Interrogazione sull’hotspot di Lampedusa

COMUNICATO STAMPA

Barbara Spinelli presenta un’interrogazione sull’hotspot di Lampedusa con 22 eurodeputati di diversi gruppi politici 

Bruxelles, 9 dicembre 2015

L’eurodeputata Barbara Spinelli (Gue-Ngl) ha presentato un’interrogazione alla Commissione contestando le pratiche che le autorità Italiane stanno svolgendo nell’hotspot di Lampedusa, centro ufficialmente gestito dall’Unione Europea.

“Da settembre le autorità Italiane hanno adottato nuove pratiche illegali in violazione dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo presso l’hotspot di Lampedusa”, ha dichiarato. “Arrivati nell’hotspot, i migranti sono frettolosamente intervistati e ricevono un formulario incompleto senza informazioni sul diritto all’asilo. Pertanto, molti migranti ricevono provvedimenti di respingimento senza avere avuto l’opportunità di chiedere asilo ai sensi delle direttive 2011/95/UE detta ‘Direttiva Qualifiche’ e 2013/32/UE detta ‘Direttiva Procedure’. Una volta ricevuti i provvedimenti di respingimento, i migranti sono cacciati dai centri con un documento che li obbliga a lasciare il paese entro sette giorni dall’aeroporto di Roma-Fiumicino”.

“La direttiva 2013/32/UE stabilisce, qualora migranti detenuti in centri di trattenimento desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, che tutte le informazioni sulla possibilità di farlo sia loro garantita (Articolo 8). Peraltro”, ha continuato l’eurodeputata “il §27 della stessa direttiva stabilisce che i cittadini di paesi terzi e gli apolidi che hanno espresso l’intenzione di chiedere protezione internazionale siano considerati richiedenti protezione internazionale: in quanto tali, devono poter godere dei diritti di cui alle direttive 2013/32/UE e 2013/33/UE”.

L’interrogazione si conclude considerando che tali pratiche dimostrano gravi mancanze riguardo la tutela dei diritti umani dei migranti e richiedenti asilo. In particolare, non avendo tenuto conto delle circostanze specifiche di ciascun caso nel rilascio di provvedimenti di respingimento, contravvengono all’articolo 19 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e alla giurisprudenza consolidata della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’eurodeputata, insieme a 22 colleghi di diversi gruppi politici (Socialisti, Liberali, Verdi, Sinistra unitaria europea) chiede alla Commissione di indagare sulla compatibilità di tali pratiche di gestione degli hotspot con il diritto dell’Unione Europea.

Firmatari:

Barbara Spinelli, Philippe Lamberts, Michèle Rivasi, Yannick Jadot, Pascal Durand, Eva Joly, José Bové, Karima Delli, Igor Soltes, Eleonora Forenza, Merja Kyllönen, Dimitrios Papadimoulis, Malin Björk, Josu Juaristi Abaunz, Takis Hadjigeorgiou, Julie Ward, Liisa Jaakonsaari, José Inácio Faria, Nedzhmi Ali, Neoklis Sylikiotis, Sofia Sakorafa, Kostadinka Kuneva, Patrick Le Hyaric

Testo dell’interrogazione (file .pdf)


Si veda anche:

Barbara Spinelli presenta un’interrogazione sull’hot spot di Lampedusa con 22 eurodeputati di diversi gruppi politici

L’Ue accusa l’Italia: “Non prende le impronte ai migranti”

Interrogazione sull’hotspot di Lampedusa

 

Sul rapporto Bresso-Brok “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona”

Bruxelles, 19 novembre 2015. Commissione per gli affari costituzionali: riunione interparlamentare di commissione sul tema “La futura evoluzione istituzionale dell’Unione: potenziare il dialogo politico tra il PE e i parlamenti nazionali e rafforzare il controllo sull’esecutivo a livello europeo”.

Parte 1: La futura evoluzione istituzionale dell’unione.

Mercedes Bresso and Elmar Brok, co-relatori del rapporto “Migliorare il funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del Trattato di Lisbona” (qui il Documento di lavoro in versione italiana e in versione inglese).

Intervento di Barbara Spinelli (relatore ombra); l’intervento, non pronunciato a causa di concomitanti impegni parlamentari, è stato integrato negli atti della riunione.

Desidero affrontare due temi presenti nel documento di lavoro che a mio parere varrebbe la pena approfondire.

Il primo riguarda il ruolo dei parlamenti nazionali nell’attuale e futuro assetto dell’Unione.

La crisi economica, le misure per fronteggiarla, le modalità infine con cui tali misure sono state adottate, sono sfociate in una progressiva erosione delle competenze dei parlamenti e in un parallelo svuotamento – in molti paesi dell’Unione – della democrazia costituzionale. Non basta dire che questo svuotamento costituisce in realtà un primo passo verso la federazione. Se il trasferimento di sovranità condurrà al “federalismo degli esecutivi” denunciato da Habermas, più che un progresso avremo una regressione.

Così come non è sufficiente incorporare il Fiscal Compact nella normativa comunitaria, nell’illusione – o presunzione – che basti trasformare la natura istituzionale del Patto di Stabilità per renderlo papabile. Non era papabile prima, e non lo sarà dopo.

Apprezzo invece la volontà dei relatori di introdurre il metodo comunitario nella governance dell’Unione attraverso una limitazione delle indebite interferenze del Consiglio Europeo e un’attribuzione di maggiori competenze al Parlamento europeo. Ma anche qui ho qualche dubbio: tale processo richiederà tempo, e la piena riaffermazione dell’articolo 2 [1] del Trattato non è compatibile con questi tempi lunghi.

Merita anche attenzione il punto riguardante il controllo esercitato dai parlamenti nazionali sui propri governi: controllo che dovremmo dare per scontato, ma che i relatori giustamente mettono in rilievo. Allo stesso tempo, va detto che non tutto è chiaro. I parlamenti cosa controllano ancora, realmente? Quel che si chiede, è un rafforzamento del loro ruolo nell’attuazione dei programmi nell’ambito degli obiettivi di convergenza: programmi decisi altrove, e che dunque i Parlamenti sono chiamati semplicemente a registrare. Il dilemma andrebbe almeno riconosciuto, come andrebbero riconosciuti i rischi che questa finzione di controllo comporta per la democrazia rappresentativa.

Ho perplessità simili per quando concerne il capitolo Giustizia e Affari Interni. Il problema, secondo me, non dovrebbe essere quello di definire la natura più o meno restrittiva o repressiva della politica di sicurezza o delle politiche sui rifugiati – per me sono ambedue troppo restrittive, ma la questione non è appunto questa. [2]

Il problema è che determinate politiche, a volte perfino nate in stati di emergenza e per giustificare stati di emergenza – un’agenda sulla migrazione e sui paesi più o meno sicuri di rimpatrio, un’agenda sulla sicurezza in anni di terrorismo e guerre – non dovrebbero essere iscritte in nessuna costituzione, allo stesso modo in cui non dovrebbero esserlo il Fiscal Compact o altri provvedimenti economici, proprio perché contingenti (penso agli attacchi terroristici del 13 novembre a Parigi) oltre che controversi.

