Tre domande alla Commissione sugli accordi con la Libia

Strasburgo, 12 dicembre 2017. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo.

Punto in agenda:

Situazione dei migranti in Libia. Dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Presenti al dibattito:

Federica Mogherini – Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Dimitris Avramopoulos – Commissario responsabile per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza, Commissione europea

Vorrei fare tre domande al Commissario Avramopoulos.

Primo: la sentenza della Corte europea del 2012 sul caso Hirsi. Ho riletto attentamente il verdetto che condannò l’Italia per respingimenti collettivi in Libia e il contesto è identico: la convenzione europea è di nuovo violata, e la Libia resta inaffidabile non avendo ratificato la convenzione di Ginevra. Dove sta la differenza fra il 2009 e oggi?

Secondo: la decisione presa ad Abidjan di evacuare i campi dove avvengono violenze, di attivare un gran numero di rimpatri volontari di migranti, di reinsediarne alcuni. Vorrei conoscere le procedure che saranno adottate, perché il rimpatriato chiamato a esprimere la sua volontà non si trovi a dover scegliere tra la peste e il colera. E vorrei sapere il numero delle evacuazioni: Cochetel, inviato speciale dell’UNHCR, ha dichiarato che la maggior parte dei luoghi di tortura è sconosciuta. Che Serraj controlla un territorio minimo. Ha detto ancora: “Le decisioni di Abidjan sono illusorie (they fool themselves). Ogni volta che abbiamo liberato qualcuno dai campi di detenzione, qualcun altro ha subito preso il suo posto”.

Ultima domanda: a che punto è la ridefinizione del concetto di non-refoulement, che l’Unione si propose in febbraio a La Valletta? Il proposito fu prudentemente cancellato dal comunicato; chiedo se sia tuttora all’ordine del giorno.

Lampedusa in Winter

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Bruxelles, 18 aprile 2016

Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola durante il dibattito che ha preceduto la visione del film “Lampedusa in Winter”.

Presenti in sala i deputati Angelika Mlinar, Tanja Fajon, Roberta Metsola, Cecilia Wikström, Ulrike Lunacek e Laura Ferrara. Tra gli ospiti, la giornalista Martyna Czarnowska («Wiener Zeitung») che ha mediato il dibattito, Marina Chrystoph (direttrice del forum culturale austriaco), Jakob Brossmann (regista del film) e Paola la Rosa (una delle protagoniste).

Prima di addentrarmi nelle esperienze italiane e fare alcune considerazioni in merito alle recenti proposte avanzate dal governo Renzi, vorrei ribadire che non sono fiera di questa Europa. Stiamo assistendo a un susseguirsi di naufragi e alla morte di centinaia di persone, tacitamente approvati da istituzioni comunitarie che nulla fanno per evitare simili disastri umanitari.

Non sono fiera di un’Europa che predica valori solo in senso astratto, e tanto più li invoca tanto meno li rispetta. Che preferisce ricorrere a questo termine vago – i valori sono interpretabili da ogni governo come meglio gli conviene – piuttosto che a concetti impegnativi come diritti, obblighi, leggi internazionali. Questo per meglio concentrare tutte le energie sulle politiche di rimpatri, e giustificare la svolta  avvenuta in materia in occasione dell’accordo siglato con il governo turco. Un accordo che diverse organizzazioni, tra cui UNHCR, Amnesty International, Human Rights Watch, hanno definito non rispettoso del diritto internazionale e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. A simile accordo l’Europa si aggrappa per esternalizzare la politica di asilo ed evitare di avere grane politiche in casa propria.

È perciò fondamentale utilizzare il giusto linguaggio, come ha fatto notare in questa conferenza la collega Cecilia Wikström (ALDE). Si parla di crisi di migranti, ma in realtà siamo di fronte a una crisi di rifugiati. Una crisi che in realtà non rappresenta un vero dramma per l’Europa, ma che chiaramente mette in risalto la paralisi delle istituzioni europee e dei suoi Stati Membri. La paralisi è tanto più grave se fa attenzione alle cifre, generalmente occultate nel dibattito pubblico: nel mondo ci sono oggi 60 milioni di rifugiati; un milione è arrivato in Europa nel 2015, il che equivale allo 0,2 per cento della popolazione UE. Sono numeri che dimostrano  come non ci si trovi alle prese con una calamità (in paesi come il Libano e la Giordania la percentuale oscilla fra il 15 e il 20 per cento): la calamità è percepita come tale a causa dell’incapacità dell’Unione e degli Stati membri di fronteggiarla.

