula un accordo che implica impegni reciproci, anche di natura finanziaria, siamo di fronte ad un vero e proprio trattato internazionale. Questo non sono io ad affermarlo, ma esperti di diritto europeo e diritto internazionale.

Il fatto è che un trattato internazionale presuppone, per sua stessa natura e sulla base dei Trattati europei, l’esistenza un controllo democratico sia a livello nazionale che europeo – un controllo parlamentare che, nel caso di specie e grazie al sotterfugio verbale dello “statement”, viene aggirato ed è totalmente assente. Anche gli Stati Membri infatti, attraverso i Parlamenti nazionali, dovrebbero essere posti nelle condizioni di esprimere il proprio parere.

Intervento sulla Relazione “Istituzione di un meccanismo UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali”

Bruxelles, 21 aprile 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “Istituzione di un meccanismo UE in materia di democrazia, Stato di diritto e diritti fondamentali” (Relatore: Sophie in’t Veld – ALDE)  nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda:

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Ringrazio la Relatrice per l’ottimo lavoro fatto su un dossier che è complicato, e per la consultazioni davvero ampie che ha avuto con molte ONG e portatori di interesse. Ho molto apprezzato il tentativo di trovare una base legale appropriata, che permetta di oltrepassare i limiti posti dai trattati e così procedere alla definizione di uno strumento che sia presto operativo e non richieda una revisione degli stessi nell’immediato. Allo stesso modo trovo interessanti e condivisibili le proposte inserite nella relazione: mi riferisco all’idea di istituire un fondo europeo di assistenza legale ai cittadini, nell’ipotesi di procedimenti in materia di violazioni dei diritti fondamentali e della rule of law, così come alle proposte avanzate nell’ipotesi di revisione dei trattati (penso all’abolizione dell’articolo 51[1] della Carta, all’articolo 2[2] del Trattato sull’Unione europea come base legale per procedure di infrazione, alla possibilità per i cittadini di promuovere azioni individuali di fronte alla Corte di giustizia).

A proposito del nucleo centrale del lavoro, ossia dell’accordo interistituzionale che viene annesso al rapporto vero e proprio, vorrei fare alcune considerazioni.

Trovo considerevole la Sezione I del documento, dedicata al cosiddetto “Scoreboard”, e apprezzo soprattutto la proposta di coinvolgere un ampio spettro di pareri autorevoli e indipendenti – anche se forse avrei delle riserve sul numero, particolarmente alto, di esperti individuati -, il tentativo di elaborare linee guida sicure e basate sugli sviluppi attuali nel campo dei diritti e della rule of law, di fondare la valutazione degli esperti su parametri legali certi, e – non per ultimo – di garantire il più possibile l’indipendenza dell’organo di valutazione.

Vorrei a questo punto elencare alcune riserve su tre punti:

1) Primo, il follow-up allo scoreboard. Un ruolo centrale in merito alla valutazione dello stesso è rimesso al Consiglio attraverso lo strumento del dialogo annuale. Non condivido pienamente l’idea di rimettere il controllo delle condotte degli Stati allo stesso organo che li rappresenta. Meglio forse un organo indipendente.

Allo stesso modo, ho qualche perplessità riguardo ai rimedi in caso di violazioni. L’unificazione degli strumenti esistenti permette sicuramente di aggirare una spinosa revisione dei trattati ma, allo stesso tempo e nella sostanza, non modifica lo status quo basato sul ricorso a uno strumento – l’articolo 7[3] del Trattato sull’Unione europea – caratterizzato da discrezione politica e da una sostanziale assenza di un intervento concreto della Corte di giustizia.

2) Secondo, l’analisi e il monitoraggio delle istituzioni dell’Unione quando violano diritti e rule of law. La relazione dice chiaramente che il meccanismo in esame dovrebbe applicarsi sia agli Stati Membri sia alle istituzioni. La proposta di accordo interistituzionale, tuttavia, finisce col generare un duplice sistema, nel quale oltretutto lo Scoreboard non si applica nei confronti delle istituzioni UE. A questo si aggiunga che lo strumento dell’accordo interistituzionale sembra vincolare le sole istituzioni firmatarie, escludendo dal campo di applicazione una serie di organi e agenzie molto importanti dell’Unione. A mio avviso un meccanismo realmente efficace a tutela della democrazia, della rule of law e dei diritti umani dovrebbe coprire il più ampio spettro possibile di soggetti, estendendosi a tutti quelli che operano sotto l’ombrello dell’Unione. Manca, infatti, un esplicito riferimento a istituzioni quali il Consiglio europeo e la Banca Centrale Europea, ad agenzie come Frontex o Europol, nonché a organismi informali (come l’Eurogruppo), suscettibili di violare i diritti fondamentali. L’analisi delle condotte delle agenzie potrebbe essa stessa divenire un parametro di valutazione della funzione di controllo e vigilanza esercitata dalla Commissione europea. A mio parere sarebbe inoltre essenziale andare oltre la valutazione della fase puramente legislativa e prendere in considerazione tutti gli atti suscettibili, ai sensi dell’articolo 263 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, di produrre effetti giuridici nei confronti di terzi.

