I leader di paglia dell’Unione: così sono falliti i sogni

Articolo pubblicato su «Il Fatto Quotidiano» del 29 giugno 2016

Nel Parlamento europeo di cui sono membro, quel che innanzitutto colpisce, osservando la reazione alla Brexit, è la diffusa assenza di autocritica, di memoria storica, di allarme profondo – e anche di qualsiasi curiosità – di fronte al manifestarsi delle volontà elettorali di un Paese membro. (Perché non va dimenticato che stiamo parlando di un Paese ancora membro dell’Unione.) Una rimozione collettiva che si rivela quanto mai grottesca e catastrofica, ma che dura da decenni. Meriterebbe studi molto accurati; mi limiterò a menzionare alcuni punti essenziali.

1. Quel che manca è l’ammissione delle responsabilità, il riconoscimento esplicito del fallimento monumentale delle istituzioni europee e dei dirigenti nazionali: tutti. La cecità è totale, devastante e volontaria. Da anni, e in particolare dall’inizio della crisi del 2007-2008, istituzioni e governi conducono politiche di austerità che hanno prodotto solo povertà e recessione. Da anni disprezzano e soffocano uno scontento popolare crescente. Non hanno memoria del passato – né quello lontano né quello vicino. Sono come gli uomini vuoti di Eliot: “Uomini impagliati che s’appoggiano l’un all’altro, la testa riempita di paglia”. La loro ignoranza si combina con una supponenza senza limiti. Il suffragio universale ha tutte le colpe e le classi dirigenti nessuna. È come se costoro, trovandosi a dover affrontare un esame di storia al primo anno d’università, dicessero che le cause dell’avvento del nazismo sono addebitabili solo a chi votò Hitler, senza mai menzionare le istituzioni di Weimar. Sarebbero bocciati senza esitazione; qui invece continuano a dare lezioni magistrali.

2. Nessun legame viene stabilito tra la Brexit e l’evento disgregante che fu l’esperimento con la Grecia. Nulla hanno contato le elezioni greche, nulla il referendum che ha respinto il memorandum della troika. Dopo i negoziati del luglio scorso il divario tra volontà popolare ed élite europea si è fatto più che mai vasto, tangibile e diffuso. Con più peso evidentemente della Grecia, il Regno Unito ha posto a suo modo la questione centrale della sovranità democratica, anche se con nefaste connotazioni nazionalistiche: il suo voto è rispettato, quello greco no. Le lacerazioni prodotte dal dibattito sulla Grexit hanno contribuito a produrre il Brexit, e il ruolo svolto nella campagna dal fallito esperimento Tsipras è stato ripetutamente ostentato. Ma nelle classi politiche ormai la memoria dura meno di un anno; di questo passo tra poco usciranno di casa la mattina dimenticandosi di essere ancora in mutande. È per colpa loro che la realtà ha infine fatto irruzione: Trump negli Usa è la realtà, l’uscita inglese è la realtà. Il voto britannico è la vendetta della realtà sulle astrazioni e i calcoli errati di Bruxelles.

3. La via d’uscita prospettata dalle forze politiche consiste in una falsa nuova Unione, a più velocità e costituita da un “nucleo centrale” più coeso e interamente dominato dalla Germania. Le parole d’ordine restano immutate: austerità, smantellamento dello Stato sociale e dei diritti, e per quanto riguarda il commercio internazionale – Ttip, Tisa, Ceta – piena libertà alle grandi corporazioni e ai mercati, distruzione delle norme europee, neutralizzazione di contrappesi delle democrazie costituzionali come giustizia, Parlamenti e volontà popolari.
Lo status quo è difeso con accanimento: nei rapporti che sto seguendo come relatore ombra per il Gue mi è stato impossibile inserire paragrafi sulla questione sociale, sul Welfare, sulla sovranità cittadina, sui fallimenti delle terapie di austerità.

4. Migrazione e rifugiati. È stato un elemento centrale della campagna per il Leave – che ha puntato il dito sia su rifugiati e migranti extraeuropei, sia sull’immigrazione interna all’Ue –, ma le politiche dell’Unione già hanno incorporato le idee delle destre estreme, negoziando accordi di rimpatrio con la Turchia (e in prospettiva con 16 paesi africani, dittature comprese come Eritrea e Sudan) e non hanno quindi una visione alternativa a quella dell’Ukip. La Brexit su questo punto è un disastro: rafforzerà, ovunque, la paura dello straniero e le estreme destre che invocano respingimenti collettivi vietati espressamente dalla legge internazionale e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Quanto ai migranti dell’Unione che vivono in Inghilterra, erano già a rischio in seguito all’accordo dello scorso febbraio tra Ue e Cameron. Le politiche dell’Unione sui rifugiati sono un cumulo di rovine che ha dato le ali alla xenofobia.

5. Il ritorno alla sovranità che la maggioranza degli inglesi ha detto di voler recuperare mette in luce un ulteriore e più vasto fallimento. L’Unione doveva esser un baluardo per i cittadini contro l’arbitrio dei mercati globalizzati. La scommessa è perduta: le sovranità nazionali escono ancora più indebolite e l’Unione non protegge in alcun modo. Non è uno scudo ma il semplice portavoce dei mercati. La globalizzazione ha dato vita a una sorta di costituzione non scritta dell’Unione, avversa a ogni riforma-controllo del capitalismo e a ogni espressione di scontento popolare, e in cui tutti i poteri sono affidati a un’oligarchia che non intende rispondere a nessuno delle proprie scelte. Sarà ricordata come esemplare la risposta data dal Commissario Malmström nell’ottobre 2015 a chi l’interrogava sui movimenti contrari a Ttip e Tisa: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”. Questa costituzione non scritta si chiama governance e poggia su un concetto caro alle élite fin dagli anni 70 (il vero inizio della crisi economica e democratica): obiettivo non è il governo democratico ma la governabilità. Il cittadino “governabile” è per definizione passivo.

6. L’intera discussione sulla Brexit si sta svolgendo come se l’alternativa si riducesse esclusivamente a due visioni competitive: quella distruttiva dell’exit e quella autocompiaciuta e immutata del Remain. Le cose non stanno così. C’è una terza via, rappresentata dalla critica radicale della presente costruzione europea, dalla denuncia delle sue azioni e dalla ricerca di un’alternativa. Era la linea di Tsipras prima che Syriza andasse al governo. È la linea di Unidos Podemos, che purtroppo non è stata premiata. Resta il fatto che questa tripolarità è del tutto assente dal dibattito.

7. La democrazia diretta, i referendum, la cosiddetta e-democracy. Il gruppo centrale del Parlamento li guarda con un’ostilità che la Brexit accentuerà. La democrazia diretta è certo rischiosa, ma quando il rischio si concretizza, quasi sempre la causa risiede nel fallimento della democrazia rappresentativa. Se per più legislature successive e indipendentemente dall’alternarsi delle maggioranze la sensazione è che sia venuta meno la rappresentatività e con essa la responsabilità di chi è stato incaricato di decidere al posto dei cittadini, i cittadini non ci stanno più.