Vorrei a questo punto parlare dell’Italia, iniziando dalla proposta avanzata in questi giorni dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, sotto forma di un non-paper soprannominato “Migration Compact”, e inviato alla Commissione e al Consiglio europeo. Quello che mi ha più impressionato nel documento è l’indifferenza nei confronti delle obiezioni che sono state mosse non solo da numerose organizzazioni (UNHCR, Amnesty International, Human Rights Watch), ma anche da esperti e professori di diritto (State Watch). Più precisamente, sono del tutto ignorati i sospetti di illegalità che gravano sull’accordo con Ankara, e sulle reali condizioni dei fuggitivi rimpatriati in Turchia. Sappiamo che una deriva autoritaria è in corso da tempo in quel Paese. Che il regime Erdogan sta reprimendo le popolazioni curde in una parte del proprio paese e che negli ultimi mesi ha forzatamente rimpatriato migliaia di rifugiati siriani nelle stesse zone di guerra dalle quali erano fuggiti. Proprio oggi il Presidente del gruppo politico ALDE ha chiesto d’altronde la sospensione dell’ accordo.

Di tutto questo non c’è traccia nella proposta italiana. Manca qualsiasi accenno ai diritti della persona, e soprattutto al principio del non-refoulement. Non so ancora come il piano sarà accolto dalla Commissione e dal Consiglio, ma purtroppo sembra essere abbastanza in sintonia con l’orientamento attuale della politica comunitaria in materia di asilo, immigrazione e rimpatri.

A questo proposito, vorrei richiamare due dichiarazioni del Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, che mi hanno particolarmente colpito. La prima è stata pronunciata durante un congresso del Partito popolare europeo a Madrid, i 22 ottobre 2015. Tusk ha dichiarato: “… l’ingresso troppo facile nell’Unione Europea è un potente pull factor per l’immigrazione … “. Tecnicamente non è sbagliato, se non fosse che il Presidente ha dimenticato di precisare che il principale pull factor è rappresentato dalle guerre da cui fuggono i rifugiati. E che le frontiere europee non erano nello scorso ottobre così aperte come pretendeva. La seconda dichiarazione risale al 3 marzo scorso ed è un appello pubblico a migranti e rifugiati: “… non venite in Europa, perché non serve a niente. It is all for nothing.” Di fronte a simili frasi difficile evitare la vergogna.

Al contempo, credo sia necessario mettere in rilievo le azioni positive nei Paesi dell’Unione: sono parte di una contro-narrativa che vale la pena opporre a chi fa politica attizzando paure e chiusure. Mi riferisco alle reazioni solidali dei cittadini, delle associazioni, delle famiglie, per quanto riguarda l’accoglienza dei migranti: anche queste azioni devono poter essere citate, quando si parla di best practices nell’Unione.

Vorrei, nello specifico, soffermarmi su un’iniziativa nata a Lampedusa e promossa dall’associazione Mediterranean Hope, il cui rappresentate principale è Francesco Piobbichi che ho avuto il piacere di invitare l’anno scorso qui al Parlamento Europeo. Oggi in questa sala c’è una simpatizzante dell’associazione, Paola La Rosa. Si tratta dell’esperimento di un corridoio umanitario pilota realizzato dalle Chiese Evangeliche della Tavola Valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio. Il 15 dicembre 2015 è stato firmato un accordo con i ministri italiani degli Esteri e dell’Interno, ma l’iniziativa si è sviluppata grazie a un lungo lavoro diplomatico con le autorità interessate in Libano, Marocco ed Etiopia. La base giuridica è rappresentata dall’art. 24 del Regolamento (CE) n. 810/2009 del 13 luglio 2009, che istituisce il Codice comunitario dei visti: vale a dire la possibilità di concedere visti con validità territoriale limitata, in deroga alle condizioni di ingresso previste in via ordinaria dal codice frontiere Schengen, “per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali”. Grazie al corridoio umanitario sono stati accolti un centinaio di profughi provenienti dai campi profughi in Libano. Vorrei riportarvi un’interessante osservazione fatta da Francesco Piobbichi. Se i tre miliardi che l’Unione europea ha erogato in virtù dell’accordo con la Turchia fossero stati elargiti all’associazione, questa avrebbero potuto garantire la creazione di un corridoio umanitario tale da dare accoglienza ad un milione di rifugiati. È stato calcolato, infatti, che 2 milioni di euro consentono il salvataggio di mille persone.