3) Terzo punto e ultimo punto: i diritti sociali. Lo Scoreboard introduce espressamente la Carta dei diritti fondamentali come indicatore delle prestazioni. Tuttavia l’analisi sarebbe limitata dalle disposizioni della stessa Carta che definiscono la portata dei diritti sociali – definiti come “principi”, e quindi con rilievo inferiore rispetto ai diritti civili – in essa contenuti. Sarebbe a mio parere utile integrare la valutazione con parametri ulteriori e procedere, in futuro, a esplorare la possibilità di un’adesione dell’Unione alla Carta sociale europea del Consiglio d’Europa, e quindi di un’inclusione di tale Carta in quello che giustamente viene definito e delineato come “processo” dalla Relazione.

[1] Articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati. 2. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati“.

[2] Articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini“.

[3] Articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea: “1. Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. Il Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione permangono validi.
2. Il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni.
3. Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio. Nell’agire in tal senso, il Consiglio tiene conto delle possibili conseguenze di una siffatta sospensione sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche.
Lo Stato membro in questione continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai trattati.
4. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può successivamente decidere di modificare o revocare le misure adottate a norma del paragrafo 3, per rispondere ai cambiamenti nella situazione che ha portato alla loro imposizione.
5. Le modalità di voto che, ai fini del presente articolo, si applicano al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio sono stabilite nell’articolo 354 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.

Intervento sul Parere ‘Lotta contro la tratta di esseri umani’

Bruxelles, 21 aprile 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL del Parere “La lotta contro la tratta di esseri umani nelle relazioni esterne dell’Unione Europea” (Relatore per Parere: Bodil Valero – Verdi/ALE)  nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Esame degli emendamenti

Ringrazio la collega Bodil Valero per l’ottimo lavoro: ho presentato emendamenti che ritengo complementari al suo lavoro sulla bozza di parere.

Ho innanzitutto presentato emendamenti ove chiedo il riconoscimento di un nuovo tipo di tratta di esseri umani “a scopo di estorsione” che è spesso accompagnata da gravi pratiche di tortura nel Sinai ed è causa di numerosi omicidi e sparizioni di rifugiati eritrei vittime di rapimento. I sopravvissuti, profondamente traumatizzati, non ricevono sempre assistenza o sostegno in Europa, in quanto questo tipo di tratta non è formalmente riconosciuto dall’Unione europea. La risoluzione del Parlamento sull’Eritrea dello scorso marzo accenna già a tratte di questo genere, ed è importante dal mio punto di vista precisare le loro modalità e la loro portata nel parere di Bodil Valero .

Altri emendamenti miei e del mio Gruppo ricordano che l’UE prevede un regime speciale di preferenze tariffarie supplementari negli accordi con alcuni Stati Terzi per promuovere la ratifica e l’effettiva attuazione delle principali convenzioni internazionali sui diritti umani, sul lavoro, e sulla tutela ambientale. Inoltre, apprezzerei molto un invito, rivolto all’UE, a includere sistematicamente negli accordi internazionali dell’Unione, compresi gli accordi commerciali e di investimento conclusi o da concludere, clausole vincolanti, esecutive e non negoziabili relative ai diritti umani e alla tratta.

Infine, ho presentato emendamenti sulla dimensione di genere del fenomeno della tratta, sulla necessità che gli Stati Membri cooperino seriamente a livello giudiziario e sulla necessità di riconoscere l’affinità a livello europeo fra lo status di rifugiato e di “vittima di tratta”, come ben spiegato dalla collega Sippel (S&D): statuti che necessitano, in entrambe i casi, alti livelli di protezione e tutela contro rimpatri in Stati ove le persone rischierebbero la propria vita o l’incolumità fisica.