[1]  L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.

[2] Per esempio: pur concordando con i relatori sulla necessità di una riforma del sistema di asilo, non credo che essa possa fondarsi sulle misure indicate. La militarizzazione del sistema di controllo delle frontiere esterne, la definizione estremamente limitativa del concetto di Stati terzi insicuri – esclusivamente le zone di guerra – con conseguente agevolazione del rimpatrio per coloro che non provengano da tali specifiche “zone insicure” e la chiusura – per i migranti – delle frontiere con i Balcani occidentali, sembrano configurarsi come misure volte al consolidamento di un modello di difesa comune piuttosto che allo sviluppo di un reale ed efficace sistema di asilo europeo.

Durata del trattenimento amministrativo

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-011010/2015
alla Commissione
Articolo 130 del regolamento

Marie-Christine Vergiat (GUE/NGL), Tanja Fajon (S&D), Dennis de Jong (GUE/NGL), Nathalie  Griesbeck (ALDE), Cecilia Wikström (ALDE), Martina Anderson (GUE/NGL), Cornelia Ernst (GUE/NGL), Barbara Spinelli (GUE/NGL), Kostas Chrysogonos (GUE/NGL), Jean Lambert (Verts/ALE), Ulrike Lunacek (Verts/ALE) e Malin Björk (GUE/NGL)

Oggetto: Durata del trattenimento amministrativo

La direttiva sui rimpatri (2008/115/CE) e la direttiva sull’accoglienza (2013/33/UE) affermano che gli stranieri e i richiedenti asilo possono essere trattenuti soltanto in circostanze eccezionali, e per il
minor tempo possibile, in base al principio secondo cui il trattenimento non rappresenta altro che un’eccezione al diritto fondamentale alla libertà.

Nella comunicazione sulla politica di rimpatrio del 28 marzo 2014, la Commissione ha rilevato che la
durata massima del trattenimento è diminuita in 12 Stati membri. Tuttavia, se confrontata con il
numero totale di trattenuti, tale diminuzione riguarda meno del 10 % di loro.

In alcuni Stati membri, come Cipro e il Belgio, gli stranieri sono trattenuti nonostante la mancanza di prospettive di allontanamento ragionevoli. Per alcuni di loro il periodo di trattenimento può essere prolungato oltre la durata massima (Belgio) o a tempo indeterminato (Grecia) in violazione delle disposizioni delle summenzionate direttive.

1. Non ritiene la Commissione necessario rendere obbligatoria per tutti gli Stati membri la pubblicazione, almeno su base annua, dei periodi di trattenimento medio, cumulativo e
prolungato per categoria di trattenuti (donne, uomini, bambini, richiedenti asilo, ecc.), incluso chi
attende l’allontanamento?

2. Quali misure concrete intende la Commissione adottare per mettere fine agli eccessivi periodi di
trattenimento applicati in alcuni Stati membri, che costituiscono un rischio di trattamento inumano
e degradante?


 

IT

E-011010/2015
Risposta di Dimitris Avramopoulos
a nome della Commissione

(5.10.2015)

La Commissione, insieme agli Stati membri, rivede regolarmente la raccolta di dati e di statistiche dell’UE riguardanti la migrazione e l’asilo rispetto alla legislazione europea in vigore. Si tratta di una misura introdotta per fornire dati fattuali e obiettivi che possano servire come base per l’elaborazione di politiche basate su elementi concreti. Finora gli Stati membri hanno partecipato e contribuito in modo molto proattivo a questo processo con Eurostat, in un quadro di cooperazione strutturato basato sul consenso. Misure obbligatorie non sono quindi ritenute necessarie, mentre si è convenuto di migliorare le serie di dati individuali e di aggiornarle regolarmente se considerato pertinente e necessario.

Come annunciato nell’Agenda sulla migrazione [1], la Commissione ha adottato un Manuale sul rimpatrio. Pur non essendo vincolante sul piano giuridico, questo documento fornirà alle autorità competenti degli Stati membri orientamenti comuni, buone pratiche e raccomandazioni affinché le utilizzino nello svolgimento delle attività relative al rimpatrio e per le valutazioni Schengen connesse al rimpatrio. Il manuale affronta, fra gli altri punti, la promozione delle partenze volontarie, l’uso proporzionato delle misure coercitive, il monitoraggio dei rimpatri forzati, il rinvio dell’allontanamento, il rimpatrio dei minori, i mezzi di ricorso effettivi, le garanzie in attesa del rimpatrio, condizioni di trattenimento umane e dignitose e le garanzie per le persone vulnerabili.

La Commissione controlla da vicino l’attuazione dell’integralità dell’acquis in materia d’asilo, e non esiterà a prendere le dovute iniziative procedurali nel rispetto dei trattati per garantire che i diritti fondamentali siano sempre rispettati quando uno Stato membro potrebbe avere agito in violazione dei suoi obblighi legali.

La Commissione rinvia inoltre gli Onorevoli Deputati alla sua risposta all’interrogazione E‑009662/2014.

[1]    COM(2015) 240.

Don Mussie Zerai: sì alla Giornata della Memoria in onore dei profughi scomparsi in mare, ma senza ipocrisie

Don Mussie Zerai è  fondatore e presidente dell’Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo (A.H.C.S ), istituita nel 2006 per svolgere  attività di volontariato con fini di solidarietà verso tutti i richiedenti Asilo e rifugiati. Nel 2015 è stato candidato al Premio Nobel della pace.

Don Zerai è stato invitato da Barbara Spinelli per il dibattito in Plenaria su “le ultime tragedie nel Mediterraneo”, svoltosi a Bruxelles il 29 aprile, per rappresentare davanti alle istituzioni europee le testimonianze dei profughi raccolte da Habeshia; ha inoltre partecipato alla conferenza stampa successiva alla discussione in aula ed è entrato in contatto con vari gruppi parlamentari: Marie-Christine Vergiat- GUE-Ngl; Cecilia Wikström-Alde; Cecile Kyenge-S&D; Judith Sargentini-Verdi.

Questo il suo intervento durante il dibattito in Plenaria:

Giornata della memoria in onore dei profughi scomparsi in mare: sì, ma senza ipocrisie

Il Parlamento italiano sta per discutere la proposta di istituire, ogni 3 ottobre, la data della tragedia di Lampedusa, una Giornata della memoria in onore delle 366 vittime di quell’alba tragica e di tutte le migliaia di disperati scomparsi in questi ultimi anni nel Mediterraneo, inseguendo un sogno di libertà e di umana dignità.