Infine, vorrei concludere con una riflessione sul rapporto tra Schengen e politiche di asilo. Sono molto riluttante a legare insieme le due questioni. Tuttavia, vorrei sottolineare che le politiche di asilo non devono avere lo scopo di salvare Schengen, ma piuttosto essere orientate al rispetto dei diritti e degli obblighi imposti dai trattati, dalla Convezione di Ginevra, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. I diritti fondamentali e gli strumenti a protezione di essi devono rappresentare il faro delle politiche in materia di asilo e migrazione. La risoluzione sul Mediterraneo, votata la scorsa settimana in plenaria, contiene a questo proposito elementi positivi, ma anche lacune e incertezze sul tema dei rimpatri e, soprattutto, non prende le distanze dall’accordo con la Turchia. Per questo insisto sulla necessità di sospendere l’accordo. Ne va della nostra credibilità. Ritengo sia opportuno agire subito e di nostra iniziativa, e non quando sarà la Corte di giustizia dell’Unione a imporci, forse, la sospensione.

I dieci errori del patto scellerato italiano sulla pelle di chi fugge

Articolo di Barbara Spinelli pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 19 aprile 2016. La versione inglese è uscita su openDemocracy con il titolo A migration pact not fit for purpose.

La lettera inviata dal presidente del Consiglio Renzi al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, unitamente all’allegato “Patto sulla migrazione”, denotano un’impressionante indifferenza alle obiezioni rivolte alle politiche comunitarie dall’Alto Commissariato dell’Onu sui rifugiati, da Human Rights Watch e da Amnesty International. Sono del tutto ignorati i sospetti d’illegalità che gravano sull’accordo tra Unione e Ankara, e le reali condizioni dei fuggitivi rimpatriati in Turchia, che il governo Erdogan respinge in gran numero (un migliaio negli ultimi 6-7 mesi, compresi bambini non accompagnati), nelle zone di guerra siriane da cui erano originariamente scappati. Si continua a parlare di “crisi dei migranti”, quando è ormai evidente che siamo alle prese, da anni, con una crisi di rifugiati. O per meglio dire: di una crisi dell’Unione e della sua capacità di fronteggiare un afflusso di rifugiati pari allo 0,2% della sua popolazione. Del tutto assente, nella lettera della presidenza del Consiglio come nell’allegato non paper, qualsiasi accenno all’obbligo di rispettare i diritti della persona e il principio del non-refoulement, da parte degli Stati europei come dei Paesi terzi. Simile omissione non sorprende, se si considera il piano nel suo insieme. Anche se largamente contestato, l’accordo con la Turchia è presentato come ammirevole modello per una serie di accordi simili: un modello che secondo Renzi deve essere “ulteriormente sviluppato” ed esteso ad altri Paesi africani, e in particolare a quelli che sono parte del processo di Khartoum e di Rabat (tra cui Paesi dominati da dittatori come Eritrea o Sudan). Obiettivo: una grande trattativa euro-africana, con forti promesse di assistenza finanziaria, per i rimpatri dei rifugiati e la “gestione delle frontiere” da parte dei Paesi terzi, sia di transito che di origine.

Ecco i 10 punti più preoccupanti della proposta italiana:

  1. La disgregazione dello spazio Schengen sarebbe dovuta alla “sfida migratoria”, e non a precisi difetti dei successivi Piani di azione adottati da Commissione e Consiglio dell’Unione, rivelatisi incapaci di una politica di asilo rispettosa delle leggi europee e internazionali (Carta europea dei diritti fondamentali; Convenzione di Ginevra).
  2. Nessuna menzione è fatta di altri punti di crisi geopolitica, a parte quello siriano. Nessun accenno alla guerra in Afghanistan, cui il governo italiano continua a partecipare senza render conto dell’evoluzione del conflitto. Nessun accenno al caos creato dall’intervento militare in Libia del 2011. Nessun accenno alla dittatura in Eritrea, da cui fuggono in migliaia.
  3. È discutibile la valutazione della rotta Mediterraneo centro-occidentale, riattivatasi dopo la chiusura di quella balcanica. La rotta verso l’Italia è descritta come “prevalentemente composta da migranti economici”, senza che siano fornite cifre attendibili e operando distinzioni arbitrarie e sbagliate.
  4. Nel proporre l’accordo Ue-Turchia come modello di un globale piano di rimpatri, il governo italiano invita a valutare una serie di caratteristiche dei Paesi di origine e di transito da cui partono i fuggitivi (trend economici e sociali, sicurezza, cambiamento climatico) ma non il rispetto dei diritti delle persone, e in particolare di chi sceglie di chiedere asilo fuggendo verso Paesi rispettosi di tali diritti.
  5. Il grande Patto Unione-Paesi terzi africani contempla una cooperazione globale e indiscriminata, poliziesca e giudiziaria, concernente la gestione della sicurezza lungo i confini dei Paesi terzi, la “comune” lotta ai trafficanti, al terrorismo, alla droga: mescolando quello che non può essere mescolato.
  6. Lo scopo è solo quello di ridurre la cosiddetta migrazione irregolare, omettendo di ricordare come tutti i rifugiati siano per definizione migranti irregolari.
  7. Nella cintura del Sahel (Nord Senegal, Sud Mauritania, Mali centrale, Nord Burkina Faso, Sud Algeria, Niger, Nord Nigeria, Sud Sudan, Ciad, Nord Eritrea) si propone una presenza poco definita di forze di stabilizzazione europee, che collaborino con i Paesi in questione nell’ambito della sicurezza sia esterna che interna senza chieder loro il rispetto delle leggi internazionali.
  8. In Libia si torna a prospettare un ulteriore sviluppo dell’operazione Eunavfor Med Sophia, e si pone l’accento sulla necessità di aiutare il governo più che fragile a fronteggiare sfide radicalmente diverse come i trafficanti, il terrorismo, il “management dei flussi migratori”. Si vuol “stabilizzare la Libia” per meglio rimpatriarvi i rifugiati, come nell’accordo Berlusconi-Gheddafi del 2008.
  9. La gestione del “Migration Compact” proposto dal governo Renzi è essenzialmente affidata alle nuove Guardie di frontiera dell’Unione. I compiti di Frontex vengono estesi, senza alcun accenno alle deficienze insite in un’Agenzia dell’Unione di natura poliziesca, che non si occupa, se non in casi di estrema necessità, della ricerca e soccorso dei fuggitivi minacciati da naufragi in mare, e che ha dimostrato di non esser congegnata in maniera tale da rispettare pienamente i diritti dei rifugiati, permettendo loro di appellarsi a meccanismi di garanzia giuridica e di ricorso in caso di respingimenti abusivi o collettivi.
  10. In questo quadro, l’accenno alle vie d’immigrazione legale – e alle “opportunità” che essa rappresenta dal punto di vista economico e demografico – assume un significato preciso e altamente restrittivo. Le vie si apriranno solo nella misura in cui le imprese europee si mostreranno interessate all’impiego di manodopera proveniente da Paesi terzi. Il riferimento è a una decisione presa dal Consiglio europeo nel 1999: ben prima che nascesse in Europa la crisi odierna dei rifugiati. L’espediente è notevole: si torna agli anni 90, fingendo che il presente semplicemente non esista.

Rapporto sulla situazione nel Mediterraneo: raccomandazioni di voto per il gruppo

Strasburgo, 11 aprile 2016

Intervento di Barbara Spinelli (GUE/NGL) durante la riunione del gruppo politico GUE/NGL per presentare il rapporto sulla situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio globale dell’UE in materia di immigrazione e le sue raccomandazioni di voto per il gruppo. La risoluzione sarà votata dal Parlamento Europeo il 12 aprile durante la seduta plenaria.