Ancora a proposito di e-democrazia nell’Unione Europea

di giovedì, Aprile 21, 2016 0 No tags Permalink

Bruxelles, 20 aprile 2016. Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di relatore ombra per il Gruppo GUE/NGL della Relazione “e-democrazia nell’Unione europea: potenziale e sfide” (Relatore Ramón Jáuregui Atondo – S&D Spagna) nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali (AFCO).

Punto in agenda: Esame del documento di lavoro

Vorrei ringraziare il collega Jáuregui per questo primo documento di lavoro: che sinceramente non mi appare affatto ideologico, come sostenuto dal collega del PPE. E’ un documento che fotografa l’esistente, e l’esistente è una crisi irrefutabile della democrazia.

Anche se formulati sotto forma di bozza iniziale, condivido i suggerimenti che vengono avanzati. Mi riferisco all’idea di incoraggiare la più ampia partecipazione possibile dei cittadini, di garantire un accesso generalizzato alla tecnologia tramite il superamento del digital-divide, e di promuovere la cooperazione europea al fine di favorire la massima trasparenza. Apprezzo inoltre il riferimento alla necessità di tutelare in particolare le esigenze di riservatezza e la protezione dei dati personali, che il ricorso sempre più massiccio a tali tecnologie può richiedere.

In questa prima fase, vorrei sottolineare  alcuni punti di carattere generale che mi piacerebbe vedere integrati nella futura relazione.

Primo, ritengo che lo sviluppo della e-democracy debba essere affrontato nella sua forma di “processo”, di progressione verso il punto terminale del processo democratico, punto rappresentato dal momento finale dalla decisione (che può essere un referendum, un’elezione, una deliberazione). L’analisi dell’e-democracy non può e non deve attestarsi al solo anello terminale della catena; si rischierebbe di ricorrere alla democrazia digitale solo per avvallare decisioni già assunte dall’alto, limitandosi a riaffermare lo status quo con strumenti tecnologici. La e-democracy dovrebbe svilupparsi a partire dalle condizioni che rendono possibile l’avvicinamento del cittadino e dell’elettore, in primis, allo strumento tecnologico e, per questa via, al funzionamento giorno dopo giorno della democrazia.

In questo quadro penso che prima di tutto debbano essere favorite le condizioni di sviluppo sociale della persona, che le permettano di poter partecipare attivamente a tale processo democratico. E’ il motivo per cui penso che nella Relazione dovrebbe esserci un riferimento al cosiddetto pilastro sociale europeo, che permetta di abbattere le molte barriere di ordine economico e sociale che limitano l’effettiva partecipazione dei cittadini.

In secondo luogo, considero l’e-democracy un corollario del concetto stesso di democrazia che, come tale, richiede la massima estensione dei diritti e principi che sono il fondamento della democrazia costituzionale. Anch’essa necessita di un numero di solide garanzie che siano il punto di partenza per il suo effettivo esercizio. Tali garanzie non possono che ritrovarsi nei diritti imprescindibili della persona e nella piena applicazione di tutti gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali.

Ricordo che in Italia, il 28 luglio 2015, è stata adottata dal Parlamento una Carta dei diritti in internet che riconosce tali garanzie nello spazio internet: primi tra tutti, i diritti fondamentali della persona. Sono convinta che uno strumento analogo potrebbe e dovrebbe essere adottato anche a livello di Unione.

In terzo luogo, come sottolineato anche dal Relatore, è necessario garantire il più ampio ed effettivo accesso a internet, non solo in termini di diffusione della necessaria tecnologia – che comunque deve essere il più possibile promossa con misure concrete – ma anche e soprattutto di accesso all’informazione della rete in condizioni di trasparenza. La partecipazione ai processi democratici è fondata in primis sulla conoscenza, e questa deve essere considerata secondo la logica di un bene comune globale. Il criterio dovrebbe essere quello di un accesso universale in condizioni di parità e non-discriminazione, che sia fondato sulla contemporanea eliminazione di ogni genere di limitazione nell’esercizio di tale diritto. Questo dovrebbe contemporaneamente implicare un obbligo negativo in capo agli Stati e all’Unione di astenersi dal porre barriere all’accesso, attraverso censura, limitazioni giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, etc.

Credo che in tal senso l’Unione potrebbe dare un ampio contributo anche attraverso la promozione di programmi di “e-learning” per avvicinare i cittadini allo strumento tecnologico e, parallelamente, di apprendimento dei diritti fondamentali civili e sociali quale sostegno per un avvicinamento critico allo strumento tecnologico e all’informazione. Questo a cominciare dalle scuole.