È impossibile non essere favorevoli a questa iniziativa. Quelle 366 vite spezzate sono diventate il simbolo della tragedia di tutti i profughi del pianeta, richiamando in particolare l’Italia e l’Europa alle proprie responsabilità nei confronti dei tantissimi giovani, donne e uomini, che gridano aiuto ai potenti della terra dai paesi del Sud del mondo, sconvolti da guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, carestia, fame, miseria endemica. Proprio mentre si propone di celebrare questa data simbolo, però, la politica italiana e quella europea stanno andando nella direzione esattamente opposta, dimenticando o facendo finta di dimenticare, che la maniera migliore per onorare la memoria dei morti è quella di salvare i vivi. Sono tanti, infatti, i provvedimenti e gli interventi che contrastano con quello che dovrebbe essere lo spirito della futura Giornata della Memoria. Vale la pena citare i più significativi.

– Mare Nostrum. Il primo novembre 2014 è stata abolita l’operazione Mare Nostrum: l’Italia afferma di non poterne più sostenerne le spese; l’Unione Europea, anziché farla propria, ha preferito puntare sull’operazione Triton, affidata all’agenzia Frontex, dotata di mezzi infinitamente minori e il cui unico obiettivo è quello di presidiare i confini mediterranei dell’Europa, attuando interventi di salvataggio solo in casi eccezionali. Sono stati ignorati sia il parere della stessa Marina Italiana, contraria alla soppressione del programma di soccorso, sia gli appelli dell’Unhcr e dell’Oim, che anche di recente hanno chiesto di varare una nuova Mare Nostrum su base europea. Tacitate di fatto le voci dei pochi parlamentari che hanno sollecitato la riedizione di Mare Nostrum “anche a costo di perdere voti”, mettendola magari sotto l’egida dell’Onu.

– Processo di Khartoum. È stato varato il Processo di Khartoum, l’accordo firmato dai 28 Stati dell’Unione Europea, su iniziativa in particolare proprio dell’Italia, che di fatto affida la gestione dell’immigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente a vari Stati dell’Africa Orientale, incluse alcune delle peggiori dittature del mondo, come quella di Isaias Afewerki in Eritrea e di Al Bashir in Sudan, ma anche al regime egiziano di Al Sisi, messo sotto accusa ripetutamente da Amnesty e da altre organizzazioni internazionali per la sistematica violazione dei diritti umani e il soffocamento di ogni forma di dissenso: oltre 800 condanne a morte, centinaia di condanne all’ergastolo, migliaia di civili sottoposti, senza possibilità di appello e spesso senza alcuna difesa, al giudizio delle corti marziali militari.

– Finanziamenti alle dittature. Proprio sulla scia del Processo di Khartoum, l’Unione Europea, nel contesto dei progetti di cooperazione, ha deciso di stanziare un pacchetto di 300 milioni di euro in favore dell’Eritrea. L’obiettivo sarebbe quello di “fermare la fuga di migliaia di migranti dal paese”. Così almeno si è detto a Bruxelles. Ma si ignora o si fa finta di ignorare che l’attuale esodo di tanti giovani eritrei è dovuto prima di tutto alla totale mancanza di libertà e democrazia e che le stesse condizioni di estrema povertà sono dovute proprio alla politica del regime, che ha militarizzato la nazione con una catena continua di guerre che dura, pressoché ininterrotta, addirittura dal 1994. Anzi, sono rimaste inascoltate, a Bruxelles come a Roma, le proteste della diaspora e l’appello lanciato da numerosi docenti universitari, uomini di cultura, giornalisti, esuli, ex diplomatici eritrei, attivisti, i quali, a fine marzo, hanno denunciato come manchi qualsiasi prova che abbia fondamento la pretesa volontà del regime di allentare il “pugno di ferro” con cui governa l’Eritrea, cominciando finalmente a rispettare i diritti umani e le regole fondamentali della democrazia. Al contrario: tutto lascia credere che questo flusso di denaro dall’Europa finisca per legittimare e rafforzare la dittatura proprio mentre sta attraversando una fase di grave difficoltà. E il caso dell’Eritrea non è isolato: c’è da ritenere che finanziamenti analoghi siano previsti anche per altre dittature della regione.

– Nuovi respingimenti. Nell’ultimo vertice europeo di Bruxelles l’Italia ha proposto di coinvolgere nel pattugliamento del Mediterraneo anche le marine militari della Tunisia e dell’Egitto. In questo modo – si afferma – potranno essere potenziati i servizi di salvataggio. Solo che – come ha rivelato un servizio giornalistico del Guardian – le navi tunisine ed egiziane non si limiteranno ai soccorsi: i profughi intercettati in mare verranno riaccompagnati in Africa. Praticamente respinti a priori, senza esaminare se sono nelle condizioni di essere accolti in Europa come profughi ed hanno diritto a una forma di protezione internazionale. Poco importa se questo significa di fatto riconsegnarli ai trafficanti di uomini o magari ai paesi dai quali sono stati costretti a fuggire. Il tutto, tra l’altro, per quanto riguarda l’Egitto, senza considerare che – come è già accaduto in passato e si è ripetuto anche in questi giorni – i profughi intercettati vengono considerati colpevoli di immigrazione clandestina, arrestati e gettati in carcere praticamente a tempo indeterminato, fino a quando, cioè, non saranno in grado di pagarsi il biglietto aereo per tornare nel paese d’origine.

Provvedimenti come questi legittimano il sospetto che si stia puntando ad attuare una politica di controllo militare del Mediterraneo, fondata non su un sistema di soccorso-accoglienza ma di soccorso-respingimento, che prevede di riportare i profughi in Africa e, in definitiva, di esternalizzare ancora di più i confini della Fortezza Europa, per spostarli quanto più a sud possibile, anche oltre il Sahara, appaltando il “lavoro sporco” del contenimento ad alcuni Stati africani, incluse feroci dittature. Non importa a che prezzo.

Allora, a fronte di una simile situazione, la proposta di istituire una Giornata della Memoria per i profughi, da celebrare ogni 3 ottobre, appare un’ipocrisia o, al massimo, un appuntamento vuoto, che rischia di risolversi nell’ennesima passerella per la dichiarazione di buone intenzioni, subito dimenticate. La Giornata della Memoria avrà un senso solo se sarà il primo passo per cambiare radicalmente il sistema di accoglienza e, più in generale, la politica dell’Europa e dell’Italia nel Sud del mondo. Partendo dalle stesse proposte lanciate da Habeshia il 3 ottobre 2014 a Lampedusa, in occasione del primo anniversario della strage, ma rimaste senza risposta. Sono proposte concrete che esigono risposte precise ed altrettanto concrete.