Hotspot in Italia – galleggianti e non

di sabato, Giugno 18, 2016 0 , , , , Permalink

Bruxelles, 16 giugno 2016. Intervento di Barbara Spinelli nel corso della riunione ordinaria della Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni (LIBE).

Punto in agenda: Attuazione dell’approccio basato sui “punti di crisi” in Italia

  • Presentazione a cura di Olivier Onidi, vicedirettore generale per la migrazione e l’Asilo, DG HOME, Commissione europea

Nel corso della discussione è intervenuta anche Sophie Magennis, capo dell’unità di supporto politico e giuridico dell’ufficio UNHCR per l’Europea, Bruxelles

Ringrazio il dottor Onidi per la sua presentazione. Le domande che vorrei fare sono due:

Per prima cosa vorrei chiedere, sia a lui sia al rappresentante dell’UNHCR, se non esista il rischio che gli hotspot diventino in qualche modo centri di detenzione. Una denuncia molto chiara in questo senso è venuta dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR), concernente la Grecia e gli accordi tra Unione europea e Turchia. Un rischio simile esiste anche Italia.

Il secondo punto su cui mi piacerebbe avere una risposta riguarda gli hotspot galleggianti in mare. Sono contenta delle indicazioni che vengono dalla Commissione, circa la forte limitazione dei compiti che avranno gli eventuali hotspot galleggianti, ma mi domando se anche i compiti che lei ha indicato, per esempio la pre-identificazione di migranti e rifugiati, non siano eccessivi e non vadano nella direzione, esclusiva, di accelerare i rimpatri.

Vorrei ricordare che esistono due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’Italia, per l’uso che può essere fatto delle navi su cui vengono trattenuti i migranti (sentenza Hirsi Jamaa, 23 febbraio 2012, sentenza Khlaifia, 1 settembre 2015), e ricordare che solo sulla terraferma i migranti possono essere assistiti nelle loro lingue e fruire del diritto alla difesa. Tutte queste mansioni, anche se si tratta solo di pre-identificazione, sono difficili se non impossibili negli hotspot galleggianti.

Si veda anche:

Comunicato ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) del 19 maggio 2016: È illegittimo qualsiasi hotspot per identificare i migranti in mare

Versione inglese su Statewatch del 9 giugno 2016: Any hotspot to identify migrants at sea is illegal

La Turchia, l’Europa e il PKK

Articolo in portoghese pubblicato dal sito brasiliano Exame.com sulla conferenza stampa cui ha oggi partecipato Barbara Spinelli con alcuni esponenti del PKK. Di seguito, l’appello co-firmato dall’on. Spinelli.

Eurodeputados pedem a UE que elimine PKK da lista de grupos terroristas

23-02-2016

Um grupo de eurodeputados enviou nesta terça-feira uma carta ao Conselho da União Europeia pedindo a retirada do Partido dos Trabalhadores do Curdistão (PKK) da lista de organizações terroristas, com o objetivo de promover as negociações do processo de paz na região do Curdistão.

Os europarlamentares, de diferentes grupos políticos, dizem na carta, à qual a Agência Efe teve acesso, que o atual status do PKK “se interpõe no caminho do estabelecimento da paz, do diálogo e das negociações, facilita o descumprimento de direitos humanos e restringe as liberdades de pensamento e de imprensa”.

A eurodeputada italiana Bárbara Spinelli, signatária da carta, explicou à imprensa que o PKK “deveria fazer parte das negociações de paz” do conflito curdo, para o que é necessário que a UE elimine seu status atual de grupo terrorista.

De fato, na carta os europarlamentares expõem que, assim como aconteceu na Irlanda do Norte, só será possível alcançar uma solução pacífica ao conflito curdo “se forem incluídos todos os partidos envolvidos”.

“Os curdos são uma parte importante das lutas políticas no Oriente Médio, como demonstrou a resistência em Kobani, e uma solução pacífica ao conflito do Curdistão não é possível sem negociações com o PKK”, diz a carta, que ressalta que o presidente da Turquia, Recep Tayyip Erdogan, já aceitou falar com este grupo.

A eurodeputada Spinelli opinou que há um silêncio na UE com relação ao status do PKK e que isto se deve a Bruxelas “ter aceitado permanecer calada sobreo conflito curdo em troca de a Turquia manter os refugiados sírios” em seu território.

Este pedido se produz dias depois de, na sexta-feira, a facção curdo Falcões da Liberdade do Curdistão (TAK), considerada uma cisão do PKK, reivindicar o ataque com bomba contra um comboio militar em Ancara que deixou 29 mortos.

Nesse contexto, o eurodeputado cipriota Costas Mavrides (S&D), que também assinou a carta, apostou em “esperar os resultados da investigação”, mas levando em conta, acrescentou, a confiança limitada que se deve dar à administração turca, que usa “ações provocadoras para promover suas políticas”.

Os europarlamentares acreditam que é um “bom momento” e uma “oportunidade única” para pedir a eliminação do PKK da lista de organizações terroristas, por considerarem que “não se pode esperar mais” para a resolução deste conflito, e que atualmente a questão curda “goza de atenção midiática”.

Além disso, explicaram que a coleta de assinaturas começou o ano passado e que a carta foi redigida antes do atentado de Ancara, sobre o qual reiteraram sua condenação.

Também apelaram para “romper o silêncio midiático” e a desinformação sobre o conflito curdo e alegaram que os cidadãos “devem saber que é realmente acontece” no Curdistão.

Spinelli e Mavrides, no entanto, se recusaram a sugerir um novo status para o PKK se ele for eliminado da lista de organizações terroristas.

A carta está assinada por mais de uma centena de eurodeputados, por iniciativa das europarlamentares Marie-Christine Vergiat (de Esquerda Unitária) e Ana Gomes (dos social-democratas europeus S&D).

Appello e lista dei firmatari (file .pdf)

Il problema della democrazia in Polonia

Intervento di Barbara Spinelli nel corso della Sessione Plenaria di Strasburgo, 19 gennaio 2016

Punto in agenda:

Situazione in Polonia

  • Dichiarazioni di Consiglio e Commissione

Presenti:

  • Bert Koenders, ministro degli affari esteri dei Paesi Bassi, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio.
  • Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione e Commissario per la qualità della legislazione, relazioni interistituzionali, Stato di diritto e Carta dei diritti fondamentali.
  • Beata Szydło, Primo Ministro della Repubblica di Polonia.

Condivido la preoccupazione di molti colleghi. Il neonazionalismo che il partito di governo lusinga, i provvedimenti che secondo tanti polacchi limitano i poteri della Corte costituzionale e dei media: tutto ciò è in contrasto con i principi che fondano il progetto europeo. Al tempo stesso vorrei ricordare questo: se la Polonia ha votato un governo così critico dell’Unione, è perché l’Unione stessa, con le sue politiche di austerità, ha creato in quel paese disuguaglianze gravissime, e un risentimento sociale che solo la destra ha saputo intercettare. Anche la giustizia sociale è un diritto europeo, iscritto nei Trattati.