Al fine di rafforzare ulteriormente i concetti di partecipazione e trasparenza, proporrei – e proporrò come shadow rapporteur nel corso dei prossimi incontri – di menzionare un’altra serie di misure, da attuare a livello di Unione. Nello specifico vorrei citarne tre.

1) Una riforma del Regolamento 211/2011 al fine di rendere l’Iniziativa dei cittadini europei (ICE) uno strumento di partecipazione democratica obbligatoriamente preso in considerazione  e seguito da un serio follow-up, quando il numero di firme necessarie è stato raccolto. Ho trovato impressionante, per usare un eufemismo, l’autocompiacimento con cui la Commissione ha recentemente reagito alle critiche che le sono state rivolte o agli inviti di revisione dell’Iniziativa dei cittadini europei. La frase che ha utilizzato è la seguente “è troppo presto per rivedere il sistema dell’Iniziativa dei cittadini europei”.

2) Una normativa europea a protezione dei whistleblower per rendere effettivo il diritto alla libertà d’informazione quale elemento centrale del controllo democratico.

3) Penso che potrebbe essere infine auspicabile valutare l’idea dell’estensione dello strumento referendario a livello europeo.

Accession to the European Convention on Human Rights (ECHR): stocktaking after the ECJ’s opinion and way forward

di giovedì, Aprile 21, 2016 0 No tags Permalink

Intervento di Barbara Spinelli nel corso dell’Audizione pubblica organizzata dalla Commissione Affari Costituzionali (AFCO) su “Accession to the European Convention on Human Rights (ECHR): stocktaking after the ECJ’s opinion and way forward”. Bruxelles, 20 aprile 2016

Presentazione dell’Audizione:

  • Danuta Hübner, Chair of the Committee on Constitutional affairs of the European Parliament

Oratori:

  • Council Presidency: Mr Martijn DE GRAVE, Head of Legal and Institutional Affairs, Coordinator for Justice and Home Affairs (Dutch Permanent representation),
  • Commission: Hannes KRÄMER, Legal Adviser, Legal Service of the European Commission,
  • Council of Europe: Mr Jörg POLAKIEWICZ, Director, Directorate of Legal Advice and Public International Law,
  • Jean-Paul JACQUÉ, Honorary Director General, Legal Service of the Council of the European Union,
  • Professor Sonia MORANO-FOADI, Reader in Law (Associate Professor) and Director of the Centre for Legal Research and Policy Study at the Law School, Oxford Brookes University, accompanied by Dr Stelios ANDREADAKIS, Lecturer in Law from the University of Leicester
  • Mr Ricardo PASSOS, Director for Institutional and Parliamentary Affairs, Legal Service of the European Parliament,
  • Barbara Spinelli, Vice-Chair of the Committee on Constitutional affairs of the European Parliament, in sostituzione di Claude MORAES, Chair of the Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs of the European Parliament

Innanzitutto ringrazio gli oratori per i loro interessanti interventi. Vorrei cogliere l’occasione per porre a tutti voi una domanda riguardante il tema della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione e l’interpretazione che ne viene fornita dalla Corte di giustizia nell’Opinione 2/13 di cui stiamo discutendo: opinone contraria all’adesione dell’UE alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Quello che mi chiedo e vi chiedo è se questo verdetto della Corte non sia in realtà un messaggio in codice – in Italia c’è il detto: “parlo a nuora perché suocera intenda” – rivolto a noi del Parlamento e alla Commissione, con cui la Corte ci esorta a risolvere il problema della mancanza di competenza dei giudici di Lussemburgo in materia di politica estera e di sicurezza comune. La bocciatura dell’accordo di adesione su questo punto altro non sarebbe che un invito rivolto alla politica affinché finalmente conferisca una tale competenza. Io lo interpreto perciò come un appello indirizzato a Parlamento e Commissione affinché si attivino e diano una risposta assumendosi le proprie responsabilità, specialmente alla luce delle molte audizioni che abbiamo avuto sul tema. Domando quindi anche a voi se ritenete che questo possa essere il messaggio che ci viene inviato.