– Corridoi umanitari. Istituire una serie di corridoi umanitari che, con la collaborazione dell’Unhcr, consentano di aprire ai profughi le ambasciate europee nei paesi di transito e di prima sosta, in modo da esaminare sul posto le richieste di asilo e consentire così a tutti coloro che hanno diritto a una qualsiasi forma di protezione internazionale di raggiungere in condizioni di sicurezza il paese scelto e disposto ad accoglierli.

– Paesi di transito e di prima sosta. Con la collaborazione e d’intesa con i governi locali, studiare ed attuare interventi e programmi di aiuto per rendere più sicuri i paesi di transito e prima sosta, creando così condizioni di vita dignitose, nei tempi di attesa, per i profughi che presentano richiesta d’asilo all’Europa e, a maggiore ragione, per quelli (in realtà la grande maggioranza) che intendono restare invece proprio in quei paesi, non lontano dalla propria terra, nella speranza che si creino le condizioni per poter tornare sicuri in patria in tempi non troppo lontani. L’azione combinata di questo programma e dei corridoi umanitari può risultare l’arma più efficace per sottrarre i profughi e i migranti al ricatto dei mercanti di morte e alle loro organizzazioni criminali.

– Sistema europeo di accoglienza unico. In stretta connessione ed anzi come condizione perché i due punti sopra illustrati possano essere attuati, va organizzato un sistema unico di asilo e accoglienza, condiviso e applicato da tutti gli Stati aderenti all’Unione Europea che, ripartendo in modo equo i richiedenti asilo e i migranti forzati nei vari paesi Ue, preveda condizioni di vita dignitose e un processo di reinsediamento il più rapido possibile. In questo modo si andrebbe ad annullare anche il regolamento di Dublino 3, che impedisce la libertà di circolazione, residenza e lavoro, vincolando i migranti al primo paese Schengen al quale chiedono aiuto. E si supererebbero storture tutte italiane come la rete degli attuali Centri di accoglienza, l’abbandono dei migranti al loro destino una volta che hanno ottenuto lo status di rifugiato o un’altra forma di protezione, con la conseguente creazione di una enorme sacca di persone di fatto senza diritti, consegnate allo sfruttamento, al lavoro nero, talvolta alla criminalità.

Da notare che queste tre proposte sono tutt’altra cosa rispetto al progetto, previsto dal Processo di Khartoum, di aprire una serie di campi profughi sotto le insegne Unhcr, dove sia possibile presentare le richieste di asilo. A parte il fatto che campi gestiti dall’Unhcr già esistono, il punto è chi garantisce la sicurezza degli ospiti di quelle strutture in paesi del tutto inaffidabili, da anni sotto accusa per la violazione dei diritti umani: sono eloquenti in proposito i casi di violenza, rapimento, complicità delle stesse forze di sicurezza con i trafficanti di uomini, denunciati a più riprese in Sudan, che pure è uno dei paesi chiave dell’accordo. Per di più, l’attuazione del terzo punto è essenziale per il funzionamento dei primi due.

– Interventi nei “punti di crisi”. Varare una politica comune e mirata dell’Unione Europea nei cosiddetti “punti di crisi”, per eliminare o quanto meno ridurre le cause di questo esodo enorme direttamente nei paesi d’origine dei profughi. Non, però, con accordi al buio con gli stessi dittatori che sono la prima causa dell’esodo enorme a cui stiamo assistenza ma sostenendo i movimenti democratici che li combattono e, in ogni caso, pretendendo da quei dittatori il rispetto immediato dei diritti umani e delle regole democratiche come condizione preliminare irrinunciabile per l’apertura di qualsiasi forma di colloquio e collaborazione.

Su questi punti l’agenzia Habeshia torna a chiedere risposte rapide e concrete. È l’unico modo per onorare davvero la memoria dei 366 morti di Lampedusa, delle altre 26 mila vittime che si sono registrate dal duemila a oggi nel Mediterraneo, dei circa 900 giovani scomparsi dall’inizio di quest’anno. Risposte in grado di onorare le vittime, di asciugare le lacrime dei superstiti, di dare aiuto e dignità alle migliaia di disperati che bussano anche in queste ore alle porte dell’Europa.

don Mussie Zerai


 

Si veda anche:

Profughi: la soluzione c’è, ma si preferisce la guerra, di Emilio Druidi

 

 

Fondi UE per asilo e immigrazione: serve più trasparenza

Fondi UE per l’asilo e immigrazione – Barbara Spinelli: serve maggior trasparenza, monitoraggio e presa di responsabilità da parte dell’Unione europea

Bruxelles, 24 febbraio 2015

Durante la riunione della Commissione parlamentare LIBE (Libertà civili, Giustizia e Affari interni), tenutasi questo 24 febbraio al Parlamento europeo di Bruxelles, la Commissione europea ha presentato una relazione concernente la predisposizione dei programmi nazionali per l’asilo e l’immigrazione nell’ambito del Fondo affari interni.

Numerosi eurodeputati hanno sottolineato la necessità di maggior trasparenza e inclusione delle organizzazioni non governative nel monitoraggio dell’implementazione di questi programmi. Barbara Spinelli ha denunciato, in particolare, la malagestione dei fondi europei in Italia, dovuta a corruzione, ritardi e sprechi. “Nel 2013 si venne a sapere che 500 milioni di euro dati dall’Europa in cinque anni non erano mai stati usati per risanare, com’era stato promesso, la situazione dei CIE e CARA”, ha ricordato l’eurodeputata del GUE-NGL.

“Ora l’Italia chiede alla Commissione questa ripartizione: 50% dei fondi per il Sistema Europeo d’Asilo e 35% per l’immigrazione legale e per l’integrazione dei migranti. Quello che vorrei chiedere alla Commissione è se esigerà chiarezza, trasparenza e ulteriori garanzie per le spese effettuate in Italia con questi fondi europei; e, infine, se è previsto un serio monitoraggio sui fatti gravissimi di corruzione che avvengono sulla pelle degli immigrati”.

Non va dimenticata, secondo Spinelli, la famosa frase registrata in un’intercettazione telefonica dei Ros: a pronunciarla era Salvatore Buzzi, principale indagato nello scandalo Mafia Capitale, legato a buona parte del ceto politico italiano di destra e di sinistra: “Tu hai idea di quanto guadagno, con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”.