Invito infine l’Unione a non usare criteri diversi in Ungheria, in Polonia. I governi vanno trattati allo stesso modo, e la Polonia non deve pagare un prezzo più alto solo perché il partito al governo fa parte di un gruppo meno potente del Partito popolare.

Grazie.

Interrogazione scritta: violazioni dei diritti umani ai danni del popolo curdo da parte delle forze turche

Interrogazione con richiesta di risposta scritta P-012088/2015
alla Commissione (Vicepresidente / Alto rappresentante)
Articolo 130 del regolamento
Barbara Spinelli (GUE/NGL), Martina Anderson (GUE/NGL), Lynn Boylan (GUE/NGL), Liadh Ní Riada (GUE/NGL), Matt Carthy (GUE/NGL), Elly Schlein (S&D), Stelios Kouloglou (GUE/NGL) e Tania González Peñas (GUE/NGL)

Oggetto: VP/HR – Violazioni dei diritti umani ai danni del popolo curdo da parte delle forze turche

La Turchia fa parte dei 47 membri del Consiglio d’Europa ed è uno dei paesi che hanno presentato domanda di adesione all’Unione europea. Gli attacchi contro la popolazione curda al confine con la Siria e con l’Iraq in atto dal luglio 2015 obbligano l’UE a monitorare e controllare le operazioni della Turchia alla luce degli obblighi internazionali ed europei in relazione ai diritti umani. Tali attacchi vengono condotti simultaneamente al nuovo impegno militare della Turchia nella guerra contro lo Stato islamico (Daesh), portata avanti dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Il Parlamento sta rafforzando le proprie azioni in materia di diritti umani al fine di garantire che i diritti umani e la democrazia siano il punto focale degli interventi e delle politiche dell’UE.
1.    Le operazioni militari turche sono conformi a tutti gli strumenti e obblighi europei concernenti la tutela dei diritti umani, in particolare alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sugli articoli 1, 3 e 15 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo?
2.    La guerra contro lo Stato islamico giustifica il fatto che i curdi che combattono contro il Daesh vengano abbandonati e che ci si dimentichi completamente della battaglia che essi hanno combattuto a Kobane?
3.    Come garantisce l’Unione europea la protezione dei civili curdi nelle aree colpite?


 

P-012088/2015
Risposta della vicepresidente Mogherini
a nome della Commissione
(20.1.2016)

La Turchia è un partner chiave nella coalizione internazionale contro il Da’esh, come riconosciuto nelle conclusioni del Consiglio “Affari esteri” del 9 febbraio 2015. Il paese ora accoglie inoltre il più elevato numero di profughi al mondo, costituito da oltre 2 milioni di persone fuggite dalle zone di conflitto nella regione, compresi i curdi. Le autorità turche stimano di aver sostenuto circa 8 miliardi di dollari di costi diretti per gli aiuti ai profughi.

La situazione in Siria e in Iraq richiede maggiore dialogo e cooperazione tra la Turchia e l’UE nel campo della politica estera. L’UE incoraggia costantemente la Turchia a definire la sua politica estera in modo complementare e coordinato con l’Unione, allineandosi progressivamente alle strategie e alle posizioni dell’UE. Al vertice UE-Turchia del 29 novembre 2015, l’UE ha convenuto di ampliare e intensificare il dialogo politico in tutti i settori, compresi quelli della politica estera e di sicurezza, della migrazione e della lotta contro il terrorismo.

L’UE continuerà inoltre a erogare aiuti umanitari ai profughi e a mirare a una soluzione a lungo termine per il loro reinsediamento. Il piano d’azione comune è stato attivato e la Commissione ha adottato lo strumento per la Turchia a favore dei rifugiati, con il quale si prefigge di raccogliere fondi per un valore di 3 miliardi di euro. Inoltre, è stato annunciato lo stanziamento di un miliardo di euro, nel periodo 2015-2016, per attuare la “strategia dell’UE relativa alla Siria e all’Iraq e alla minaccia rappresentata dal Da’esh”, convenuta in occasione del Consiglio Affari esteri del 16 marzo 2015.

Risolvere la questione curda, che ha provocato decine di migliaia di vittime negli ultimi 30 anni, rappresenterebbe un punto di svolta nella storia della Turchia moderna. Saranno necessari il coraggio di tutte le parti e riforme concrete volte a rafforzare i diritti sociali, culturali e democratici. L’Unione europea ribadisce l’importanza della continuazione di tale processo ed è pronta a sostenere una strategia globale per una soluzione duratura, anche mediante assistenza finanziaria nella fase di preadesione.

Polonia, l’ascesa della destra e le responsabilità dell’Unione

di martedì, Gennaio 19, 2016 0 , , Permalink

Strasburgo, 18 gennaio 2016. Intervento di Barbara Spinelli come relatore del gruppo nella riunione del GUE/NGL

English version

È già molto tempo che discutiamo, in Parlamento, su quel che l’Unione europea possa fare di fronte a più o meno palesi violazioni dei diritti nei Paesi membri. Se ne è già discusso nel caso ungherese, e ora se ne parlerà a proposito del nuovo governo polacco. Ci si domanderà se l’Unione sia attrezzata, visto che ha ottenuto poco in passato. Se funzioni il meccanismo di verifica del rispetto della rule of law, attivato in questi giorni dalla Commissione. Se l’articolo 7 vada rivisto, perché le procedure sono complicate e difficilmente tutti gli Stati membri si pronunceranno contro uno solo di essi. Nuovi meccanismi di autocorrezione sono in discussione, a difesa della rule of law.

Tutto questo è necessario e opportuno, ma quel che vorrei qui analizzare va oltre le procedure e non entra nel loro merito. Sono le radici di questi fenomeni e di queste nuove destre che interessano. È l’assenza di una forte rappresentanza di sinistra che importa capire. Avendo speso frequentato l’Est europeo durante il comunismo e nell’epoca della transizione, proverò a esporvi qualche idea su questo tema.

Innanzitutto, quel che accade in Polonia non è un caso isolato, né cade dal cielo come una brutta sorpresa. La crisi economica, unita a quella dei rifugiati, ha scoperchiato una realtà che le élite europee hanno per lungo tempo volutamente nascosto. L’intero fronte Est dell’Unione dà l’impressione di franare, dal punto di vista della democrazia fondata sui diritti e sulla separazione dei poteri (compreso il quarto potere, quello della stampa indipendente): penso all’Ungheria, alla Repubblica ceca, alle chiusure etniche e russofobiche nei Paesi baltici, e alla Polonia, dove la destra xenofoba e nazionalista ha vinto due volte, nel 2005 e oggi con Jarosław Kaczyński, fratello di Lech che è stato Presidente della repubblica ed è morto nell’incidente aereo del 2010.