Il negoziato che si conclude in questi giorni è durato quasi un anno e mezzo, ed è stato difficile a causa del patto Popolari-Socialisti, i due gruppi cui appartengono i co-relatori. Avevo inizialmente pensato di consigliare il voto favorevole al rapporto, considerando rilevanti alcuni punti senz’altro positivi. Penso alla richiesta di azioni umanitarie europee di ricerca e soccorso, slegate da Frontex; al riconoscimento reciproco delle decisioni nazionali di asilo; alla protezione temporanea che contempla – è una novità – l’apertura di corridoi umanitari in cooperazione con l’UNHCR.

Da mesi, tuttavia, le politiche dell’Unione vanno in tutt’altra direzione e assistiamo a un degrado senza precedenti, di cui il rapporto non tiene completamente conto. Siamo di fronte a un accumulo di scelte, della Commissione e del Consiglio, che sanciscono al tempo stesso la chiusura delle frontiere come conditio sine qua non della sopravvivenza di Schengen e un’indifferenza di natura criminosa verso la sorte dei rifugiati.

La più decisiva di queste scelte è l’accordo con la Turchia. Un accordo che viola le Costituzioni nazionali, la Carta dei diritti fondamentali, la Convenzione di Ginevra. Non è escluso che sarà giudicato illegale dalle Corti europee. I colleghi della Commissione Libertà Pubbliche hanno potuto constatare di persona la sorda indifferenza della Commissione, quando interpellata in proposito. È il punto decisivo e discriminante, a mio parere: se passa l’emendamento di condanna presentato dal nostro gruppo, il rapporto potrebbe salvarsi.

Altri elementi del degrado europeo, accanto all’accordo con la Turchia: la chiusura della rotta balcanica – assieme alle violenze che persistono a Idomeni – i muri che si moltiplicano dentro l’Unione, gli hotspot dove i rifugiati tendono a esser imprigionati e maltrattati (a Lampedusa e Grecia), la lista di Paesi terzi sicuri, l’estensione dei poteri autonomi dell’agenzia Frontex (ridenominata Guardia Costiera), che affiancata a Eunavfor Med ottiene piena giurisdizione nei rimpatri, nei rapporti con i Paesi terzi, nella lotta al terrorismo: cioè in politica interna e anche estera.

Il rapporto Kyenge-Metsola avalla questo degrado, affermando alcuni diritti in maniera inedita ma omettendo di esaminare sia il passato (le guerre all’origine delle fughe, di cui siamo in gran parte responsabili) sia il presente e il futuro alla luce delle odierne politiche europee. La strategia del damage control che ho cercato di attuare come relatore ombra ha i suoi limiti. Un primo colpo l’ho ricevuto quando il lavoro che avevo fatto sugli emendamenti è stato annientato (168 correzioni elaborate con 25 Ong e esperti, buttate nel cestino con la scusa che il rapporto andava protetto da emendamenti dell’estrema destra).

Oggi, se rileggo il rapporto devo constatare che alcuni danni sono stati con nostro contributo limitati, e per questo non raccomanderei un No netto. Ma se alcuni nostri forti emendamenti non passano (sulla Turchia in primis, il che vuol dire in sostanza: sul non-refoulement), mi sento di raccomandare almeno l’astensione.

Rimandare i migranti in Turchia viola il principio di non-respingimento

Bruxelles, 4 aprile 2016

Barbara Spinelli rivolge un’interrogazione scritta alla Commissione europea chiedendo conto della conformità dell’accordo UE-Turchia con il divieto di respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra.

Titolo: Conformità dell’accordo UE-Turchia con il principio di non-respingimento

Considerando che, secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, sedici profughi siriani, tra cui tre bambini, sono stati uccisi dalle Guardie di frontiera turche nel tentativo di mettersi in salvo in Turchia;

Considerando che l’UNHCR ha evidenziato continue e gravi carenze nelle condizioni procedurali e di accoglienza in Turchia e in Grecia e ha precisato che in tutta la Grecia – che è stata costretta a ospitare un numero sproporzionato di rifugiati in seguito alla chiusura delle frontiere della rotta balcanica e al fallimento dello schema di ricollocazione dell’UE – numerosi aspetti del sistema di accoglienza delle persone richiedenti protezione internazionale sono ancora non funzionanti o assenti;

Considerando che i ricercatori di Amnesty International di stanza nel Sud della Turchia hanno raccolto testimonianze di siriani i quali hanno riferito che i loro parenti sono stati espulsi dal Paese in violazione del diritto internazionale, compresi i minori non accompagnati;

Considerando che l’accordo europeo con la Turchia è stato ritenuto illegale da Peter Sutherland, Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per le Migrazioni internazionali e lo Sviluppo, giacché deportare migranti e rifugiati senza aver prima vagliato le loro richieste di asilo violerebbe il diritto internazionale;

In base a quali elementi la Commissione ritiene che rimandare i migranti in Turchia non violi il principio di non-refoulement, vincolante per l’Unione europea?