Immigrazione e crisi della civiltà europea

di lunedì, Febbraio 2, 2015 0 , , , Permalink

Il 30 gennaio 2015 a Bobigny, in Francia, si è svolta per iniziativa del Front de Gauche una conferenza sul tema “Entre défis démocratiques et alternative, quel avenir pour les peuples?” che ha riunito più di cento esponenti della sinistra radicale europea. Vi hanno preso parte Natasha Theodoralopoulou di Syriza, Jose Calderón di Podemos, Renato Soeiro del Bloco de Esquerda (Portugal), Fathi Chamkhi, deputato del Front populaire (Tunisia), Barbara Spinelli, de L’Altra Europa con Tsipras, Marie-Christine Vergiat, eurodeputata del Front de gauche, Éric Coquerel del Parti de Gauche, Pierre Laurent del Parti Communiste Français e Myriam Martin, portavoce del movimento Ensemble.

Questo il testo dell’intervento in francese di Barbara Spinelli.

J’aimerais commencer par quelques chiffres qui me paraissent éclairants. Nous savons que les réfugiés syriens se comptent par millions, suite à une guerre qui semble interminable et dans laquelle l’Europe et les Etats Unis jouent un rôle pour le moins équivoque. 1 million et demi d’entre eux sont accueillis en Tunisie (sur 10 millions d’habitants), 2 millions au Liban (sur 4 millions d’habitants), 1 million en Jordanie (sur 7 millions). Tâchons de ne jamais l’oublier, lorsque nous nous alarmons des 3000 réfugies syriens en France ou des 3.970 débarqués en Italie l’année dernière (en 2014, les demandeurs d’asile syriens dans toute l’Union européenne ont été 48.400). Des amis et camarades syriens me rapportent que les organisations de la société civile de ces pays s’activent de mille manières –  bien davantage que nous ne le faisons – dans l’accueil, voire dans l’intégration.

Mais il n’y a pas que la Syrie, bien entendu. Nous savons que les réfugiés de guerre représentent aujourd’hui une partie consistante de la migration en Europe, e que parmi les réfugiés il y a des Syriens, des Erythréens en fuite de la dictature d’Issayas Afewerki, des Iraquiens, des Afghans et des Soudanais.

Ces faits et ces chiffres illustrent de manière spectaculaire la crise que nous traversons. C’est certes une crise économique et sociale, dans la mesure où tous les pays qui accueillent ces millions de réfugiés sont loin d’être riches. Mais c’est aussi et surtout une crise de civilisation. Toujours encensée, la civilisation européenne figure telle une formidable conquête dans notre Charte des droits fondamentaux et dans le préambule du Traité de Lisbonne. “L’unité dans la diversité” est la devise officielle de l’Union (hélas, elle ne figure pas dans notre Charte – ses rédacteurs aurait-ils été pris de remords ? je me pertmets d’en douter). En réalité, cette civilisation est profondément malade. Elle dit le contraire de ce qu’elle est réellement disposée à faire et de ce qu’elle fait. Le Commissaire à l’immigration Dimítris Avramópoulos, qui se limite pour le moment à la lutte contre les passeurs et au contrôle des frontières via le dispositif Frontex, contribue à la forteresse Europe tout en affirmant haut et fort, lors des les auditions parlementaires à Strasbourg et à Bruxelles, que “jamais l’Union ne sera une forteresse”.

La crise économique, l’appauvrissement de nos peuples et de nos Etats sociaux sont flagrants. Mais notre maladie a des causes plus profondes, qu’ils nous faut reconnaître, étudier, et combattre. C’est justement la maladie de la forteresse et de la fermeture. Les japonais ont un mot pour décrire une pathologie psychosociale qui a pris de vastes proportions lors de la “décennie perdue” commencée au début des années 90: c’est le phénomène des hikikomori, qui nous est désormais familier grâce à la littérature et au cinéma. Les hikikomori sont des adolescents ou des adultes (on parle d’un million de japonais atteints par la maladie) qui ont décidé “tout à coup” de ne plus sortir de leur chambre: par peur, par désespoir, par solitude. Bref, parce qu’ils ont décroché. La traduction du mot est “retrait”.

En quelque sorte, c’est toute l’Union européenne qui est atteinte d’une pathologie hikikomori. Et là où elle ne semble pas “décrocher”, là où elle possède une tradition multiculturelle et accueille davantage de migrants – comme en Suède, en Allemagne ou en France – elle connaît la montée de forces xénophobes ou islamophobes.

Concernant l’immigration et l’absence d’une politique d’accueil, je pourrais vous parler de différents lieux emblématiques. Je pourrais vous parler de Ceuta et Melilla, de Sangatte, de la fermeture des frontières terrestres en Grèce ou du mur anti-immigrants en Bulgarie. Mais puisque mon temps de parole est limité, je me limiterai à l’Italie et aux morts en Méditerranée : parce que le grand naufrage survenu près des côtes de Lampedusa le 3 octobre 2013 a tragiquement montré au monde entier l’ampleur du problème, et parce qu’en Italie la pathologie civilisationnelle dont nous avons parlé prend des allures extraordinaires et est à l’origine d’infinies hypocrisies, affectant jusqu’au langage utilisé pour décrire la situation.

Après le désastre de Lampedusa, le gouvernement italien mit en place une opération de recherche et sauvetage (Search and rescue) appelée Mare Nostrum. Les navires de la marine italienne allaient en haute mer, près des côtes libyennes ou egyptiennes, afin de mieux répondre aux appels de secours et intervenir en cas de risque de naufrage. Plus de 10.000 vies ont été officiellement sauvées, selon les autorités italiennes et européennes : je me souviens que Cecilia Malmström, Commissaire aux Affaires intérieures avant Avramópoulos, s’était exprimée en ce sens devant le Parlement européen. Toutefois, l’opération s’avérant particulièrement onéreuse pour la seule Italie, on a décrété sa substitution par le dispositif communautaire de Frontex (avec l’opération nommée Triton). Mais en réalité, plus que de “substitution”, il faudrait parler de mort de Mare Nostrum – et plus précisément de mort des migrants en mer. Le gouvernement italien (c’est-à-dire la fausse gauche de Renzi en entente avec une partie de la droite) s’est réjoui, en annonçant avec grande fierté que Mare Nostrum était de fait européanisé, du point de vue du financement, mais que sa substance était sauvegardée. C’est un pur mensonge, couvert par l’hypocrisie: Frontex et Triton ne peuvent et ne veulent se substituer à Mare Nostrum, parce que leur tâche est le contrôle des frontières, non le search and rescue. Et parce que leur règle est claire et impérative : ses navires ont l’interdiction d’opérer au delà de 30 miles des côtes italiennes, sur le tracé des frontières européennes, et se limitent à des opérations de contrôle et d’endiguement de l’immigration clandestine. Que reste-t-il du search and rescue? Que reste-t-il de la mémoire du naufrage de Lampedusa?