Perché frana in questo modo? A mio parere perché la transizione dal comunismo alla democrazia costituzionale non ha funzionato, perché l’allargamento è stato del tutto mal concepito, e perché le élite liberali polacche hanno governato nell’ignoranza di quel che la propria società chiedeva o soffriva. Alcuni parlano di equivoco: i vecchi Stati membri e le istituzioni non avrebbero chiarito, nei negoziati di allargamento, che il progetto europeo non è solo un progetto economico neoliberale, che ha al suo centro il mercato senza freni. In realtà più che di equivoco si dovrebbe parlare di una strategia portata avanti deliberatamente, con una coscienza che crede di essere corretta ma non conosce i propri limiti e le proprie deficienze: cioè con quella che Marx chiama una falsa coscienza. L’Europa dell’ultimo trentennio ha volutamente promosso il trionfo di un’Unione riconfigurata come mercato unico neoliberale, con il risultato che la transizione è stata non dal comunismo allo stato di diritto e a una democrazia costituzionale e inclusiva, ma dal comunismo a quella che Clinton ha chiamato, nel 1992-93, democrazia di mercato. Secondo alcuni la vittoria di tale democrazia metteva addirittura fine alla storia, il che vuol dire: la questione sociale apparteneva ormai ai due secoli scorsi, la lotta di classe pure, la rabbia degli esclusi poteva essere ignorata.

La realtà era ed è completamente diversa. Le politiche economiche che le élite liberali polacche hanno adottato in obbedienza alla dottrina centrale dell’Unione continuano a produrre rabbia sociale. La lotta di classe è tutt’altro che morta, essendo d’altronde un fenomeno intrinseco al capitalismo, non al comunismo. Se essa viene negata, e soprattutto privata della sua natura economico-sociale, la lotta tende a esprimersi comunque, ma secondo linee di divisione deturpate e distruttive. Si esprime lungo linee di divisione nazionaliste, o religiose, o anche moralistiche, come spiega assai bene il sociologo David Ost. [1] Le diseguaglianze sociali prodotte dal neoliberismo crescono, e la rabbia trova le destre estreme ad accoglierla e a snaturarla, trasformandola in odio del diverso, in ricerca del capro espiatorio: odio del diverso etnico, razziale, religioso, morale (penso ad esempio al disoccupato descritto come moralmente condannabile perché pigro). È quello che è accaduto in tutto il fronte Est, ma non dobbiamo nasconderci che accade – da decenni – anche a ovest dell’Unione.

Perché non c’è una sinistra forte in Polonia (né in altri Paesi dell’Est), capace di rappresentare gli interessi dei lavoratori e di chi ha pagato un alto prezzo sull’altare della terapia choc (il famoso Piano Balcerowicz) decisa a Varsavia dopo l’89? Perché tra il gruppo dirigente di Solidarnosc e il Partito comunista c’era accordo di fondo soprattutto su questo: sulla transizione verso la “democrazia di mercato”. A ciò si aggiunga che gli eredi del Pc occupavano per intero l’ala sinistra in Parlamento, ed erano favorevoli in pieno alla “terapia choc”. Spazio per un’altra sinistra non c’era.

Molto prima dell’89 i dirigenti di Solidarnosc – parlo in particolare di Adam Michnik e Lech Walesa – erano convinti che il Paese aveva bisogno di riforme economiche di tipo neo-liberale, e che il pericolo più grande fosse rappresentato dalla lotta di classe e da un sindacato indipendente e rivendicativo. Vorrei citare quanto detto da Walesa nel settembre dell’89: “Non riusciremo a entrare e contare in Europa se costruiamo un sindacato forte (…) Non possiamo avere un sindacato forte fino a quando non avremo un’economia forte”. Secondo un certo numero di analisti, tra cui David Ost, la “tavola rotonda” con il Partito comunista nell’88-’89 fu possibile proprio per questo: perché il sindacato Solidarnosc aveva deciso, già da tempo, di suicidarsi come sindacato. Ricordo una serie di colloqui che ebbi con alcuni rappresentanti di Solidarnosc, prima dell’89: molti di essi non esitavano a tessere l’elogio della politica economica di Pinochet, il modello era quello. Discorsi simili sulla transizione cilena li ascoltai in quel periodo in Ungheria e nei Paesi baltici. L’élite liberale polacca è figlia di Solidarnosc, anche se Solidarnosc ha molti figli, tra cui i fratelli Kaczyński.

Vorrei a questo punto dare alcuni dati sulla situazione socio-economica polacca.

La Polonia è oggi caratterizzata, anche quando cresce economicamente, da un tasso altissimo di disuguaglianza, da povertà diffusa e da una mancanza grave di protezione sociale. Meno della metà della popolazione attiva ha un impiego stabile, il 27 per cento degli occupati sono precari (10 anni fa era il 15 per cento). Il 9 per cento dei giovani sotto i 18 anni vive in povertà assoluta, il 19 per cento lavora dovendo pagare con i propri soldi le assicurazioni sociali, solo il 16 percento degli attivi riceve sussidi di disoccupazione. Nel settore privato, solo il 2 percento è sindacalizzato. Lo Stato si è ritirato da settori chiave, praticamente liquidati (Welfare, ferrovie, ospedali, poste).

Quel che colpisce, in una serie di Paesi dell’Est, è il giudizio che viene dato dalle loro élite liberali delle lotte sindacali. Sono da temere e occultare, non da ascoltare e integrare come ingredienti essenziali di un sistema sociale che diventi inclusivo. Anche in questo caso l’Europa non aiuta: il Welfare è smantellato anche qui, le rappresentanze sindacali sono viste anche qui come un intralcio. Quanto ai Paesi entrati in Europa dopo la transizione, la verità è che sono entrati praticamente sprovvisti di Welfare. È accaduto così che le destre estreme hanno sequestrato la rabbia popolare suscitata dalle politiche di austerità iniziate negli anni ’90, presentandosi come i portavoce dei cittadini più oppressi.

L’Unione europea fa mostra di preoccuparsi di queste involuzioni, ma a mio parere ha contribuito a questo sequestro e snaturamento del conflitto sociale, e l’ha anzi favorito. Essendo fautrice essa stessa di una democrazia ridotta al libero mercato, le principali condizioni che ha posto per l’adesione sono state, nella sostanza, di carattere neo-liberale. Ha chiesto, è vero, che alcune regole dello Stato di diritto venissero rispettate, nei cosiddetti criteri di Copenhagen, ma la sua visione della democrazia è stata essenzialmente procedurale.