Mi chiedo, inoltre, se vi sia una reale necessità di modificare i Trattati per venire incontro a tale esigenza. Esiste già l’articolo 6(2) del Trattato sull’Unione europea che prescrive l’adesione alla Convenzione di Strasburgo. Come giustamente ricordava il prof. Passos gli Stati Membri, nella stesura del Trattato attuale, avevano ben chiaro in mente che l’adesione alla CEDU avrebbe rappresentato un obbligo preciso, che la Corte di giustizia non avrebbe avuto competenze in materia di politica estera e di sicurezza comune e che, pertanto, la Corte europea dei diritti umani avrebbe potuto assumere prerogative non estese alla Corte di Lussemburgo.

Naturalmente, come evidenziato nel corso della presente audizione, vi sono problemi di carattere legale, ma vi chiedo se non ci possa essere un modo per accelerare i negoziati senza attendere un’ipotetica – e improbabile – modifica del Trattato.

Avrei ovviamente altre questioni che mi piacerebbe affrontare ma, considerati i tempi, preferisco fermarmi qui. Grazie.

Di seguito un estratto dell’intervento di Ricardo Passos, Direttore per gli Affari Istituzionali e Parlamentari del Servizio Legale del parlamento europeo

It is at least clear that only two main issues are difficult: the mutual trust and the CFSP. Mutual trust is difficult to understand but, on the CFSP things are maybe more difficult. I cannot agree with Professor Sonia Morano-Foadi about the idea of proposing a reservation on the CFSP. I think this would be legally and politically unacceptable. The Parliament insisted on the very idea of having the jurisdiction of the European Court of human rights for CFSP matters, knowing very well that the Court of Luxembourg was not competent to deal with CFSP matter. But exactly because that would be an added value of the accession, that the individuals would have judicial protection for acts adopted by the Union or Member States acting on behalf of the Union on CFSP matters. But the Court said clearly in one sentence that “jurisdiction to carry out a judicial review of acts, actions or omissions on the part of the EU, including in the light of fundamental rights, cannot be conferred exclusively on an international court which is outside the institutional and judicial framework of the EU. Therefore, the fact remains that the agreement envisaged fails to have regard to the specific characteristics of EU law with regard to the judicial review of acts, actions or omissions on the part of the EU in CFSP matters“. This argument on this point is difficult to overcome.  But it is also difficult to understand because when the Member States drafted the new Treaty and article 6(2) they knew that the accession was mandatory – in accordance with article 6(2) – and they knew very well that the European Court of justice was not competent to deal with CFSP matters. So, I do not think that they did that because they were not aware. This was completely understood that the European court of human rights could be competent to CFSP matters even if the European Court of Luxembourg was not competent to deal with CFSP matters. And Parliament, as I said, in its Resolution of 19 may 2010 always said that the “accession will also compensate to some extent for the fact that the scope of the Court of Justice of the European Union is somewhat constrained in the matters of foreign and security policy and police and security policy by providing useful external judicial supervision of all EU activities“.

Sulla proposta della Commissione sulla guardia costiera e di frontiera europea

di martedì, Aprile 12, 2016 0 No tags Permalink

Strasburgo, 11 aprile 2016. Barbara Spinelli (GUE/NGL) è intervenuta durante la riunione della Commissione Parlamentare Libertà, Giustizia e Affari Interni del Parlamento europeo dedicata alla proposta della Commissione sulla guardia costiera e di frontiera europea.

Punti in agenda:

  • Esame del progetto di relazione (Relatore: Artis Pabriks, PPE – Lettonia)
  • Scambio di opinioni con la presidenza del Consiglio (Sander Luijsterburg, Primo segretario alla Rappresentanza permanente dei Paesi Bassi presso l’UE) e la Commissione europea (Joannes De Ceuster, Head of Unit, DG HOME)
  • Presentazione di un parere del GEPD a cura di Wojciech Wiewiorowski, garante aggiunto, GEPD
  • Presentazione a cura di Fabrice Leggeri, direttore esecutivo di Frontex
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Non mi riconosco in un’Europa protetta dalla “polizia di frontiera”, frutto della proposta della Commissione di istituire l’Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera, già oggi definita da molti di noi come “Agenzia per i rimpatri” o “Agenzia per le deportazioni”. Fa abbastanza impressione dover ancora pronunciare in Europa parole come deportazione. Il progetto di polizia di frontiera viene definito come efficace e rapido: sarebbe necessario includere, a mio avviso, anche gli aggettivi “giusto e rispettoso dei diritti”. Sappiamo bene che ogni progetto può essere efficace, ma anche le dittature hanno spesso questa virtù come bussola della loro azione.