Permettez-moi de répondre à ces questions par un exemple récent. En novembre dernier, les navires de la garde côtière italienne se sont aventurés en haute mer, pour sauver un certain nombre de fugitifs. Quelques jours plus tard, une lettre signée par le directeur de Frontex Klaus Rosler parvient au département immigration du Ministère de l’Intérieur, dans laquelle l’Italie est sévèrement rappelée à l’ordre. Il ne faut plus s‘aventurer au delà des 30 miles, car la mission de Frontex ne le prévoit pas. En d’autres mots, il faut laisser mourir les fugitifs, point final.

Il en va de même pour ce qui concerne la lutte contre les passeurs et les groupes de nature mafieuse qui contrôlent de fait les flux migratoires. On leur déclare la guerre mais on leur laisse le pouvoir. Ce dernier pourrait être réduit de manière draconienne, en instituant des corridors humanitaires sous la protection de l’Union européenne et de l’Onu. Il n’en est rien. L’Europe est faite par des policiers de frontière, non par des hommes politiques qui réfléchiraient à des stratégies et reprendraient le monopole de l’immigration, en en réduisant ainsi la violence. Résultat : on continue à mourir noyé en Méditerranée. On l’appelle le cimetière, mais je refuse ce terme. Dans un cimetière il y a des signes, des stèles, des noms : on s’y rend avec la certitude de trouver l’endroit où nos chers disparus sont ensevelis. La mer Méditerranée est une fosse commune, remplie de cadavres sans nom. Cela permet d’oublier.

C’est donc de crise de civilisation qu’il convient de parler, là où les lois de celle-ci sont violées ou ne sont que des coquilles vides. A commencer par la loi plus ancienne de l’humanité civilisée, à savoir la loi de la mer, qui prescrit le sauvetage de la personne ou du navire en danger. Ce n’est pas sans raison que l’on assiste à une déconstitutionnalisation et à une dé-parlamentarisation de nos démocraties, dans les nations et dans l’Union.

En ce sens, et pour conclure, vous aurez sans doute remarqué qu’on parle beaucoup de “valeurs” de l’Union. C’est le mot récurrent dans toutes les motions que nous discutons au Parlement européen. Marie-Christine Vergiat le sait bien parce qu’elle se bat sur ces questions, quotidiennement et dans toutes les plénières. Je n’aime pas ce mot, car il est vidé de substance. Je préfère parler de loi, d’Etat de droit, de droit codifié de la personne. Récemment, c’était cinq jours après l’attentat de Charlie Hebdo, j’ai rencontré un ministre du gouvernement français dans le train Paris-Strasbourg. On a parlé juste une minute du massacre, et je lui ai fait part de mes craintes concernant l’Etat de droit. Il m’a répondu avec un ton solennel: “Les droit, oui… mais plus encore les valeurs… les valeurs…”. En entendant ces mots, j’ai eu le sentiment d’un échec, d’une impuissance. Et plus que jamais j’ai ressenti l’envie de me battre encore davantage pour mettre le mots “droit” et “loi”, à la place de “valeurs”.

Regolamento di Dublino: interrogazione scritta

Comunicato stampa

L’europarlamentare del GUE/NGL Barbara Spinelli ha presentato oggi un’interrogazione scritta alla Commissione in seguito a una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sottolineato le lacune del Regolamento di Dublino per i richiedenti asilo, con particolare riferimento al rispetto dei diritti fondamentali. Nel caso Tarakhel v Svizzera, sul trasferimento di un nucleo familiare verso l’Italia disposto dalle autorità svizzere ai sensi del regolamento di Dublino, la Corte ha deliberato che il trasferimento avrebbe sollevato il pericolo di violazione dell’Articolo 3 della CEDU in assenza di garanzie da parte delle autorità italiane circa l’accoglienza idonea dei minori e la coesione del nucleo familiare: questa valutazione “caso per caso” non è attualmente inquadrata dalla legislazione dell’Unione Europea. Nel frattempo il Commissario europeo per le migrazioni, gli affari interni e la cittadinanza Dimitris Avramopoulos ha dichiarato di non “vedere la necessità urgente di apportare modifiche rilevanti in materia di asilo nel futuro prossimo. Ma ciò non è escluso per il medio termine, dopo un attento esame”. Gli europarlamentari hanno pertanto deciso di chiedere al Commissario se intenda riferire in merito all’applicazione del regolamento di Dublino e, ove opportuno, proporre i necessari emendamenti (il Regolamento impone alla Commissione di farlo entro il 21 luglio 2016) e se, in attesa di una revisione del regolamento di Dublino, la Commissione intenda prendere provvedimenti per evitare il rischio di un aumento dei casi giudiziari a livello nazionale ed europeo.

L’interrogazione è stata sottoscritta dai membri di vari gruppi politici: Eleonora Forenza, Kostadinka Kuneva, Kostas Chrysogonos, Lola Sanchez Caldentey, Marisa Matias e Rina Rojna Kari (GUE/NGL), Juan Fernando Lopez Aguilar e Ana Gomes (S&D), Bodil Ceballos (Verdi), Jozsef Nagy (EPP) e Laura Ferrara (EFDD).

I Cie, zoo per umani ma senza erba

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Articolo pubblicato su «La Stampa», 23 dicembre 2014