Questo vale per una serie di Paesi dell’Est, considerati ottimi scolari perché applicano le politiche di austerità. Ora la Commissione e il Presidente del Parlamento europeo si indignano, ma hanno fatto poco per difendere un progetto europeo che abbandonasse la falsa coscienza di una fine della storia e si accorgesse che la questione sociale è più viva che mai. In altre parole, la svolta di destra in Polonia o in Ungheria non andrebbe considerata un’anomalia: “ha radici forti nella pratica e nell’ideologia che ha dominato l’Europa nell’ultimo quarto di secolo”. [2]

Altro errore dell’Unione è stato lasciare che la questione della pace e della guerra fosse pensata e in parte gestita dai propri Paesi di frontiera, a Est e nei Paesi baltici (la stessa cosa è avvenuta con la Repubblica federale durante la guerra fredda: era il baluardo dell’Occidente). Il risultato è stato che l’Ungheria ha cercato un proprio rapporto con la Russia, e tutti gli altri hanno deciso di fidarsi più degli Stati Uniti e della Nato che dell’Unione. All’origine di questo sbandamento, un grave peccato di omissione: è mancata e manca una politica seria verso la Russia, indipendente da Stati Uniti e Nato, e si è lasciato che rinascesse, a Est della nuova Unione allargata, la mentalità del baluardo – questa volta anti-russo – che aveva caratterizzato durante la guerra fredda le marche di confine della vecchia Comunità. Il più recente segnale lanciato in questo senso è la domanda, presentata nei giorni scorsi dal governo di Varsavia, di ottenere sul proprio territorio, al più presto, una base militare durevole e una difesa antiaerea permanente della Nato, per difendersi dalle minacce di Mosca.

Concludo ricordando che non mancano in Polonia forze di sinistra che avversano fortemente le politiche adottate finora, molto critiche della destra estrema come delle élite liberali che hanno governato negli anni scorsi. Penso in modo speciale al movimento Razem (“Insieme”), che si ispira a Podemos. È una forza ancora esigua, e non presente in Parlamento. Varrà la pena invitare i suoi rappresentanti a spiegare le loro posizioni e la situazione del loro Paese nel nostro gruppo, e di sostenerli se lo riterremo opportuno.

[1] David Ost, Defeat of Solidarity: Anger and Politics in Postcommunist Europe, Cornell University Press, 2006.

[2] Cfr. Gavin Rae, http://beyondthetransition.blogspot.be/2015/12/the-liberal-roots-of-polish-conservatism.html

Intervento in qualità di Relatore ombra nel corso della riunione ordinaria della Commissione Affari Costituzionali del 14 gennaio 2016

Punto in agenda:

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

  • Esame del progetto di relazione
  • Fissazione del termine per la presentazione di emendamenti

Relatori: Mercedes Bresso (S&D-Italia) – Elmar Brok (PPE-Germania)

Relatore ombra per il gruppo GUE-NGL: Barbara Spinelli

Vorrei fare due considerazioni, una sul merito della bozza di Relazione, l’altra sul metodo che seguiremo tutti assieme, co-relatori e “shadow”.

Quanto al merito, sono rimasta molto colpita dall’intervento del collega Elmar Brok. A mio parere, ha giustamente drammatizzato la situazione dell’Unione, quando ha parlato di “anno del destino”. Sono completamente d’accordo con lui. In effetti questo è l’anno in cui un’ulteriore mancanza di trasparenza, di assunzione di responsabilità, rischia di aggravare più che mai la situazione. Perché è vero, citando ancora il collega Brok, che “quel che il cittadino percepisce è dal suo punto di vista la realtà” e, oggi, la realtà appare quantomeno confusa. E non perché l’Unione europea stia accelerando troppo, come sostengono alcuni anche in questa Commissione – non credo che il cittadino chieda di rallentare il processo di integrazione – ma piuttosto perché ritengo che il cittadino voglia comprendere cosa stia succedendo, voglia sentirsi parte integrante di un progetto, voglia soprattutto essere ascoltato e rispettato quando avanza esigenze.

Credo sia importante che la Relazione riaffermi e renda comprensibile il nostro obiettivo, che dovrebbe restare quello di un’”Unione sempre più stretta” cui molti – governi e partiti – vogliono rinunciare.

Vorrei soffermarmi in questo quadro su alcuni temi precisi. Anch’io, come il Gruppo dei Verdi, sono convinta che sia necessario ricorrere con maggiore frequenza alle cosiddette “clausole passerella”, in modo da passare con più frequenza dal voto all’unanimità al voto a maggioranza. Questo renderebbe molte decisioni meno opache.

Sono inoltre preoccupata per il peso sempre più cospicuo assunto da una serie di organismi che, a mio avviso, rappresentano in modo emblematico l’attuale situazione, caratterizzata da una crescente assenza di trasparenza. Penso in particolare all’Eurogruppo. L’Eurogruppo non risponde davanti al Parlamento europeo, non è trasparente, corrobora una sensazione di non-responsabilità. Praticamente agisce al di fuori dei trattati. Non tiene nemmeno i verbali delle proprie riunioni.

Il rafforzamento del suo ruolo è allarmante, proprio se si tiene a mente la percezione che i cittadini hanno delle attività dell’Unione. Penso cose analoghe di altri soggetti, tipo la Bce o Frontex, cui saranno affidati compiti nuovi, anche in paesi terzi, molto simili a competenze di politica estera.

Quanto alle politiche – rifugiati, sicurezza, terrorismo, unione monetaria, clima – la cosa a cui invito è di avere un pensiero lungo, non emergenziale. Il lavoro che state facendo, e per cui vi sono grata per il tempo e le energie che avete dedicato alla Relazione, deve essere fondato su una prospettiva di lungo periodo. Ad esempio, quando si parla di rifugiati, è necessario ricordare che accanto alla sicurezza interna e delle frontiere vanno salvaguardati i diritti, e rispettata sino in fondo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Lo stesso vale per quel che riguarda l’unione monetaria e la politica di austerità. Anche in questo caso è in gioco la salvaguardia dei diritti. In materia di politiche sul clima, presto avremo anche rifugiati climatici; nella Relazione sarebbe opportuno un accenno al tema.

Vengo ora al secondo punto, la questione del metodo. Purtroppo, la vostra Relazione è arrivata molto tardi, l’abbiamo ricevuta soltanto ieri. Non sarebbe male avere il tempo di analizzarla nei dettagli e, forse, poter avere nel frattempo anche un incontro tra Relatori principali e Relatori ombra, proprio per l’importanza del documento su cui state lavorando. A questo proposito mi chiedo se non sia utile uno slittamento della scadenza fissata per la presentazione degli emendamenti, per avere il tempo di discutere in maniera più approfondita i vari punti del Rapporto.

Vi ringrazio ancora entrambi per il lavoro che avete fatto.


Sul rapporto Bresso-Brok “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona”

Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona

L’Unione Europea e il deficit di democrazia

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Mercoledì 13 gennaio nella sede del Parlamento europeo a Bruxelles si è svolta la conferenza “The Shield of Europe: the EU Charter of Fundamental Rights”, organizzata da Barbara Spinelli con il GUE/NGL.