Se questo è il prezzo di Schengen

Strasburgo, plenaria 16 dicembre 15

Dibattito su “Detenzione dei richiedenti asilo e uso della forza nei loro confronti”

Dichiarazioni del Consiglio e della Commissione

Alla presenza di:

Dimitris Avramopoulos, Commissario per la migrazione, gli affari interni e la cittadinanza
Nicolas Schmit, ministro del Lavoro lussemburghese, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio

Intervento di Barbara Spinelli

Leggo nel comunicato della Commissione sugli hotspot italiani che Roma deve “dare una cornice legale all’uso della forza” per il prelievo di impronte e le detenzioni prolungate. Sarà difficile, dicono i giuristi, a meno di violare due articoli della Costituzione: il 13 e 24. Mi chiedo anche come l’Unione intenda far fronte a detenzioni e violenze verso i rifugiati che si estendono: in Ungheria, Bulgaria, Polonia, Francia, Spagna. In Italia le espulsioni forzate sono attuate anche quando i giudici sospendono i rimpatri. Il governo danese confisca da domenica scorsa i gioielli dei rifugiati – anelli nuziali esclusi – per pagarne i costi.

È grave che tali misure siano presentate come urgenti e obbligatorie “per salvare Schengen”. Che il Presidente del Consiglio Europeo Tusk raccomandi 18 mesi di reclusione dei richiedenti asilo, sempre “per salvare Schengen”. Che non siano invece considerati obbligatori il non-refoulement, l’habeas corpus, la ricerca di alternative alla detenzione sistematica, la non coercizione su persone vulnerabili o minori. Non ci si può limitare a imporre solo misure repressive mentre la Carta, i trattati, il pacchetto asilo del 2013 prevedono diritti e clausole discrezionali ben più vincolanti.

Se questo è il prezzo di Schengen: No grazie! – come cittadina europea rinuncio volentieri a Schengen, senza esitare.


Si veda anche:

MEPs call for urgent action from the Commission and Council on detention and use of force against migrants

Contro gli accordi di rimpatrio in Turchia

(Discorso previsto ma non pronunciato per chiusura del dibattuto)

Strasburgo, 27 ottobre 2015

KEY DEBATE: Conclusions of the European Council meeting of 15 October 2015, in particular the financing of international funds, and of the Leaders’ meeting on the Western Balkans route of 25 October 2015, and preparation of the Valletta summit of 11 and 12 November 2015.

Presenti per la Commissione: Jean-Claude Juncker, Frans Timmermans, Federica Mogherini, Dimitris Avramopoulos.

Presente per il Consiglio Europeo: Donald Tusk

Temo gli accordi con la Turchia, perché rischiano di esser conclusi con il solo obiettivo di allontanare dai nostri confini il dramma dei rifugiati. Temo che venga avallato, con il nostro consenso, un regime che sta reprimendo la minoranza curda. Che rinchiuderà i rifugiati in campi per anni, magari mandando a scuola i bambini come ci garantisce Jean Claude Juncker, ottenendo il nostro silenzio sui diritti fondamentali violati in Turchia. Temo infine sia avallata – nella guerra in Siria – una linea turca intesa a colpire i curdi più che l’Isis. Il Presidente del Consiglio Europeo Tusk è stato esplicito: “La Turchia ci sta chiedendo di sostenere la formazione di una safe zone nel Nord della Siria, opzione che Mosca rifiuta”. Dovremmo rifiutarla anche noi: la safe zone serve solo a controllare e intrappolare i curdi in Siria.

Caro Presidente Juncker, Lei minaccia: “No registration, no right”. Sono formule del tutto inappropriate, oltre che pericolose. Ci sono diritti (a non subire violenze nelle registrazioni e nel rilevamento delle impronte digitali, al non refoulement) che sono incondizionati.