Il 19 dicembre, come deputato europeo, sono andata in visita al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria presso Roma. Ero accompagnata da rappresentanti di alcune associazioni che si prendono cura della disperazione impotente di tanti migranti finiti in queste gabbie penitenziarie. Ho constatato quel che denuncio da mesi, e che è il fulcro della mia attività a Bruxelles: man mano che l’immigrazione aumenta in Europa, man mano che la sua natura muta (i più fuggono oggi da guerre o disastri climatici: per forza sono senza documenti), s’afferma nell’Unione un diritto emergenziale, che sospende leggi iscritte non solo nelle Costituzioni, ma nella Carta europea dei diritti fondamentali.
Così l’immigrazione diventa la nostra comune parte buia: buia perché inaccessibile all’informazione, buia per le ferite inflitte alla dignità della persona. Ogni giorno abbiamo notizie di violenze che colpiscono i migranti, nello spazio Schengen: a Melilla in Spagna, a Sangatte in Francia, e in Grecia, in Italia. Ogni giorno crescono partiti che raccolgono consensi trasformando il profugo in capro espiatorio: penso a Marine Le Pen e Salvini in Francia e Italia, a Dresda avamposto di islamofobi e neonazisti (Npd, Die Rechte). Penso all’Ukip inglese. Ovunque, i conservatori sono in competizione mimetica con l’estrema destra: da Cameron in Inghilterra a Rajoy in Spagna.
La visita a Ponte Galeria è tappa cruciale della battaglia che conduco dal primo giorno in Europa: contro la chiusura di Mare Nostrum e la rinuncia esplicita ai salvataggi in alto mare; in favore del riconoscimento reciproco dell’asilo nell’Ue e di corridoi umanitari che tolgano alle mafie il controllo sui fuggitivi; contro il disumano regolamento di Dublino che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo paese dove approdano, anche se la destinazione è un altro paese europeo.
Quel che ho visto nel Cie eccolo: uno zoo per umani, ma senza erba né alberi come quelli che oggi sono concessi agli animali. Una spianata di cemento e, anziché gli alberi, una fitta foresta di sbarre che delimita gli spazi dove i detenuti dormono, escono nelle gabbie antistanti le camerate, deambulano nel corridoio centrale, anch’esso cintato da barriere. Tutto a Ponte Galeria è grigio-ferro: le sbarre, il plexiglas che impedisce ai detenuti di salire sui tetti, le graticole che fasciano le finestre dei dormitori. Qui l’osceno si disvela per quello che è: un campo di concentramento per migranti non in regola con il permesso di soggiorno, di richiedenti asilo, di stranieri che hanno scontato pene ma non hanno documenti. Italia e Europa esibiscono la propria verità concentrazionaria senza pudore. E senza memoria.
Con alcuni militanti di associazioni che proteggono i migranti son qui a certificare l’orrore. Fuori dai cancelli, volanti e blindati. Dentro il Centro: un corridoio dove si susseguono stanze per gli incontri con i parenti, con i legali che convalidano detenzioni ed espulsioni, poi l’ambulatorio, poi lo psichiatra che però non c’è – è stato licenziato dai nuovi gestori.
Subito dopo, gli spazi geometricamente suddivisi del carcere-lager, a sinistra gli uomini a destra le donne: la geometria delle sbarre altissime, cui stanno aggrappati… come li chiamiamo? Il vocabolario dei custodi tentenna e scivola come liquido, senza solidificarsi. Li chiamano a volte detenuti, o perfino «utenti», «ospiti», più di rado «trattenuti».
Prima di entrare nei recinti chiedo ai custodi: «Si può parlare con loro?» – «Un momento, i capibanda sono altrove» – «I capibanda?». Sì, capibanda. Così sono interpellati i rappresentanti dei detenuti. Il lessico a Ponte Galeria s’impregna di malavita. «Comunque non entrate, sono agitati, pericolosi.» Da lunedì 15 dicembre il Cie è amministrato dalla francese Gepsa, specializzata in carceri. L’agenzia ha vinto la gara perché ha promesso tagli al personale e diarie decurtate ai detenuti (2,5 euro al giorno). I prigionieri parlano ossessivamente di spending review: un vocabolo appreso in fretta. Da lunedì manca quasi tutto, nel Cie: vestiti caldi, biancheria, calze, lenzuola di ricambio, spazzolini e dentifricio, assorbenti per le donne. I nuovi gestori dicono: sono inconvenienti temporanei.
Ma in realtà le norme sono le stesse: l’emergenza genera queste zone d’incessante non diritto. Ai reclusi è proibito tenere matite o penne, per evitare che inghiottendole finiscano in ambulatorio. È vietata carta da scrivere, per motivi arcani. Hanno il telefonino, ma non la connessione internet. Non hanno accesso a giornali. I gestori smentiscono, ma i detenuti sono esasperati perché di notte le luci al neon sono sempre accese. Di qui – anche – l’alto uso di sonniferi. Le tensioni s’alzano e scendono come maree, e a seconda del loro livello si dispiegano le forze d’ordine, manganelli in vista e pistole alla cinta.
Entriamo nelle camerate, dove ci sono 8-10 letti in uno spazio che ne dovrebbe contenere quattro. Dentro fa freddo come fuori; il riscaldamento è intermittente. I reclusi indicano le poche cose che ricevono: lenzuola di carta sbrindellate, una coperta, cibo scarso. Un detenuto ci mostra di nascosto un pettinino sbocconcellato: i pettini sono proibiti, vai a sapere perché. I più calzano sandali infradito, anche se fa freddo. Sono vietati i lacci delle scarpe. Un migrante ride dell’insensatezza: i lacci no, ma una cintura di spago per i pantaloni troppo larghi, «quella sì la possiamo portare e eventualmente impiccarci».
Tutti sono angosciati dall’igiene: sono giorni che non ricevono sapone, che non possono andare alla «barberia» (son vietate le lamette). Si vergognano molto di quest’incuria. Sono giorni che non hanno vestiti di ricambio: «Non ci piace puzzare, ma ecco puzziamo».
Tutti i buoni propositi di un eurodeputato vanno a sbattere inani contro quei volti di supplica disperata, che chiedono quel che dovrebbe essere normale: poter uscire dall’inferno in cui precipitano tutti, incensurati e non; avere informazioni (ma mancano gli interpreti); poter raggiungere i parenti che a volte non sono fuori Europa ma a due passi da qui; essere assistiti (il barbiere e lo psicologo sono le figure più anelate). E soprattutto: scongiurare il respingimento che l’Unione in teoria vieta, il rimpatrio lì dove la morte li aspetta.
Ho passato un pomeriggio con loro, e alla fine avevo l’impressione che fosse un anno fatto di impotenze. Continueremo a batterci per loro, è certo. Ma con quale prospettiva d’essere ascoltati da autorità nazionali ed europee? Una cosa so: quale che sia la nostra azione, in Europa e nelle associazioni, tutti ci stiamo macchiando d’una colpa. Perché questi zoo li abbiamo fabbricati noi. Perché li definiamo inaccettabili, allontanandoci da quei volti che chiedono risposte fino all’ultimo minuto – insopportabile – in cui incroci i loro sguardi. Ma anche questo sappiamo: nello stesso istante in cui dici «inaccettabile» e poi prendi il treno per tornare a casa, già hai accettato. Già sei sceso a patti con il tremendo.


Per ulteriori approfondimenti:

“Respinti dal Cie di Ponte Galeria. Noi che volevamo essere trattenuti!”: la lettera dei membri della delegazione organizzata dalla campagna lasciateCIEntrare, che non hanno avuto il permesso di entrare a Ponte Galeria, il 19, pubblicata su «Micromega».

Ponte Galeria, “La Guantanamo italiana”, la situazione al Cie dopo il cambio gestione, reportage di Veronica Di Benedetto Montaccini e Giacomo Zandonini su Repubblica.it.