Intervento di Barbara Spinelli:

L’Unione Europea e il deficit di democrazia

Questo seminario è stato pensato in occasione di quella che viene comunemente soprannominata crisi del debito greco, e che sin dall’inizio sarebbe stato meglio chiamare, in osservanza del principio di realtà: crisi e addirittura tracollo dell’intero progetto di unificazione europea. Le imprecisioni linguistiche non sono mai casuali. Sono deliberatamente usate per nascondere quel che sta accadendo, per scongiurare una rimessa in questione troppo difficile o costosa per le élite dominanti. Sono gli ingredienti di una strategia di evitamento. Circoscrivere la crisi concentrandola sul debito greco neutralizza le responsabilità e gli errori dell’Unione, serve a spoliticizzare quest’ultima. Ingrandisce i poteri di una governance sempre più incontrollata e sopprime in parallelo quelli dei cittadini, che non sanno più a quale governo rivolgersi né dove sia la sovranità (governance non è governo: è potere senza imputabilità).

Il progetto europeo era nato per restaurare le democrazie costituzionali dopo due conflitti mondiali, per dare a esse basi più durevoli, per unire le forze col proposito di curare i due mali che avevano distrutto il continente nella prima metà del Novecento: l’ingiustizia sociale e l’ostilità reciproca fra Stati del continente. Oggi dobbiamo constatare che ambedue i fini non sono raggiunti: l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale va crescendo da circa 40 anni, l’ostilità fra Stati si estende, e dalla crisi scoppiata nel 2007-2008 usciamo con un divario netto fra esigenze delle democrazie nazionali e precetti delle istituzioni europee, nonché degli innumerevoli organismi ad hoc creati fuori dai Trattati.

Quel che è accaduto dopo la vicenda greca conferma al tempo stesso la crisi del progetto e la cecità delle élite che guidano l’Europa. La mancata solidarietà sulla gestione dei rifugiati, le frontiere che si alzano ovunque e caoticamente dentro lo spazio dell’Unione, la sistematica violazione delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali: ecco la risposta che viene data, non si sa più in nome di quale mandato, ai fenomeni migratori, al terrorismo, alle guerre che imperversano ai confini sud ed est dell’Europa. Siamo di nuovo e più che mai in una tempesta perfetta, e sono anni che l’Unione resta impigliata in una sua presunzione fatale: che le ricette adottate durante la crisi siano l’unica e ideale soluzione, che le istituzioni comunitarie non necessitino cambiamenti radicali. O meglio: che le istituzioni vadano cambiate surrettiziamente, dall’alto, dando vita appunto a un grande potere senza imputabilità. Che l’unica vera sfida sia quella di salvare il funzionamento dei mercati e la competitività, anche se sono molti ormai gli economisti – da Paul Krugman a Martin Wolf a Robert Reich – a negare la natura indispensabile della competitività nei sistemi di tassazione o nei mercati del lavoro, e la coincidenza tra le regole che valgono per un’azienda e le regole che valgono per uno Stato. Per la verità le istituzioni non restano immobili: cambiano, e non marginalmente visto che si svuotano di democrazia.

Volutamente uso il termine coniato da Friedrich Hayek per definire il progetto sovietico e socialista: la presunzione fatale – fatal conceit – è quella che caratterizza i difensori dei dogmi e delle svolte autoritarie, e non stupisce che aumentino nell’Unione i politici e governanti attratti da modelli più efficaci e rapidi di quelli sin qui difesi dall’Unione. Modelli come quello del Pc cinese, o dello statista di Singapore Lee Kuan Yew. L’allargamento a Est dell’Unione ha rafforzato il fascino nemmeno molto segreto esercitato dall’autoritarismo. Ricordo che una parte consistente di Solidarnosc, sul finire del regime comunista, tesseva l’elogio delle ardite e competitive strategie economiche di Pinochet. L’allargamento è stato fatto senza che questi equivoci siano stati fugati, sempre che di equivoci si sia trattato. La svolta antidemocratica è più diffusa di quanto ammettano i detrattori di Budapest e Varsavia.

Come fautori del vecchio progetto europeo, possiamo reagire al presente sfacelo in due modi: alla maniera di Cicerone, come lo racconta Shakespeare nel Giulio Cesare (“Buona notte Casca, questo cielo turbato sconsiglia di andare in giro” – “this disturbed sky 
is not to walk in”). Ma sarebbe rispondere alla strategia dell’evitamento con un comportamento di eguale natura: Cicerone è saggio ma alla lunga non avrà influenza perché semplicemente “si tira fuori”. Oppure si può entrare nella tempesta, denunciare a chiare lettere chi prima ha voluto il predominio disordinato dei mercati poi ne ha profittato per diluire il patrimonio democratico delle nazioni europee, e cercare di influenzare gli eventi chiedendo che l’Unione si dia una costituzione democratica, vincolante non solo per i cittadini e gli Stati ma anche per le istituzioni. E non solo: che rispetti le costituzioni democratiche delle nazioni, spesso più avanzate non solo del Trattato di Lisbona ma anche della Carta europea dei diritti. È l’alternativa di Albert Hirschman che vorrei qui riproporvi: o la strategia dell’exit o quella del voice, della presa di parola critica all’interno della costruzione europea. [1]

Le due strategie non sono opposte, nelle teorie di Hirschman, anche se possono naturalmente diventarlo. La minaccia dell’exit può essere utile e feconda, per risvegliare il desiderio, la forza e l’udibilità della “presa di parola” attiva. Dunque è utile denunciare quel che si è rotto, compreso quel che si è rotto irrimediabilmente, e a questo serve anche il nostro incontro: a connettere la tensione verso l’uscita con il voice, ovvero la presa di parola, la contestazione, e la proposta.

Chi chiede l’exit infatti ha le sue ragioni, e anche se corre dietro una non recuperabile sovranità nazionale assoluta è da molti punti di vista più vicino alla realtà di chi vive nella presunzione fatale di un’Unione funzionante, da correggere ai margini o surrettiziamente. Sono le oligarchie che dominano oggi l’Europa e i singoli governi ad aver perso il rapporto sia con le realtà vissute dai cittadini (basti pensare alla disorganizzazione degli Stati di fronte ad atti di terrorismo o a violenze come quelle accadute in varie città tedesche a Capodanno) sia con il progetto europeo in quanto tale. Sono le oligarchie a ignorare che non si può continuativamente violare i diritti delle persone e le Carte approvate dall’Unione, che non si può sprezzare sistematicamente i verdetti elettorali e le volontà dei popoli senza poi, un giorno, pagare tutto intero un prezzo molto alto e distruttivo.