Per questo motivo avrei due domande da sottoporre al relatore Pabricks e al Signor Leggeri:

 

– la prima riguarda il margine di manovra delle “squadre europee di intervento per il rimpatrio”, istituite nell’ambito dell’Agenzia, che potranno agire negli Stati membri anche contro il loro volere o senza che vi sia esplicita richiesta: vi chiederei di chiarire meglio questo punto, molto delicato;

– la seconda questione concerne le competenze della futura agenzia, che riguarderanno sia la lotta al terrorismo sia la politica di asilo. Questa mescolanza di due materie completamente diverse non mi è chiara. Il Signor Leggeri ha parlato di una fusione tra il primo e il secondo pilastro dell’Unione (unione economico-monetaria e politica estera e di sicurezza). Gli chiedo di chiarire cosa intenda a tal proposito, dal momento che la proposta include elementi di politica estera senza tuttavia contenere, al momento, alcun tipo di reale salvaguardia e tutela dei diritti fondamentali. L’agenzia, infatti, avrebbe un solo funzionario che gestisce le denunce e segue i ricorsi in caso di violazioni dei diritti. Per questo motivo credo sia impensabile e addirittura impossibile che l’agenzia possa occuparsi di politica di sicurezza interna e, contemporaneamente, di politica estera, inviando squadre di intervento nei paesi terzi ai fini di prevenzione del terrorismo.

Una collega del Gruppo ALDE ha detto oggi che dovremmo fare un “salto federale” e penso che per la prima volta potremmo trovarci, in effetti, di fronte ad una sorta di “agenzia federale” consacrata ai rimpatri dei rifugiati. Consiglio massima prudenza, nell’uso di quest’aggettivo: la forma federale non garantisce, di per sé, alcun tipo di superiore democraticità. Uno Stato può addirittura divenire più centralizzato e oligarchico, con la scusa di dar vita a una Federazione, e rompere per questa via ogni legame serio con le tradizioni federali democratiche. La proposta di istituire un’agenzia europea della guardia costiera e di frontiera, a mio parere, sembra andare proprio in questa direzione.

 

La Turchia non è uno Stato terzo sicuro: chiedo che l’accordo UE-Turchia sia sospeso

COMUNICATO STAMPA

Barbara Spinelli: «Chiedo che l’accordo UE-Turchia sia sospeso, prima che siano la Corte di Giustizia e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo a farlo»

Bruxelles, 7 aprile 2016

Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola durante la riunione della Commissione Parlamentare Libertà, Giustizia e Affari Interni del Parlamento europeo dedicata all’implementazione dell’accordo UE-Turchia, alla presenza del coordinatore per la Commissione europea Maarten Verwey.

«Secondo un’analisi legale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati del 10 marzo, il trasferimento dei richiedenti asilo da uno Stato europeo a uno Stato extra-europeo deve rispettare una serie di garanzie minime.

È essenziale anzitutto che lo Stato ricevente si assuma la responsabilità di fornire ai richiedenti asilo l’accesso al sistema di asilo, accogliendoli e permettendo loro di registrare le domande di protezione.

Lo Stato ricevente deve valutare le richieste di asilo nel merito, seguendo una procedura equa, e deve proteggere i richiedenti asilo dal refoulement, come previsto da 65 anni dalla Convenzione di Ginevra, giacché i rifugiati non devono essere ri-deportati nelle zone di guerra dalle quali sono fuggiti.

Se ai richiedenti viene riconosciuto lo status di rifugiato, lo Stato ricevente deve assicurarsi che essi possano godere di protezione in conformità a garanzie e standard internazionali.

«Attualmente nessuna di queste garanzie è rispettata dalla Turchia, per cui chiedo che l’accordo sia sospeso, prima che siano la Corte di Giustizia e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo a darmi ragione e a eliminare questa vergogna. Lo chiedono 90 associazioni europee che si occupano dei rifugiati. La Turchia non è uno Stato Terzo Sicuro.

«Voglio infine porre una domanda di fondo al rappresentante della Commissione, Sig. Maarten Verwey: quel che chiedo, è di uscire dall’autocompiacimento che mostrate in merito all’accordo UE-Turchia. Quando parlate di cifre sui rimpatri, vi prego di menzionare le centinaia di rifugiati (in realtà sono più di un migliaio, negli ultimi 7-8 mesi) che il governo turco ha respinto in Siria, violando leggi nazionali, europee e internazionali, e di tenere a mente che tra questi respinti ci sono anche bambini, rispediti in zone di guerra senza i familiari, completamente soli».