Il Processo di Khartoum e l’esternalizzazione delle frontiere

Strasburgo, 17 dicembre 2014. Sessione Plenaria. Interventi di Barbara Spinelli sul Processo di Khartoum

Doru-Claudian Frunzulică (eurodeputato, S&D):
Presidente, ogni anno conflitti armati, persecuzioni, mancanza di prospettive economiche, violazioni dei diritti umani, calamità naturali, costringono milioni di persone a lasciare le proprie case nel Corno d’Africa per imbarcarsi in viaggi perigliosi attraverso paesi ostili per raggiungere l’Europa. Durante questo viaggio la speranza per la sicurezza propria e un futuro sono minacciati da gang di criminali, contrabbandieri, trafficanti di esseri umani. Una volta giunti in Europa spesso questi migranti si trovano di fronte alla minaccia dello sfruttamento, dell’esclusione e del razzismo. Noi con la nostra politica dobbiamo cambiare il destino di milioni di persone, e per farlo dobbiamo innanzitutto garantire che le politiche che attuiamo vadano alle radici della migrazione: se sosteniamo le organizzazioni civili e i governi nei paesi in via di sviluppo per promuovere una buona governance e costruire una società più giusta, allora la migrazione finalmente diventerà una scelta individuale e non una costrizione. Dobbiamo ricordare i benefici che i migranti protetti possono comunque apportare nei paesi da cui hanno origine [e] nei paesi in cui si recano. Gestire l’immigrazione può creare nuove opportunità e motivare i giovani ad acquisire le giuste competenze, promuovere uno scambio di conoscenze. La migrazione in futuro è destinata ad aumentare, ma se riusciamo a chiarire a noi stessi e alla pubblica opinione che c’è un nesso tra immigrazione e sviluppo, allora la migrazione non sarà più un problema ma parte della soluzione: grazie all’interconnessione che è emersa nelle conclusioni del Consiglio adottate venerdì scorso, questo è un primo passo importante. Sono lieto e attendo di vedere come saranno attuate queste conclusioni del Consiglio.

Barbara Spinelli (eurodeputata, GUE/NGL, rivolgendo una domanda “cartellino blu” al collega):
Collega, sono d’accordo che bisogna andare alla radice dei problemi ma le vorrei chiedere, quando dice che bisogna aiutare e sostenere i governi da cui vengono i migranti, e che questa è la radice del problema, le voglio chiedere se lei ha presente i paesi da cui questi migranti fuggono: le guerre, la fame, le dittature atroci. Perché non è che vengono così, perché lì non c’è abbastanza sviluppo, vengono perché altrimenti finiscono in galera, o peggio. Grazie.

Doru-Claudian Frunzulică (eurodeputato, S&D, in risposta al Cartellino Blu di Barbara Spinelli):
So perfettamente di che paesi si tratta; come lei sa ci sono programmi dell’Unione europea a favore di questi paesi, e tutti questi programmi dovrebbero in qualche modo essere accompagnati da richieste nei confronti dei governi che rispettino i diritti umani, la democrazia, perché applichino un’economia di mercato etc. Noi dobbiamo aiutare questi paesi affinché essi possano dare ai propri cittadini la ragione di rimanere a vivere in patria.

Intervento di Barbara Spinelli:
Parlerò in nome di tante associazioni che denunciano il Processo di Khartoum, e l’esternalizzazione dei controlli di frontiera in vista di respingimenti contrari alle leggi europee.
Temono soprattutto accordi con la dittatura eritrea da cui oggi fugge il 30 per cento dei 150.000 profughi arrivati in Italia.
Abbiamo già visto come l’esportazione della democrazia sia un disastro, un imbroglio. Anche l’esportazione di migranti in campi concentrazionari in Eritrea o Sudan produrrà disastri, e imposture. [Già abbiamo visto quel che produce negli accordi tra l’Italia di Berlusconi e la Libia, sul rimpatrio dei fuggitivi.]*
Il Processo di Khartoum è descritto dal governo italiano come uno salto di qualità storico. Il “salto” è piuttosto in direzione di nuovi accordi con i paesi di transito per bloccare le partenze con il pretesto di esternalizzare il diritto di asilo. Diritto che già oggi in quei paesi non viene garantito effettivamente, neanche in base alle previsioni più restrittive della Convenzione di Ginevra.

*La frase non è stata pronunciata in aula, per mancanza di tempo.

Identificazioni e violenze, richiesto l’avvio di una procedura d’infrazione contro l’Italia

Zeroviolenza.it, 2 dicembre 2014

Un’interrogazione per chiedere l’avvio di una procedura d’infrazione contro l’Italia è stata presentata alla Commissione europea dall’eurodeputata del gruppo GuE/NGL Barbara Spinelli, in merito agli abusi e alle violenze compiute dalle forze di polizia italiana nell’ambito delle recenti operazioni di identificazione e fotosegnalamento. L’interrogazione è stata sottoscritta da altri 31 eurodeputati tra i quali Eleonora Forenza e Curzio Maltese (GUE-Ngl), Elly Schlein (S&D), Cécile Kashetu Kyenge (S&D) e Laura Ferrara (EFDD).

“Secondo una circolare diffusa dal ministero dell’Interno il 25 settembre 2014, i migranti irregolari che rifiutano di lasciarsi identificare commettono un crimine” specifica l’eurodeputata in un comunicato. “Questo implica – come si legge nell’allegato 2 della stessa circolare – che la polizia procederà all’acquisizione delle foto e delle impronte digitali anche con l’uso della forza, se necessario”.

Già il 22 ottobre scorso in una sessione plenaria a Strasburgo Barbara Spinelli era intervenuta sull’operazione Mos Maiorum (per info vedi qui) che si è tenuta “nello spazio Schengen tra il 13 e il 26 ottobre, senza che il Parlamento europeo ne fosse informato”. Un’operazione che si è tradotta in “una criminalizzazione sistematica dei migranti, [..] con retate brutali contro persone in fuga da zone di guerra, dittature, carestie e disastri climatici”. “Abbiamo appreso – sottolineava l’eurodeputata durante la sessione plenaria- che le forze di Pubblica sicurezza italiane sono state incaricate dal Ministero dell’Interno di identificare, anche tramite l’uso della violenza, i migranti privi di documenti”. Un’informazione contenuta anche nel volantino multilingue distribuito ai migranti dalle unità che svolgono attività di soccorso in mare, presso le località di sbarco, nonché alle Questure di accoglienza, in cui si esplicita che “i migranti che fanno ingresso illegale nel territorio dello Stato italiano, anche se soccorsi in mare, devono essere identificati mediante l’acquisizione delle generalità ed il fotosegnalamento [..] effettuato con l’uso della forza se necessario”. Indicazioni che, stando alle testimonianze raccolte nelle ultime settimane – e allegate all’interrogazione – si sono tradotte nella pratica in “abusi e violenze del tutto ingiustificate su migranti e richiedenti asilo”.

Come sottolineato da Spinelli “le pratiche e le istruzioni impartite dal Dipartimento di Polizia ai suoi agenti non sono conformi al diritto europeo e violano la Carta dei diritti fondamentali”: da qui la richiesta, rivolta alla Commissione, di avviare una procedura d’infrazione e “invitare l’Italia a modificare con urgenza la circolare o ogni altra violazione sistemica promossa dallo Stato italiano contro i migranti”.

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