Quel che dobbiamo sapere, è che i custodi dei dogmi dell’austerità neoliberale e della sorveglianza di massa non sono più al servizio della democrazia costituzionale, fin dagli anni ’70 sono tentati da Costituzioni che accentrano tutti i poteri negli esecutivi, e per quanto riguarda l’establishment di Bruxelles sono già nella logica dei regimi autoritari. Basti qui ricordare la risposta che Cecilia Malmström, commissario responsabile del commercio, ha dato alle domande critiche che John Hilary, direttore esecutivo dell’associazione inglese War on Want, ha mosso al TTIP, il 15 ottobre scorso su “The Independent”. A cosa sono servite le petizioni contro il Trattato transatlantico in vari Paesi europei (circa 4 milioni di firme)? A cosa servono le manifestazioni, spesso spettacolari? La replica della Malmström è stata: “Non ricevo il mio mandato dal popolo europeo”.

La frase è significativa perché se la Commissione non ha ricevuto un mandato dal popolo, da chi lo riceve? Chi controlla il sempre più potente controllore, se non un insieme di lobby e di grandi banche e multinazionali? E da chi ricevono il mandato la Banca centrale europea, la trojka, l’eurogruppo che è una struttura completamente fuori da ogni controllo parlamentare e che nemmeno tiene i verbali delle proprie riunioni, e Frontex che sempre più presidierà le frontiere europee attivandosi anche nei paesi terzi? Cosa sono queste istituzioni, custodi di uno spazio di non diritto nell’Unione, dove non valgono né le regole della Carta, né gli articoli sociali del Trattato, né le costituzioni nazionali? L’ottimismo panglossiano ha sempre fatto dire, ai responsabili dell’Unione: “L’Unione politica che farà funzionare l’euro e legittimerà i vari organi tecnici dell’attuale governance verrà, perché necessaria”. Non è venuta e non viene. Il presidente della Bundesbank già dice, senza esitare, che non ce n’è più bisogno.

Per questo all’inizio ho menzionato il caso greco, nel mio tentativo di diagnosi. Perché in quell’occasione si è sperimentata e poi consolidata una sorta di diritto emergenziale permanente, uno stato di eccezione che sfigura ormai in maniera aperta, senza più pudore, il progetto europeo, e non i valori astratti ma i diritti iscritti nella Carta e gli obiettivi fissati negli articoli 2 e 3 del Trattato (pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà, parità tra donne e uomini, e piena occupazione, progresso sociale, sviluppo sostenibile). Tra questi obiettivi e i bisogni dello stato d’emergenza, tra elezioni nazionali e politiche decise a Bruxelles si è creato un divario che tende a divenire incompatibilità fondamentale. Si è creata incompatibilità tra le misure imposte alla Grecia nel memorandum anti-crisi e precisi articoli del Trattato e della Carta, che cessano di essere vincolanti senza che i cittadini ne siano informati. Penso per fare un esempio al titolo IV della Carta – quello sulla solidarietà – e in quest’ambito agli articoli 28, 30, 34, 35, che prevedono il diritto a concludere contratti collettivi, alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 18 in Italia), alla sicurezza sociale e all’assistenza abitativa, a un livello elevato di protezione della salute. Penso, per quanto riguarda i rifugiati, al diritto alla vita e al non respingimento collettivo.

Vorrei chiedervi in queste quattro sessioni come siamo arrivati a questo punto, e soprattutto come può essere riempito il divario tra proclami e politiche concrete. E vorrei richiamare anche la vostra attenzione sull’aspetto internazionale del problema. Il diritto emergenziale si applica in tempi di guerra, e i leader europei dopo gli ultimi attacchi terroristi non esitano a proclamare proprio questo: lo stato di guerra. Alle frontiere c’è un caos che le nostre politiche estere hanno spesso acceso, e che non sanno come spegnere. L’Europa ha subappaltato agli Stati Uniti la gestione della pace e della guerra, ma gli Stati Uniti hanno mostrato di essere non una potenza creatrice di ordine internazionale, ma un impotente artefice di caos globale. In questo senso, l’Europa deve darsi subito una politica razionale e seria verso la Russia: tra le tante sue mancanze, questa è oggi la più vistosa.

L’Europa è nata come un progetto politico di pace tra le nazioni, e anche questa missione è scomparsa, sempre che sia mai nata. Se non fosse così, non assisterebbe passivamente alla politica di distruzione dei curdi operata dal regime turco, per non parlare dell’abbattimento dell’aereo russo avvenuto nel novembre scorso. Abbiamo bisogno della Turchia per tenere a bada e diminuire l’afflusso di rifugiati, e in cambio – come fossimo ricattati – siamo disposti a chiudere tutti e due gli occhi verso le politiche destabilizzanti di Erdogan in Siria e in Iraq. Se Erdogan rimpatria i rifugiati nelle zone di guerra riceve addirittura ricompense, sotto forma di un aiuto di “assistenza” pari a 3 miliardi di euro.

Anche su questi punti chiedo vostre meditazioni e vostre idee. Penso che il nostro incontro dovrebbe essere il primo di una serie. Regolarmente dovremmo incontrarci per vedere a che punto siamo. E se sia possibile evitare, almeno da parte nostra, quella strategia difensiva dell’evitamento che permette all’Europa di non entrare in contatto con ciò che ha suscitato al suo interno prima l’ansia, poi la paura, poi la propensione ad autodistruggersi.

[1]     Otto Albert O. Hirschman, Exit, Voice and Loyalty, 1970.


 

 Si veda anche:

Le promesse tradite dell’Europa che uccide anche con le parole (file .pdf), sintesi dell’intervento pubblicata in forma di articolo su «Il Fatto Quotidiano» del 13 gennaio 2016

Brexit: breve elenco dei punti critici

Bruxelles, 9 dicembre 2015

Intervento di Barbara Spinelli, in qualità di coordinatore della Commissione Affari Costituzionali per il gruppo, nel corso della riunione del Gruppo GUE/NGL

Punto in agenda: Brexit

Come prima cosa, vorrei indicare il contesto in cui si discute di Brexit. Il contesto è l’avanzata di Marine Le Pen, e di destre xenofobe e nazionaliste nell’Unione. Queste destre utilizzeranno a propri fini il negoziato britannico – Marine Le Pen lo ha detto esplicitamente – imitando la via inglese. Penso che come gruppo non sarà male tenerne conto, quando si parlerà di Brexit.

E ora vengo alla lettera di Cameron a Tusk: ai suoi punti più pericolosi. Ne elenco alcuni, perché sia un po’ più chiaro cosa sarà discusso, si spera, nella Commissione affari costituzionali.

Dico “si spera”, perché quel che dovremmo ottenere è che i cambiamenti chiesti da Londra siano oggetto di discussione in questo Parlamento, e non nascano da accordi intergovernativi. Tutto rischia infatti di avvenire nel chiuso del Consiglio Europeo: un organo già indebitamente soverchiante nell’UE, e poco propenso alla cultura del render conto.

Alcune proposte di Cameron non sorprendono: Londra già beneficia di opt-out, e il Premier ne chiede di più. Pericolosa non è la tattica degli opt-out. È la degradazione dell’Unione nel suo insieme, con ripercussioni su tutti i soggetti che ne fanno parte. Tale fu l’obiettivo di Blair prima del Trattato di Lisbona: non un’Europa diversa – più forte o più democratica – ma l’accentuazione di caratteri negativi che essa possiede sin dalla nascita. Quel che va codificato, secondo Londra, è che l’Unione non dovrà essere altro che una zona di libero scambio: competitività e produttività sono i soli collanti citati da Cameron. Nemmeno ai margini si parla di questione sociale.

Faccio un piccolo elenco dei punti pericolosi:

1) la volontà di mettere la parola fine, in modo irreversibile e legalmente vincolante, all’obbligo del Regno Unito di adoperarsi verso “un’Unione sempre più stretta”, eliminando tale concetto dal Trattato.

2) l’invito a ridurre al massimo la regolamentazione comune, considerata eccessiva. Esistono complicità su questo, soprattutto con l’Est Europa e potenzialmente con le estreme destre nell’Unione.

3) la proposta di introdurre meccanismi che consentano ai Parlamenti nazionali di bloccare proposte legislative non desiderate. I Parlamenti nazionali avrebbero un potere di veto, non propositivo. Il veto può aver senso, se le democrazie sono messe in pericolo. Ma il Parlamento europeo perderebbe molti poteri che possiede. Inoltre, ricordo che l’articolo 1 del Trattato fa riferimento ai popoli, non agli Stati, e l’Unione “più stretta” è pensata proprio per oltrepassare i limiti del mercato unico: è l’unione dei diritti riconosciuti al successivo articolo 2, che non devono avere confini o limiti.

In realtà, siamo di fronte al tentativo di ridurre le garanzie che il Trattato, anche se difettoso, contiene: garanzie che con la libertà di manovra nazionale Londra vuole aggirare.

Le intenzioni di Cameron diventano evidenti se si guarda alle proposte sull’immigrazione: chiusura delle frontiere per i non europei, libera circolazione per i futuri Stati Membri solo se sarà assicurata “una più stretta convergenza economica”, limitazione infine della libertà di circolazione interna. Su questo tema, si aggiunge anche una critica forte alla Corte di giustizia europea. Obiettivo: non subire pressioni su un welfare che, internamente, è già in parte demolito.

Tutto questo si inserisce nell’altra proposta, cui ha fatto accenno Martina Anderson (Sinn Fein) in questa riunione: quella di sostituire lo Human Rights Act con un “Bill of rights nazionale”, per spezzare ogni legame con la Corte europea dei diritti umani.

Nella Commissione Afco, penso che dovremmo contestare il metodo intergovernativo dell’attuale discussione. Se riforma del Trattato deve proprio essere, questa può farsi solo, secondo me, attraverso la procedura ordinaria di revisione, che consenta l’inclusione del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Personalmente credo che il Trattato dovrebbe diventare una Costituzione. Ma temo che ogni modifica, che parta dalle proposte inglesi, sia oggi peggiorativa.

So bene che esistono differenze nel nostro gruppo, ma penso valga la pena cogliere quest’occasione per affermare un diverso tipo di integrazione, che non riduca l’Europa a un mercato unico ma punti a un’Europa fondata su giustizia sociale e diritti, oltre che a una politica estera indipendente da quella statunitense. E qui torno al contesto cui accennavo all’inizio: sarebbe anche l’occasione di differenziarci, come gruppo, dai falsi sovranismi proposti oggi dalle destre estreme.


Si veda anche:

Rinegoziazione delle relazioni costituzionali del Regno Unito con l’Unione europea

Interrogazione sull’hotspot di Lampedusa

COMUNICATO STAMPA

Barbara Spinelli presenta un’interrogazione sull’hotspot di Lampedusa con 22 eurodeputati di diversi gruppi politici 

Bruxelles, 9 dicembre 2015

L’eurodeputata Barbara Spinelli (Gue-Ngl) ha presentato un’interrogazione alla Commissione contestando le pratiche che le autorità Italiane stanno svolgendo nell’hotspot di Lampedusa, centro ufficialmente gestito dall’Unione Europea.

“Da settembre le autorità Italiane hanno adottato nuove pratiche illegali in violazione dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo presso l’hotspot di Lampedusa”, ha dichiarato. “Arrivati nell’hotspot, i migranti sono frettolosamente intervistati e ricevono un formulario incompleto senza informazioni sul diritto all’asilo. Pertanto, molti migranti ricevono provvedimenti di respingimento senza avere avuto l’opportunità di chiedere asilo ai sensi delle direttive 2011/95/UE detta ‘Direttiva Qualifiche’ e 2013/32/UE detta ‘Direttiva Procedure’. Una volta ricevuti i provvedimenti di respingimento, i migranti sono cacciati dai centri con un documento che li obbliga a lasciare il paese entro sette giorni dall’aeroporto di Roma-Fiumicino”.

“La direttiva 2013/32/UE stabilisce, qualora migranti detenuti in centri di trattenimento desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, che tutte le informazioni sulla possibilità di farlo sia loro garantita (Articolo 8). Peraltro”, ha continuato l’eurodeputata “il §27 della stessa direttiva stabilisce che i cittadini di paesi terzi e gli apolidi che hanno espresso l’intenzione di chiedere protezione internazionale siano considerati richiedenti protezione internazionale: in quanto tali, devono poter godere dei diritti di cui alle direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE”.

L’interrogazione si conclude considerando che tali pratiche dimostrano gravi mancanze riguardo la tutela dei diritti umani dei migranti e richiedenti asilo. In particolare, non avendo tenuto conto delle circostanze specifiche di ciascun caso nel rilascio di provvedimenti di respingimento, contravvengono all’articolo 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e alla giurisprudenza consolidata della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’eurodeputata, insieme a 22 colleghi di diversi gruppi politici (Socialisti, Liberali, Verdi, Sinistra unitaria europea) chiede alla Commissione di indagare sulla compatibilità di tali pratiche di gestione degli hotspot con il diritto dell’Unione Europea.

Firmatari:

Barbara Spinelli, Philippe Lamberts, Michèle Rivasi, Yannick Jadot, Pascal Durand, Eva Joly, José Bové, Karima Delli, Igor Soltes, Eleonora Forenza, Merja Kyllönen, Dimitrios Papadimoulis, Malin Björk, Josu Juaristi Abaunz, Takis Hadjigeorgiou, Julie Ward, Liisa Jaakonsaari, José Inácio Faria, Nedzhmi Ali, Neoklis Sylikiotis, Sofia Sakorafa, Kostadinka Kuneva, Patrick Le Hyaric

Testo dell’interrogazione (file .pdf)


Si veda anche:

Barbara Spinelli presenta un’interrogazione sull’hot spot di Lampedusa con 22 eurodeputati di diversi gruppi politici

L’Ue accusa l’Italia: “Non prende le impronte ai migranti”

Interrogazione sull’hotspot di Lampedusa